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L'esecuzione
di Maurizio Rosa
Pubblicato su SITO


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L'attacco fu rapido ed efficace. Venti uomini armati riuscirono ad entrare nell'ospedale cogliendo tutti di sorpresa e in pochi minuti minarono l’intero stabile trasformandolo in un fortino inespugnabile.La notizia si sparse veloce. L’ospedale fu circondato dalle forze della coalizione e cominciarono, come da prassi, le trattative. Infine l’accordo: per ogni ora di tregua, estesa in tutto il paese, i terroristi avrebbero rilasciato uno degli ostaggi, cominciando dai medici e dagli infermieri che appartenevano a varie associazioni umanitarie. Quella donna sarebbe stata il decimo ostaggio liberato e da 10 ore le armi tacevano. Il capo dei ribelli si grattò la barba soddisfatto. Poi fece cenno ad uno dei suoi di farle indossare il camice che avevano preparato con cura. Terminata la vestizione si allontanò di qualche passo per controllare che tutto fosse a posto. La donna sembrava appena uscita da una rivista medica, proprio come piaceva agli occidentali. “Vieni qua!” Le disse nella lingua del nemico, scandendo bene quelle due parole. L’ostaggio barcollando leggermente imbottito com’era di sedativi, si avvicinò. “Ora verrai liberata, non sei contenta?” La donna, mosse la testa in segno d’assenso, ma la sua espressione non mutò. “Ecco vedi, devi solo uscire, e in fondo a quella strada troverai i tuoi”. Quando la videro sbucare i giornalisti cominciarono a premere contro il cordone di soldati. Il comandante del contingente guardò preoccupato la scena, c’era qualcosa che lo disturbava, ma non riusciva a capire di cosa si trattava. Fece cenno ai militari di spingere indietro tutta quella folla chiassosa portatrice di guai, ma quando l’infermiera arrivò a pochi metri da loro, un uomo corpulento, con una poderosa spallata, riuscì ad aprirsi un varco facendo cadere un paio di militari. Immediatamente, come un fiume in piena, i giornalisti si riversarono intorno alla poveretta, mentre telecamere e registratori si alzavano sopra le loro teste. Il comandante del contingente gridò immediatamente, quando notò un filo rosso uscire dal camice dell’ostaggio e fu l’ultima cosa che fece. Insieme con un centinaio di persone passò dalla vita alla morte in un lampo di luce. Che fare ora? L’unica soluzione era un attacco immediato sperando che la forza dell’esplosione avesse prodotto un certo scompiglio anche all’interno dell’edificio. Vedendo quel movimento di mezzi e di uomini, il capo dei terroristi sorrise soddisfatto. Tutto si stava svolgendo come previsto. Ormai non aveva più rimpianti, il paradiso se lo era proprio guadagnato. Accarezzò il secondo detonatore che teneva assicurato alla cintura e aspettò che le forze della coalizione entrassero nello stabile. Alle prime raffiche di mitra premette il pulsante. La seconda esplosione fu tremenda e dell’ospedale non rimase che un ammasso di rovine e polvere. Nel crollo trovarono la morte un migliaio di persone, i feriti furono più di 5000 e un intero quartiere fu distrutto e le cifre sarebbero presto aumentate perché non c’era un posto dove curare superstiti. Rilanciata dai telegiornali la notizia fece il giro del mondo e subito infuriò l’ennesima polemica sull’inefficienza della coalizione, l’impreparazione degli uomini, la leggerezza dei suoi comandanti, l’assurdità di quella guerra. Era l’ennesima azione terroristica dentro e fuori quel paese devastato e non vi era, ormai, nazione che non piangesse le sue vittime per lo più civili, volontari, donne e bambini.
“Basta!” Disse il Presidente al capo della CIA “ Sto rischiando una disfatta, tirami fuori da là!” “E’ Impossibile!” Rispose deciso il capo della CIA “La parola impossibile per me non esiste!” Urlò il presidente tutto piegato in avanti con gli occhi fuori dalle orbite. Poi si calmò “Ti do carta bianca, ma tirami fuori da quella trappola, non m’interessa come”. “Completa libertà d’azione?” Chiese quello, incredulo. “Completa libertà d’azione” Replicò il Presidente.
Una debole luce artificiale filtrava dalla stretta feritoia e illuminava l’angusto spazio in cui era rinchiuso. Non aveva dormito quella notte. Gli era servito quel tempo per ripensare alla sua vita, ma, soprattutto, per odiare. Odiare i suoi aguzzini che per anni lo avevano appoggiato, consigliato e fatto affari con lui, per poi muovergli contro gli eserciti e reclamare, ora, la sua morte. Odiare chi l’aveva tradito e umiliato, costringendolo, per più di un anno, in quella cella che sapeva di escrementi, sudore e paura. Sentì la porta aprirsi. Un brivido freddo gli percorse la schiena. Uomini armati, nelle loro linde uniformi erano venuti a prenderlo per l’ultimo breve percorso. Non ci furono parole, solo mani forti che legavano e spingevano, senza gentilezza. Il corridoio era un lungo tunnel scarsamente illuminato che lui stava percorrendo quasi strisciando, costretto com’era dai lacci che gli impedivano i movimenti. Fu a metà del percorso che vide trascinare via l’altro detenuto. Per niente rassegnato, quello si agitava e mugugnava sotto il cappuccio che gli copriva il volto. Dunque avrebbe dovuto subire anche l’umiliazione di una morte collettiva e quella, probabilmente, di una fossa comune. Sentì le forze mancargli. Non meritava una morte così infame. Non lui, il più grande dittatore degli ultimi 20 anni. La porta di ferro si aprì senza rumore e una luce intensa lo colpì facendogli socchiudere gli occhi. Fu spinto al centro della stanza accanto ad un tavolo operatorio. Di fronte a lui una finestra a specchio si apriva verso un triste orizzonte di guerra. Cosa volevano fare ora? Torturalo prima del supplizio? Che senso aveva! Poi si rese conto di quante volte lui stesso aveva utilizzato la crudeltà fine a se stessa e rimase sgomento pensando a ciò che gli poteva capitare. Fu allora che fu distratto da un clamore assordante che proveniva da fuori. Si mosse istintivamente in avanti e vide dalla finestra, una piazza gremita di una folla urlante che agitava le mani maledicendo il suo nome. Vide il cavo d’acciaio di una gru che veniva calato in mezzo a quella confusione e lo vide riavvolgersi trascinando con se, appeso per il collo, un uomo, il quale finì la sua macabra corsa, proprio al di là della finestra, a pochi metri da lui. Rimase attonito a guardare quel corpo che si contorceva spasimando nel supplizio, mentre una macchia umida si allargava sui calzoni polverosi. Poi una lenta rotazione, portò quel viso agonizzante di fronte al suo. Sgranò gli occhi e rimase attonito quei lineamenti tanto, troppo simili ai suoi. Gli sembrò assurdamente di assistere alla sua esecuzione. E lo sgomento divenne terrore. Un terrore freddo, acuto, che gli strinse le viscere in una morsa dolorosa. Si guardò intorno disperato come per cacciare dagli occhi quella diabolica suggestione. Fu allora che vide i due uomini in camice verde che entrati nella stanza, camminavano piano verso di lui sorridendogli.


Si alzò lentamente dal letto ed entrò nel bagno sfarzoso. Appoggiò le mani sul lavandino, e tenendo la testa bassa e gli occhi chiusi, aspettò: Quando si sentì pronto, sollevò piano lo sguardo verso l’ampio specchio. Doveva ancora abituarsi a quel volto. Spostò la faccia da un lato e poi dall’altro e fece alcune smorfie con la bocca. La pelle tirava in qualche punto, ma non notò alcuna cicatrice, e niente che ricordasse la sua originale fisionomia. Pensò al suo vero volto e lo vide penzolare deformato da quella gru, sopra il corpo di un altro. Gli avevano fatto vivere la più perversa delle situazioni. Assistere alla sua esecuzione per poi farlo risorgere. Ripensò al terrore provato e scosse la testa. Poco importava, lui era di nuovo in sella. Come ai vecchi tempi sarebbe stato di nuovo il capo indiscusso di questo paese, l’unico in grado di riportare l’ordine dei tempi passati. Ripetè il suo nome, un paio di volte, tanto per abituarsi alla nuova identità. La sua voce, forse, poteva essere addomesticata ancora un po’, ma c’era tempo per questo. Sbadigliò con precauzione e si girò. La sua vecchia uniforme era là, messa in bel ordine, appoggiata sulla sedia pronta ad essere indossata.

© Maurizio Rosa





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