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D'acque dolci
di Fabienne Kanor
Pubblicato su PB16


Anno 2005- Morellini Editore
Prezzo € 13- 181pp.
Collana Griot
ISBN 8889550007

Una recensione di Carlo Santulli
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Credo che si possa parlare di una tendenza nella letteratura "nera" in lingua francese, volta a discutere il rapporto tra la madrepatria d'origine, con quel che importa di ricordo e di una deretoricizzata "nostalgia", e la patria acquisita, con le sue insospettabili durezze, venate di una tolleranza che è spesso sordità. Spesso, questa relazione si complica, nel momento in cui l'educazione ricevuta riflette aspetti di entrambe le culture, cosicché si vive all'estero dappertutto e, quel che è peggio, in un estero interiore, che genera spaesamento da qualunque direzione ci si volti. E' l'essenza di essere déraciné, senza radici, e di per sé non è un fenomeno nuovo: di nuovo, da qualche anno a questa parte, è la volontà di spiegarsi fino in fondo, di scendere nell'animo, di non accettare di farsi semplificare o descrivere con parole inadatte. Meticciato, certo, ed orgoglioso, anche, specie nel momento in cui ci fa capire che la correttezza politica, oggi tanto in voga, non è che la faccia pulita, e solo apparentemente opposta, dello stesso razzismo che vuole combattere, e ci fornisce a piene mani solo parole anodine e denaturate, fatte per gli schedari dell'anagrafe, non certo per la letteratura.
Ma non vorrei andare troppo in là nella mia valutazione: il dato di fatto letterario è che sono recentemente nati alcuni scrittori di sorprendente vitalità ed espressività, proprio all'incrocio tra le due culture, caratterizzati specialmente da una notevole libertà e trasversalità rispetto agli stantii codici ed alle regolette da best seller, e da una vis narrandi che travalica gli schemi consueti, per prima l'idea del finto anticonformismo e del manicheismo cui tanta letteratura d'oltreoceano ci ha abituato. Sono ottimi esempi di questa tendenza il misterioso Chimo di "Lila m'a dit" e Bessora, la scrittrice belga di origine gabonese: in entrambi i casi c'è un interesse smodato, che quasi si rivolge in fobia, per la metropoli nel suo insieme, la banlieue vista dal suo interno, ed un insospettabile approfondimento psicologico, che non si ritrae di fronte a nulla, e che mostra che follia e saggezza sono in fondo questione di sfumature, non di determinismo poliziesco un po' calvinista.
Un'altra scrittrice di notevole interesse è Fabienne Kanor, che ha avuto l'onore di un esordio presso Gallimard col suo "D'eaux douces" che troviamo, efficacemente tradotto da Lucia Quaquarelli, pubblicato presso Morellini, nella collana Griot, di cui abbiamo già recensito "Transit" di Abdourahman A. Waberi. La scrittrice di origine martinicana sviluppa fino in fondo la tematica del contrasto tra la cultura di origine e quella acquisita. Frida è una giovane donna che finisce per uccidere semplicemente per lavare quel che di atavico e profondo ha dentro, quell'idea dell'uomo racchiusa semplicemente nella sua potenza sessuale (o procreatrice, nel caso della donna, il che è come dire le due facce di una stessa medaglia): "Ci sono dei cadaveri nella nostra famiglia di cui nessuno parla. Antenati che puzzano. Un odore così forte da far venire il vomito. Armata di un secchio di varechina, io pulisco. Pulite. Puliamo. Per ritrovare il filo della storia" (p. 123).
L'educazione sembra non solo non averla aiutata, ma averle con molta evidenza (e sotterranea violenza) tarpate le ali: "Sono cresciuta con la paura di parlare. Il terrore di aprire bocca. L'angoscia delle conseguenze. Sono stata educata così. Non sono di questo mondo, sono sospesa a un metro d'altezza, con lo sguardo fisso, puntato su un passato che con il tempo è diventato sempre più confortante" (p. 151). Ed anche il femminismo di maniera delle amiche dell'università rimane superficiale, incapace di andare a fondo di una storia di prevaricazione e di schiavitù: "Come la maggior parte delle ragazze della sua generazione, infatti, Marlène si annoia. E vede nella più piccola avventura che le si presenta davanti un'ottima occasione per distrarsi. Tenuto conto di questa logica, Musclor non è un figlio di puttana perché l'ha picchiata, ma perché non si è fatto vivo per quarantotto ore" (p. 61).
Va dato merito a Fabienne Kanor di esser riuscita ad arginare una storia difficile da racchiudere in un libro, e difficilissima da raccontare, al di là della levità di certe situazioni, che possono far pensare ad una sottile vernice farsesca, da cui l'autrice fugge, lasciando solo lo strascico di un'inevitabile ironia. Non è semplice restare in equilibrio tra due culture e tra due storie, che sembrano combattersi e dilagare in onde d'urto che vengono dal profondo, e tra ciò che si è e ciò che confusamente si cerca di essere, tra proclami leggermente psicanalitici, come nel richiamo alla fine delle ossessioni e delle idee nere, ed il continuo rimbalzo tra un di qua ed un di là, tra un terzo mondo globalizzato ed un occidente sedicente terzomondista.
Ecco, non vorrei dare l'impressione, sbagliata, che un libro come questo non ci riguardi, che parli di storie locali molto lontane da noi: in realtà è un testo eccezionalmente profondo sul rapporto tra la realtà contingente e le nostre pulsioni inconsce, la nostra storia ancestrale, che crediamo e sosteniamo di non aver mai vissuto. Tutto questo viene racchiuso in un, penoso per quanto fittizio, involucro di rispettabilità borghese, fatto di aspirazione al posto fisso (non al lavoro, ci mancherebbe), di convenzioni, di perversioni sessuali vissute nel silenzio, anzi nell'omertà. Un mondo fatto di quinte insospettabili, che si aprono su storie mai dimenticate, dove la bacchettata sulle dita della maestra meticcia è soltanto una versione appena civilizzata dello scorrere delle catene della schiavitù tra le frustate delle onde, dove si tradisce per non essere traditi, e si uccide per… Sarebbe difficile per me concludere che non ci siamo dentro tutti, in un mondo così, che la correttezza politica non sempre vale a mascherare.


Una recensione di Carlo Santulli



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