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Transit
di Abdourahman A.Waberi
Pubblicato su PBSR2006


Anno 2005- Morellini Editore
Prezzo € 12- 147pp.
Collana Griot
ISBN 8889550015

Una recensione di Salvo Ferlazzo
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Leggendo il romanzo di Abdourahman Waberi, verrebbe da chiedersi se Gibuti sia poi così lontana dall’Europa, come le carte geografiche mostrano.

Eppure, il libro di Waberi induce a ritenere di no.

Cinque personaggi accomunati dall’esigenza di raccontarsi, di occupare un posto sulla scena del transit dell’aeroporto Roissy-Charles De Gaulle, si contendono la scena, con lo scopo di “raccontarsi” in modo diverso dal solito.

Il loro progetto parte da lontano, da due regioni del globo contrapposte, che si congiungono in un punto di questo piano cartesiano dell’esistenza di ognuno di loro, di ognuno di noi.

I personaggi di Waberi rispondono ad una domanda della mente, comparsa altre volte, ma che tuttavia non aveva ancora assunto quella consistenza dovuta e propria delle idee quasi assillanti.

In quello spazio percorso da una moltitudine di gente che si vede soltanto in controluce, essi vivono i momenti di sosta nel transit in compagnia di una presenza segreta. Meditativa, comunicata attraverso ricordi sparsi, dove rappacificazione, compassione, malinconia, come evocati di un “largo” musicale, aprono i loro occhi verso altri orizzonti.

In quello spazio-tempo di contrattazione tra i molti “io”, vanno cercando una sintesi per raccontarsi, e spiegarsi.

In una sorta di armistizio immaginario, Bashir depone la sua divisa sporca della polvere e del sangue dei giorni combattuti contro i ribelli, per vestire i panni dell’esule imperfetto, perché ancora vincolato dagli istinti di quel suo essere voce e linguaggio delle viscere. Forse il suo ravvedimento è tardivo, e sicuramente non cancella il percorso della sua vita.

Nello scontro fra gli issa, fautori dell’indipendenza di Gibuti, e gli afar, che chiedevano il mantenimento dei legami con Parigi, si inserisce la figura romantica, ma disillusa, di Harbi, intellettuale che vive ancora una passione civile e politica non del tutto sopita.

Ha lasciato il cuore nel suo paese, e deve occuparsi solo dal suo corpo.

Avverte ancora, come uno schiaffo, la risposta che ricevette quando domandò chi fossero quelle persone, i francesi, e perché fossero nel suo paese.

“ Perché sono più forti di noi”, si sentì rispondere.

Egli vive, nel 1977, la splendida esperienza dell’indipendenza di Gibuti, e ne ricava sogni, speranze per un futuro diverso.

Ma le vicende storico-politiche degli anni seguenti, lo avrebbero svuotato dei tanti sogni giovanili.

Adesso vive a cavallo di due continenti, e inforcate le lenti di chi ha studiato in Europa, vede ancora flussi di gente del suo paese, e di altre zone d’Africa, spostarsi per andare a trovare pace, serenità in una Europa non ancora sintesi politica al suo interno, e men che meno con gli epigoni storici di questa transumanza sconvolta da circostanze ostili, condizionamenti pervicacemente voluti, contingenze che non danno tregua.

Harbi affida, allora, al ricordo delle sole persone che in quel momento lo accompagnano nella solitudine di quel transit, la possibilità di un senso all’esistenza: suo padre, Awaleh, suo figlio Abdo-Julien, sua moglie, la bretone Alice.

Da questo momento in poi, la narrazione di Waberi si arricchisce, così, di un nuovo elemento: la memoria ,chiamata a rispondere perché quelle traiettorie esistenziali, disegnate per ricomporre un’immagine rinata, non cadano vittime di una non-esistenza.

Waberi disvela un intimismo a volte irrisolto, a volte no, che conduce per mano i tre protagonisti che tentano di governare quei frammenti di esistenza che li hanno educati e che loro stessi hanno generato.

Waberi diventa lo scriba prediletto delle loro memorie, aiutandoli a sostenere quel sentimento che i latini chiamavano pietas di sé, e che altro non è se non quella speciale sensazione di benessere, e di pace, che la reminiscenza genera, quasi una sorta di pedagogia della vita.

In questa proustiana rechérchè maturano le condizioni lenitive, e i poteri analgesici di questo lavoro della memoria.

Nel ritmo impresso dalle immagini evocate, nei colori mai chiassosi, ma sempre discretamente presenti, si muovono Awaleh, Alice, e Abdo-Julien.

L’autore mostra ognuno di questi personaggi collocato nel suo cono di luce, dove il gesto della memoria diventa irripetibile, perché il successivo esclude il precedente.

La dissolvenza esistenziale dei loro racconti alimenta,si, il sentimento del distacco, razionalizzando la percezione della nuova condizione; ma allo stesso tempo, fornisce la chiave ricompositiva per elaborare nuove connessioni dentro spazi e corridoi che restituiscano la giovevole sensazione della presenza di molte, tante dimensioni e di crearne, quindi, di nuove.

Integrazione ed integralismo costituiscono il movente dell’analisi esistenziale dei cinque personaggi; il transit diventa il brodo di coltura per favorire una metodologia retrospettiva, quasi una sorta di storicizzazione del passato, a condizione che la sedimentazione forzata dei ricordi non prenda il sopravvento e rimescoli in un indistinguibile presente, i brandelli di quei ricordi che costituiscono la loro vita, e anche la nostra.

Oliver Sacks scriveva “…Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire”.


Una recensione di Salvo Ferlazzo



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