Métodos de la
regresión zoológica
di Fernando Sorentino
In
generale non ci riunivamo nella parte del grande giardino
che affacciava verso via Virrey Loreto, che era poi
quella più interessante e segreta, fin sotto
all'ombú che confinava con il nudo muro di mattoni.
I rami dell'ombú raggiungevano l'alto muro rosso
e formavano come una copertura naturale, sotto la quale
la pioggia, se non era proprio forte, non riusciva a
penetrare. Lì sotto passavamo ore, Luisito ed
io, ed a volte anche Quique, giocando, pensando e discutendo
(sto parlando di quindici o venti anni fa), finché
la mamma o Josefina, uscendo di casa, ci chiamavano
per prendere il latte. Questa merenda non é che
ci andasse proprio tanto, perché non c'era paragone
tra bere caffelatte mangiando pane e marmellata in cucina,
e mangiare noccioline o popcorn sotto l'ombú,
specialmente nei giorni di pioggia. Siccome Luisito
aveva sempre denaro con sé, ed ogni volta compariva
con un pacchetto di popcorn o di arachidi, o con una
dozzina di frittelle o di brioches.
Dal canto mio, io avevo moltissime riviste. Il Billiken
non era un granché, perché era pieno di
schede scolastiche: si salvava per le storie a fumetti
di Pelopincho e Cachirula1 , e perché pubblicava
dei ritratti molto belli di Belgrano in pantaloni bianchi
e giacca azzurra, che io collezionavo incollandoli in
una grande cartella rivestita di carta verde ragno.
Non c'era nulla che potesse superare Paperino e La Gran
Historieta, che era il supplemento. Che cosa c'era di
più affascinante di quelle avventure tanto ben
disegnate, di Paperino e dei suoi tre nipotini Qui,
Quo e Qua, di Gastone, suo cugino fortunato, di Zio
Paperone che fa il bagno nel denaro, del coraggioso
Topolino e dell'ingenuo Pippo, della genialità
di Buci2 e del suo amico Beniamino, che fabbricarono
una macchinina con solo una scatola di cerini e due
rotelline? Luisito preferiva i fumetti d'avventura:
molte volte portò Rayo Rojo e Puño Fuerte,
e anche Misterix, la migliore di tutte le riviste di
avventura, soprattutto per via di Misterix e Bull Rockett,
che mi facevano molta impressione con i loro volti quadrati
e le loro frasi laconiche e ardimentose. Luisito teneva
per Colt Miller, che lavorava in Rayo Rojo ed era cowboy.
Avevamo tagliato orizzontalmente con la sega a mano
due radici dell'ombú, ottenendo in questo modo
due piccole panche per leggere comodamente. La mia la
lisciai accuratamente con la carta vetrata e la dipinsi
a strisce celesti e bianche; Luisito dipinse la sua
di bianco con una banda rossa diagonale, siccome in
quel tempo io tifavo per il Racing e Luisito per il
River (sto parlando di quindici o vent'anni fa).
Io avevo l'abitudine di disporre con orgoglio, secondo
lo schieramento teorico sul campo, la squadra completa
del Racing, fatta con le figurine "Lali":
Carrizo
Perez - Soria
Yacono - Venini - Ferrari
Vernazza - Prado - Walter Gomez - Labruna - Loustau
Senza
dubbio, la mia massima ambizione all'epoca era possedere
qualche squadra completa (purché non fossero
l'Atlanta o il Quilmes, che erano quel che c'era di
peggio al mondo) con le figurine "Starosta".
Disgraziatamente, il loro periodo era già passato.
Pensate un po': erano le figurine più perfette
che l'arte umana avesse mai concepito. Brillanti, nitide,
con colori vivi, un cerchio nero intorno al calciatore,
e il suo nome. Nient'altro: la marca ed ogni altra informazione
commerciale era sul retro della figurina. Ne avevo soltanto
cinque, e le conservavo come reliquie salvate da un'epoca
di dissipazione durante la quale avevo perduto centinaia
di quelle meraviglie: Curutchet, del Vélez; Antonio
García, del Ferro; Armoa, dell'Huracán;
Dutruel, del Chacarita, e Agotegaray, del Tigre.
Sotto l'ombú avevamo diserbato e pareggiato il
terreno, ed inoltre possedevamo, sebbene a volte ci
salissero le formiche, un'invidiabile pista per le biglie.
Tuttavia, non mi andava molto di giocare con le biglie,
perché Luisito barava in continuazione. Per abitudine
non considerava gli accordi precedenti: in buca prima
che bruci, brucia prima della buca, tutte buone, tutte
cattive, colpo, prima del colpo, buono il pieno, male
il pieno, eccetera. E persino i più ignoranti
sanno che, se non si rispettano i bordi, non si può
fare niente, ma veramente niente. Inoltre, faceva delle
spaventose arranzate e così non sbagliava mai
il tiro (figuratevi che, quantunque sia passato tanto
tempo, ancora mi viene da ridere, ricordandomi che Luisito
le chiamava erroneamente rivincite, quando tutti sanno
che si chiamano arranzate). Solo in via del tutto eccezionale,
poteva concedermi una protesta, però se poi,
a causa di una sua concessione, perdeva la partita,
si metteva a gridare: -Eh no! Eh no! Non te la do vinta!-.
E tirava ancora una volta.
Simile a quella disposizione strategico-scacchistica
delle squadre di calcio era quella che adottavamo con
i soldatini di piombo. Luisito stava con San Martín,
ed io con Belgrano; si facevano guerra, caso inaudito,
San Martín contro Belgrano, le cui personalità
dividevamo in due: San Martín e Belgrano erano
infatti sia i loro rispettivi ritratti collocati in
testa agli eserciti che il più elegante soldatino
a cavallo di ciascuno dei due. Ci spingeva a queste
battaglie fratricide il fatto che nessuno di noi poteva
sopportare di condurre i movimenti tattici dell'esercito
spagnolo, e d'altronde, l'unico spagnolo di cui possedevamo
il ritratto era il viceré Cisneros, la cui frangetta
non ci piaceva per niente. In verità, c'erano
anche dei Billiken con i ritratti del viceré
Vértiz, o di Ramón y Cajal, o di Cervantes
(particolarmente nel Giorno della Lingua Spagnola),
però capivamo perfettamente che costoro non volessero
immischiarsi in affari di guerra.
Quel che è certo è che i nostri giochi
erano piuttosto statici e si svolgevano, in generale,
sotto l'ombú, poiché ci era vietato, naturalmente,
di avvicinarci alla parte del giardino che si affacciava
verso via Virrey Loreto, la parte più segreta
ed interessante, perché, oltre il capannone di
zinco, c'erano il ligustro circolare che copriva i verzieri
e, un poco più oltre, tutte le gabbiette.
Il gioco dell'oca fu per qualche tempo il nostro favorito,
ma quando passò il suo periodo, finì automaticamente
per stancarci. Ci fu il periodo delle biglie, il periodo
delle figurine, il periodo della palla e anello e quello
dello yo-yo. Però secondo me niente poteva battere
le figurine, che si potevano giocare al punto, al punto
e volta, alla pentola e, con l'aiuto delle carte napoletane,
al monte d'oro o banca, e a sette e mezzo.
Peccato che io dovessi pure andare a scuola e poi a
casa perdere altro tempo facendo i compiti. A volte,
venendo dalla strada, potevo vedere la testa di papà
e le spalle del suo spolverino grigio sporgere sopra
il ligustro. Egli non mi vide mai, tanto era occupato
tutto il giorno con l'installazione dei tubi e dei cavi.
In un'occasione, tornando da scuola, incontrai il Biondo
della Rimessa, che mi fece vedere qualcosa di meraviglioso.
Nelle sue capienti tasche aveva tutte le squadre complete,
fatte con le figurine "Starosta". Me le mostrò
velocemente, vantandosene e con tirchieria, facendo
scorrere i cartoncini rotondi tra le dita, come per
sentirne l'odore, e cantilenando i nomi dei giocatori
con un sussurro di sufficienza: - ... e Puysegur; Contini,
Mardizza, Benavídez, Montaño e Ortigüela.
- Perché non vieni a casa? - lo invitai, nella
speranza che mi avrebbe permesso di disporre le sue
leggendarie squadre nel cortile per contemplarle a piacimento.
- No, nooo - rispose, con una smorfia delle labbra ed
una stupida aria preoccupata, come se gli avessi chiesto
di venir meno ai suoi doveri. - Devo andare a comprare
sigarette per mio fratello: il più grande, quello
che ha la moto.
Indubbiamente, era colpa dell'acquario. Era proprio
come dicevano la mamma e Josefina: i pettegolezzi cominciavano
a diffondersi e la gente credeva a qualunque cosa. Ed
infatti, Quique già non veniva più e l'unico
che ancora rimaneva era Luisito.
Fu appunto il Biondo della Rimessa che mi insegnò
una frase in turco: jara bisudi erde, baffi sporchi
di merda, a quanto mi disse. Mi consigliò di
gridarla a qualche robivecchi, con la precauzione di
mettermi ad una certa distanza da lui, in quanto, a
quel che gli risultava, era la cosa in assoluto che
faceva più arrabbiare i turchi. Ricordo chiaramente
che, dopo aver preso tutte le possibili precauzioni
ed aver aspettato pazientemente, nascosti su un ramo
dell'ombú che fuoriusciva dal muro, che passasse
un robivecchi, finalmente io e Luisito potemmo gridare
la magica formula che rendeva i turchi folli di rabbia.
Con il cuore in gola speravamo che almeno il robivecchi
(con cappello e espadrillas) ci lanciasse in testa la
lettiera di bronzo che emergeva dal mucchio di bottiglie
vuote e vecchi giornali del carretto: invece questi
non ci prestò la minima attenzione, e si perse
pian pianino in lontananza, lungo la strada buia. Con
Luisito facemmo tre ipotesi: o il Biondo della Rimessa
era un bugiardo, oppure il turco era sordo, o forse
il turco non era turco.
Dapprima giocavamo a colpire la palla di testa nel giardino,
ma non lo facemmo più dal giorno che Luisito
andò a cercare la palla sotto il ligustro e papà
uscì gridando come un pazzo, con le mani grondanti
questo liquido immondo e vischioso:
- Non devi mai attraversare la siepe. Hai capito? Mai!
Hai capito? Mai, mai! Hai capito? - ed ogni volta che
diceva Hai capito? dava a Luisito un scapaccione che
sembrava una mazzata.
Papá è sempre stato una persona collerica,
ma non l'avevo mai visto così, ed in quel momento
mi diede l'impressione di aver scambiato Luisito per
me. Poi, sacramentando e scalciando sassi per la rabbia,
entrò nel capannone.
Luisito si spaventò moltissimo, pulendosi le
unghie. Corse subito a casa, ed io credevo che non sarebbe
mai più tornato. Invece il giorno dopo già
stava di nuovo con me. Ma poi, cosa c'era dietro il
ligustro sotto il capannone che dava su via Virrey Loreto:
niente, qualche asse d'impalcato, le vasche di calcestruzzo
armato, i rotoli delle albisioni, dieci o dodici latte
di olio genico, e le buste col mangime appoggiate contro
la parete esterna. Certo, il capannone era chiuso, però
e chissà che dentro non ci fosse qualcosa dell'altro
mondo (sto parlando di quindici o venti anni fa).
La domenica portammo la radio a batteria sotto all'ombú
e la sintonizzammo su Alfredo Aróstegui che trasmetteva
Racing-River per Radio Splendid. Tanto io che Luisito
passammo un pomeriggio molto nervoso ed agitato, soffrendo
per la sorte dei nostri rispettivi giocatori favoriti:
sapevamo bene che chi teneva per il vincitore aveva
il diritto - che non mancava mai di esercitare - di
burlarsi del perdente. Seguivamo la voce del cronista
con ansietà, cercando di immaginarci visivamente
le azioni che solo conoscevamo per quelle descrizioni,
le cui emozioni erano invariabilmente esagerate. In
questa occasione, toccò a me: il Racing vinse
cinque a tre, ma prima che io potessi cominciare a vantarmi
- cosa che facevamo sempre dopo l'ultimo minuto di gioco,
perché no hay que cantar victoria antes de gloria3
- Luisito iniziò a difendere, prima, e poi a
giustificare il River, basandosi sul fatto che all'ultimo
momento il portiere Carrizo non aveva potuto giocare,
e Rocha, il sostituto, aveva quindi dovuto giocare in
due ruoli, quello di titolare e quello di riserva. Luisito
continuò ad insistere con la tesi che questo
aveva danneggiato moltissimo il River che, concluse,
doveva essere considerato il vincitore morale, secondo
quanto diceva lui, per il fatto di avere perso con due
sole reti di differenza. Ricordo che, nonostante provassi
a ridicolizzare con una risata ironica i suoi argomenti,
questi avevano fatto tanta presa su quella che era la
mia morale a quel tempo, che tutto quello che provavo,
anziché giusta soddisfazione, era come una sorta
di rimorso per quella nostra vittoria così poco
corretta.
Gli avvenimenti collegati a quella partita sono ancora
così vivi nella mia memoria perché quella
fu la notte in cui si sentirono le urla che venivano
dal capannone. Seduto sul letto, le ascoltavo con grande
attenzione, cercando di riconoscerle. Sentii i passi
che arrivavano correndo nell'anticamera e mi infilai
nel letto fingendo di dormire. Josefina entrò
nella stanza e restò gemendo accanto al mio letto
senza sapere cosa fare: gemeva così forte che
mi obbligò a fingere che mi avesse svegliato.
Le urla si sentivano ancora più forte di prima
ed erano accompagnate da schianti sordi e da rumori
secchi, che immaginai fossero prodotti dagli utensili
che urtavano contro il metallo del capannone.
-Che succede?- dissi, sgranando gli occhi per dare maggior
realismo alla mia recita.
In maniera quasi buffa, Josefina cominciò a tapparmi
la faccia, la testa, le orecchie con i cuscini e le
coperte per evitare che io ascoltassi le urla. Ma che
urla!! Entravano attraverso le coperte, le lenzuola,
le piume, la lana e si incrostavano nella testa fino
alla nuca, dentro alla bocca fino giù in gola
e nel collo, opprimendomi il petto e togliendomi il
respiro come se non avessi più i polmoni, come
se avessi un piccolo paio di branchie.
Il giorno dopo fu un giorno come qualunque altro. Costruimmo
una pista con delle curve esagerate e organizzammo gare
con le macchinine di plastica. Io tenevo per Oscar Gálvez
e Luisito per Fangio. Recentemente mi avevano insegnato
un buon argomento per ridicolizzare Fangio a favore
di Gálvez. La sigla
C.G.F.S.A.
che
appariva sui fiammiferi "Ranchera" (che voleva
dire Compañía General de Fósforos
Sud Americana4 ) significava, secondo la mia interpretazione,
Correndo Gálvez, Fangio sempre appresso5. Come
si può vedere, il colmo dell'ingegnosità.
Ma Luisito, con indubitabile mancanza di logica, introdusse
una modifica scorretta: Correndo Gálvez, Fangio
sempre avanti. Lo sproposito era evidente. La mia filologia
presupponeva che Fangio potesse essere davanti quando
Gálvez non correva, ma correndo Gálvez,
Fangio sempre appresso. Al contrario, quella di Luisito
voleva dire che la condizione indispensabile affinché
Fangio andasse avanti, era che corresse Gálvez*.
Io avevo una macchinina azzurra, teoricamente Ford,
la numero uno, la guidavo, ed ero Oscar Gálvez.
Luisito (Juan Manuel Fangio) correva con la Chevrolet
numero due, tutti e due trasmettevamo le emozionanti
gare imitando le voci di Luis Elías Sojit e di
"Corner". Nello stesso tempo, ruggivamo ferocemente,
come senza dubbio avrebbero fatto i motori delle nostre
macchinine, se non fossero stati ripieni di stucco.
Le nostre competizioni arrivavano a diverse migliaia
in poche settimane e, siccome non prendemmo mai la precauzione
di annotare i rispettivi trionfi, ancora oggi - dopo
tanti anni ed in un'altra condizione di vita - ognuno
di noi è convinto di aver collezionato il maggior
numero di vittorie.
Josefina mi guardava con diffidenza, per vedere gli
effetti che avevano causato in me gli avvenimenti del
giorno, come dicono i giornali. Io fingevo di essere
triste e terribilmente contrito, così che la
povera vecchia non si rendesse conto che io avevo già
ascoltato in più d'un'occasione urla come quelle,
anche se con timbro diverso, il che era logico, perché
non poteva essere lo stesso. I grandi non capiranno
mai che i bambini si rendono conto di tutte le cose,
ma che, mossi a compassione dai grandi, giocano a far
vedere che non sanno nulla.
Luisito
non parlò mai dell'episodio del capannone e avrebbe
avuto ancora meno ragione di farlo ora, che avevamo
imparato a muovere i pezzi della scacchiera. Lui era
più concentrato di me, e gli piaceva quel gioco;
al contrario io tendevo a distrarmi, e non riuscivo
a starmene seduto come uno sciocco davanti a quei quadrati
marroni e gialli. E siccome quel giorno papà
era uscito alla mattina (l'avevo visto andarsene con
Gustavo, che gli portava la scatola con le larve delle
laziane), mi venne in mente che potevamo tornare a giocare
a pallone. Fosse quel che fosse, se la palla se ne andava
sotto il ligustro, ce la riprendevamo in un attimo.
- Gol di testa vale due, gol al volo conta tre e non
si calcia la palla persa.
Quando Luisito ebbe accettato questo regolamento, cominciammo
a giocare, ma uscì mamma e ci chiese per favore
di smetterla. E nello sguardo supplichevole che incrociammo
c'era l'immagine sinistra di mio padre. Altre volte
avevo disobbedito a mia madre, ma questa volta le dissi
immediatamente sì, poveretta, che tante volte
si era messa a piangere, credendo che io non la vedessi.
Nella notte, leggendo i fumetti di Fratel Coniglietto,
mi ricordai che era molto tempo che papà non
usava i conigli. Al principio (ma molto al principio
di tutto), anch'io potevo guardare, ma senza toccarle,
ovviamente, le casse di vetro e fil di ferro, con i
rospi, le rane, tutte quelle lucertole di tanti colori
(con il cartellino: lacertidi), e qualche serpente o
vipera. Ed in quel tempo, papà aveva ancora buon
umore, o almeno un umore normale, ed a volte mi parlava
anche, non era come più avanti e specialmente
non era come nel periodo delle urla. Ed anche in tempi
più recenti, nella settimana in cui la mamma
disse che la vecchia Josefina aveva dovuto tornare a
Gualeguaychú, prima che finisse di dirlo io sapevo
già che era una bugia. Dopo, papà e Gustavo
cominciarono a portare animali più belli: criceti,
conigli, cavie ed anche topi veri, che non erano così
carini. Tutte le gabbiette riposavano contro il capannone.
In quel tempo potevamo attraversare la ligustro, sempre
senza entrare, perché già l'acquario era
completamente installato.
Per dire la verità, il coniglietto mi fu molto
utile per parlare con Susana. Portai il coniglio, che
era uno dei pochi animali che ancora papà mi
lasciava toccare, in braccio fino al marciapiede della
casa di Susana (perché da sopra lo steccato l'avevo
vista seduta su di una seggiola nel giardino mentre
giocava con figurine coperte di fiori e brillantini).
Le mostrai il coniglietto attraverso la griglia e lei
subito uscì per accarezzarlo. Io ero il fidanzato
di Susana, anche se nessuno lo sapeva: era una ragazzina
bellissima, con la faccia molto colorata ed i denti
molto grandi. Peccato che fosse così prepotente
ed autoritaria.
-Che carino!- disse mentre gli accarezzava il dorso.
-E' tuo?
-Logico- affermai con orgoglio, ma subito dopo mi corressi
-Bah... è del mio papà.
-Ah, del tuo papà- e si mise a pensare (capii
che stava pensando perché si mordeva le labbra,
le costava poca fatica con quei denti così grandi
che aveva).
Stava mettendo in relazione il fatto con qualcosa già
accaduto prima: le ragazze non sono intelligenti come
i ragazzi, quando lei cominciava ad arrivare, io ero
già sulla via del ritorno.
-Susy!- urlò la mamma, mostrandosi da sopra lo
steccato -Torna subito dentro. Di corsa, eh?
-Aspetta, mamma- Susana ebbe un gesto di fastidio, voleva
senza dubbio completare il suo ragionamento.
La mamma non attese un minuto, l'afferrò per
un braccio e se la trascinò dietro: dicendole
di lavarsi le mani con l'alcool.
Ma questo del coniglio successe molto tempo fa: era
l'epoca in cui papà ancora mangiava e dormiva
a casa. Dopo fu Gustavo l'incaricato di venire a prendere
la roba da mangiare per portarla al capannone dove dormivano
tutti e due insieme.
Lentamente i conigli ed i topi venivano sostituiti da
altri. Il primo sintomo dell'indomabile irritabilità
di papà coincise con l'arrivo del titì
peruviano. Lo scimpanzé, che arrivò dopo,
fu indubbiamente il più simpatico di tutti gli
animali che passarono per casa, non come il gorilla
che portarono più tardi, quello che dovettero
far entrare di notte, di nascosto, perché tutto
il vicinato stava all'erta. E poco dopo Josefina se
ne andò a Gualeguaychú.
Da qui in poi successero così tante cose e così
rapidamente che persi la nozione del prima e del dopo.
Non so veramente se il fatto dei cinque vagabondi, che
papà invitò a mangiare nel capannone,
successe prima di quello del Biondo della Rimessa e
sinceramente mi è impossibile ricordare se mamma
provò a suicidarsi prima o dopo dell'ingresso
di Susana, Luisito e me, che fu simultaneo.
La giustizia umana non poté raggiungerci e gli
ittiologi determinarono che eravamo tutti di acqua dolce.
Ci tennero più di un anno di osservazione a La
Plata, ed una volta comprovata la nostra normalità
totale ci buttarono nella laguna di Chascomús.
Ora Luisito ed io giochiamo fra i giunchi, cercando
lattine vuote o scarpe e ci divertiamo intrecciando
i fili dei pescatori.
Josefina è ancora preoccupata e paurosa e guarda
con prevenzione la grotta della costa Est, dove papà,
più arrabbiato e nervoso che mai, lavora giorno
e notte (a volte posso vedere, mentre è curvo
sui suoi strumenti o maneggia i rotoli delle albisioni,
le squame del dorso, ma lui non mi vede mai), lavora
giorno e notte con il fedele Gustavo, nell'arduo lavoro
che richiede l'installazione corretta di un algario.
*In
un momento di estrema calma spirituale ed insospettabile
lucidità, ho riflettuto sul fatto che questa
formula è in realtà più sottile
della mia: in effetti, Fangio ce la mette tutta per
vincere le corse solo quando corre anche Gálvez,
per umiliarlo.
1.
Fumetto dell'anglo-uruguayano Fola, che durò
circa trent'anni sul Billiken.
2. Personaggio Disney (Bucky Bug) apparso per la prima
volta nei cortometraggi della serie Silly Symphonies
negli anni '30 ed abbastanza noto fino agli anni '50.
Buci fu disegnato, fra gli altri, da Al Taliaferro.
3. Non si deve mai cantar vittoria prima che tutto sia
finito.
4. Compagnia Generale Fiammiferi Sud Americana.
5. Atrás, cioè dietro nell'originale.
Fernando Sorrentino è nato a Buenos Aires l'8
Novembre 1942. I suoi racconti sono caratterizzati
da un interessante mix di immaginazione e humour che
talvolta sconfina nel grottesco. Professore di letteratura,
alterna l'insegnamento alla scrittura. Non scrive
moltissimo perchè, come dice lui stesso, preferisce
leggere.
Alcuni dei suoi racconti sono stati tradotti in inglese
e sono stati pubblicati in diverse riviste letterarie
e in antologie negli Stati Uniti e in Gran Bretagna,
di questi, alcuni sono stati diffusi dalla BBC di
Londra.
Nel 1988 la casa editrice dell'University of Texas
ha pubblicato un volume con una selezione dei suoi
lavori col titolo di Sanitary Centennial and Short
Stories, tradotta in inglese ed annotata dal professor
Thomas Meehan, dell'University of Illinois (Urbana,
Illinois). Il romanzo satirico Sanitarios centenarios
è stato tradotto in portoghese con titolo Sanitários
centenários, da Reinaldo Guarany (Río
de Janeiro, José Olympio Editora, 1989.).
Oltre alle opere narrative ed a quelle di giornalismo
culturale, ha scritto saggi completi su scrittori
classici spagnoli e argentini (don Juan Manuel, lí
arciprete de Hita, Juan Ruiz de Alarcón, Mariano
José de Larra, José Hernández)
ed ha curato diverse antologie tematiche di racconti
argentini che sono state pubblicate dalla casa editrice
Plus Ultra di Buenos Aires.
Fernando Sorrentino ha collaborato o collabora con
la sezione letteraria dei giornali La Nación,
La Prensa, Clarín, La Opinión, Letras
de Buenos Aires, Proa ed in altre pubblicazioni argentine
o straniere. È il corrispondente e collaboratore
della rivista ferrarese Osservatorio Letterario -
Ferrara e l'Altrove.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le raccolte di
racconti: Imperios y servidumbres (1972), El mejor
de los mundos posibles (1976), En defensa propia (1982),
El rigor de las desdichas (1994), Existe un hombre
que tiene la costumbre de pegarme con un paraguas
en la cabeza (2005), El regreso, y otros cuentos inquietantes
(2005); ed il romanzo Sanitarios centenarios (1979).
Di Siete conversaciones con Jorge Luis Borges, Buenos
Aires (1974), libro che raccoglie le sue interviste
con il più grande scrittore argentino del secolo
XX, esiste anche una versione italiana: Sette conversazioni
con Borges (Mondadori 1999 - trad. Lucio D'Arcangelo).
Il libro, inoltre, è stato tradotto in inglese
(Troy - New York 1989) ed altre traduzioni sono in
preparazione (compresa una in cinese). Al romanzo
inedito Un estilo de vida [Uno stile di vita] è
stato attribuito il premio del Concorso Eduardo Mallea
nel genere racconti e romanzi del periodo 1995-1997.
Da Marzo 2006 nella collana "I
libri di PB" è disponibile
la raccolta di racconti:
PER COLPA DEL DOTTOR MOREAU ED ALTRI RACCONTI FANTASTICI
di Fernando Sorrentino
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