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La quarta casa
di Domenico Ingenito
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Quando decenni prima, per la prima volta, le chiesero il nome della sua terra lei non sapeva cosa rispondere. Tre case, un incrocio, due donne. Prese uno scialle, si strinse negli occhiali, e uscì di casa.
Aveva preso la decisione nella stanza del fratello, che decenni prima aveva scelto l’uomo che lei avrebbe servito per mezzo secolo, che decenni prima era morto e sepolto nella terra, come si usava nelle colline, accanto al Fico. La terra umida di fichi marci, i piedi scalzi e l’asino che le morde una spalla, lei lo lega al fico e lo percuote, e rabbiosa, contorta, appassionata latra i nomi dell’asino.
Nel tempo lei e le sorelle persero gli ultimi denti, per il loro vizio di camminare scalze quando tirava aria di neve e le montagne più alte sfolgoravano di freddo.
Perché loro confidavano i loro segreti agli animali e tiravano il collo alle galline e si attorcigliavano alle viti come se quella terra non avesse mai avuto nome, lì intorno alle colline attorno alla terra in tondo al golfo addosso al vulcano.
S’incamminò per il sentiero che decenni prima, ogni giorno, l’uomo degli uomini percorreva per saltellare da un villaggio all’altro, da una terra senza nome all’altra alla ricerca di sorelle nubili e di fratelli facoltosi maestri di vigneti e campi di fatica.
L’uomo degli uomini conosceva il carattere dei fratelli con i quali contrattava uomini da sposare, e le sorelle tutte in fila nel corridoio con la più vecchia da sistemare per prima e il primo uomo che l’uomo degli uomini aveva da presentare, con l’occhio strabico e la gamba di legno, e le monete in tasca, e allora come si usava fare in quelle terre senza nome un giorno si partiva e nessuna messa veniva consumata se non nella cappella delle vacche e il prete muto a consacrare matrimoni senza vestiti né confetti.
Quando decenni prima lei aveva camminato, scalza, per quella strada sapeva che tra una strada e l’altra le terre senza nome aprono le braccia al tutto che è tutto che io ti sposo e sei la mia donna perché in queste colline senza nome tu non devi lavorare e sei la mia serva in quanto io ti rendo servizio.
E adesso, con lo scialle in spalle, le tre case l’incrocio le due donne alle spalle, che scendeva per la strada tra i campi e i ricordi, il suono delle sorelle nel letto a parlare di lei la sfiorava a ogni passo. E sedeva sul muretto, riposava e ascoltava il respiro che pulsava nelle gambe e nelle vene varicose, la sorella più vecchia che le diceva che lei era pazza come l’asino e la sorella più giovane che piangeva sempre e non parlava mai se non per chiedere che cosa avrebbe dovuto cucinare per la cena.
<> aveva detto in dialetto, con la forza dell’impassibilità nelle sillabe che chiudono un discorso che non porta mai lontano. E le sorelle snocciolavano il rosario in perle di legno e imprecavano alla Madonna di Monte Vergine, e alla Nostra Signora del Latte, la Nostra Signora della Salute, Nostra Signora dell’Agonia, che era una pazzia, che il mondo finiva dove le tre case si schiudevano sulle pendici delle colline, e poi le pianure con le strade che s’incrociano, e i destini che spaventano e gli incontri che a ottant’anni non sono altro che fornicazione del pensiero.
Le sorelle erano minuscole da stare nelle tasche del gigante del paesino, il lavoro aveva tolto loro l’acqua dalla testa e le orbite dei loro occhi pregavano per tutte le stagioni in tutta la malinconia che non ci sono più vendemmie da portare a termine che tutta l’uva s’inacidisce e la miseria non ha nomi ma solo mezze preghiere.
Non bastò neanche la mezza giravolta delle scarpe consumate, come neanche il tempo di abbracciare perché lì, come pure più in alto, come dicono in città, sono come animali e crescono i figli come se fossero animali e le sorelle si tengono strette solo per resistere al freddo e quando fa caldo pisciano sotto gli alberi e apprendono dai tori e dalle vacche il segreto dell’amore.
Questo era, dopo tutta una vita e i capelli neri da pettinare con le dita, nel suo uomo la mamma che tre giorni prima si avvicina a lei e le svela quello che già sapeva. E nella campagna aperta, dove aveva già appreso la monta, già visto il desiderio peloso e con code e con zanne, dove tutto si apriva e tutto si chiudeva l’odore del sesso svaniva nell’orto e rientrava a notte, dove lei adesso si spogliava e domani prendeva lo scialle, si stringeva negli occhiali e usciva di casa.
<>
Disse nuovamente quando non c’era nessuno abbastanza poco lucido da chiederle il perché, perché nelle domande le famiglie nascondevano il seme della permanenza, loro a sprofondare nelle radici come se nelle tre case e l’incrocio e due donne non potessero trovare altro luogo che il nascere e morire nel posto in cui si apprende la bestia che cavalca la bestia.
E in quelle terre la domanda che non nutre la bocca si consuma negli occhi, e il teatrino del pianto e dell’abbandono, il tango agreste delle storie di famiglia volgevano la parola a un solo pensiero, che lei è una cretina e non può neanche vergognarsene.
E allora lei continua a camminare, dove sa che nessuna strada è tanto onesta da riportarla indietro, ed è arrabbiata nella sua calma che ha visto tutto quando nella sua vita non ha visto nulla, e si mette le mani nei capelli, ormai finissimi e bianchi, e si stringe la testa, col passo di chi cammina solo per riposare, un passo e poi un altro, e poi una sosta sul muretto, e si chiede per quale motivo proprio lei, a ottant’anni, abbia deciso di lasciare le tre case, l’incrocio e le due donne.
Tutto perché un sogno, lì dove la fede era arrivata pochi decenni prima, e la parola solo nei secoli in cui l’uva si trascinava nel sole, e la parola che mastica nel mugolio del sogno, e il sogno dove si sveglia ed è regina dell’aria e della notte perché in un'altra casa, quella del sogno, le porte sono bianche enormi e dalla finestra si vede il mare.
Dove in quelle terre, tra le colline, la rabbia cresce nel ventre e se un’ape punge nel palmo della mano nessuna orina può lenire il bruciore e se una zanzara apre un pizzicore nel braccio solo una croce intagliata con l’unghia può distrarre il presentimento che domani sarà uguale a oggi e ieri e solo ieri c’è stato qualcosa di diverso da domani.
Dovrebbe solo sognare un’altra casa, la quarta casa, dove addormentarsi e dire buonanotte al giorno che le si apre. Ma la stanchezza la trascina lungo i pochi metri che è riuscita a percorrere, mangiare nei passi, dove al bivio un sentiero porta sull’altra collina, con dietro le tre case l’incrocio e le due donne, e l’altro sentiero conduce giù in città, dove la luce fa sbattere i portoni e le donne hanno tempo e poco lavoro per far crescere i loro figli.
Ma la terra? La terra? Cosa sono le terre al di là degli spazi senza nome? Dopo le case e l’incrocio e le due donne, ci sono anche i nomi? Nel terreno c’era un pozzo e quando si avvicinava credeva di parlare con gli abitanti degli antipodi, e infilava la testa e gridava che un giorno sarebbe caduta e non avrebbe più abitato quelle colline chiuse tra le viti e l’incrocio.
Sicuramente non immaginava che agli antipodi la gente cammina a testa in giù, ma la certezza che pulsava nella sua tempia era la certezza di una strada più altre case, e altra gente, e il rumore di altre cose che neanche lei sapeva bene come immaginare, se non il sogno del mare e le porte bianche e non più che una cafona ma ben più di una regina per tutti.
<> se lo diceva ancora a sé stessa, rideva sdentata nonostante la rabbia, e quasi tremava al venticello che l’accompagnava lungo l’altrove, me – ne – va –do, ogni sillaba esita nella sua fermezza, ma l’altrove non risiede in nessuna delle quattro. Me, contiene l’io, il ne è un ponte tra il luogo e io, va, con la partenza, do, con me perché sono io ad andare. Ma l’altrove? Senza nome, come nella sua bocca, un’esitazione che si contiene nella E iniziale ed esplode nel silenzio, nella terra che avanza e che mangia le notti.
Quando nelle notti restava sola sull’ingresso, piegata sugli scalini, faceva caldo. E le cicale aumentavano il ritmo del loro cigolio all’aumentare della temperatura, e si contorceva le mani e desiderava sempre altre cose al di là della stanza da letto, dai figli che sono partiti e mandano cartoline dalla città, avrebbe perfino immaginato le sale di un gioco d’azzardo per vendere la materia invendibile dei giorni futuri.
Per cosa infondo?
A ottant’anni le sorelle non credevano che ci fosse modo per trattenerla, lei la più testarda di tutte, che non sentiva dolore neanche quando cadeva, da giovane, e sbatteva la testa sul pavimento, lei che conosceva tutto di tutte e permaneva nel silenzio che l’aveva adottata.
Ma lei voleva andare via, e andare via ad un certo punto significa solo andare via senza condizioni, a patto che se ne potessero immaginare. Condizioni utopiche per restare fra le tre case, l’incrocio e le due donne sarebbero state la riesumazione del ricordo del marito della prima sorella, vivido nella sua assenza, oppure il ritorno alle cose semplici di una volta, quando ancora non sapeva parlare e giocava con ramoscelli e saltava accanto ai grilli.
All’improvviso lei si volta, le sfiora il pensiero che tutto finisca da lì a pochi passi, si guarda in tondo, dondola nel suo scialle, si sfrega le mani, accenna una parola, si chiede se ci saranno altri anni al di là delle colline, si chiede quanti anni per aver percorso quei pochi metri al di là delle tre case, l’incrocio, le due donne.
E intravede l’altra casa, la quarta.
Potrebbe entrare, riposare, addormentarsi.
E al risveglio ci sarebbero altre persone ad accoglierla, un nuovo passato da raccontare ai suoi nipoti. Perché nessuna fuga è totale quando il letto l’accoglie, l’abbraccia.
E allora si risveglia, apre tutte le porte della quarta casa, apre le tende, si affaccia.
E c’è tutto il mare a ricordarle che non è una cafona, ma regina, dell’aria e della notte.
Quasi una sovrana, direi.

© Domenico Ingenito





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(1) La quarta casa di Domenico Ingenito - RACCONTO
(2) Memorie bianche di Domenico Ingenito - RACCONTO



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