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BONJOUR, MONSIEUR GAUGUIN
di Gianni Caspani
Pubblicato su PBSE2007


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Solo a vent’anni era possibile fare una vacanza così: da solo, in Bretagna, a correre dietro all’aneddotica di Anatole Le Braz, in tutti quei luoghi dai nomi impronunciabili, affollati di misteri, di fantasmi, di apparizioni sconvolgenti, di ancestrali riecheggi di ruralità perdute, di vite stentate, di passioni semplici; a ravanare maniacalmente dentro endroits paroissiales trasudanti controriforma e altari barocchi istoriati con figure allampanate e vagamente possedute; a scoprire nelle campagne cappelle medievali che racchiudono con orgoglio pitture angosciose di danze macabre e di trionfi della morte.
Qualcosa, intessuto di indefiniti archetipi, mi legava a quella terra, austera come i suoi uomini, appartata come un hortus conclusus, intrisa di leggende gotiche che tolgono il fiato, che eccitano la fantasia, che gettano un ponte verso l’aldilà, per consentire ai curiosi e agli impavidi di spiarne e indagarne i segreti angoscianti.
Senza conoscere nulla, se non il raccogliticcio stereotipato ammannito dai libri di scuola, di quella terra e di quel mare, di quella gente e di quelle tradizioni scaturite al crocicchio tra la religiosità e la superstizione, fantasticavo la Bretagna come una mitica Thule da esplorare e assorbire, senza legami, senza programmi, senza obiettivi.
Mi avevano detto tutti che ero un coglione.
Quando avevo vent’anni, a vent’anni si andava tutti, senza distinzione di cultura di censo di schieramento politico, a Riccione, a imbarcare tedesche, a rompere le palle in spiaggia con radioline che sparavano rock a tutto transistor, ad accumulare avventure di poca sostanza e fantasticherie mirabolanti di trombate sulle sdraio e di bagni sotto la luna.
O in campeggio sulle Dolomiti, a imbarcare tedesche, a rompere le palle sui prati ai bordi delle pinete con mangianastri a pila che sputavano rock addosso alle vacche e alle comitive di scarpinanti sui sentieri dei monti, ad accumulare avventure di poca sostanza e fantasticherie mirabolanti di trombate nell’erba intorno alle malghe e di ciucche epiche sui greti di asciutti torrenti.
O a zonzo per la Spagna, ancora franchista, su auto catorce che invariabilmente si piantavano tra Alicante e la Costa del Sol, a imbarcare tedesche, a rompere sempre le palle al mondo con il solito rock, eccetera eccetera.
Chissà perché, poi, il mito femmineo era sempre la tedesca, forse perché non ci si capiva e quindi non si era obbligati a compromettersi con stronzate impegnative, forse perché incarnava un esotico virtuale che, ai fatti, non si rivelava diverso dalla realtà nostrana di ragazze non ancora svezzate, ignare dei giochi di sesso e ossessionate dalla paura di gravidanze.
Ma ormai avevo deciso così: fuori dalla mandria per questa vacanza, sotto braccio la bibbia della “Legende de la morte”(1) del vecchio Anatole, a fungere anche da guida del touring club.
Per le chiacchiere al bar durante la stagione invernale avrei sempre potuto anch’io inventarmi qualche storiella, altrettanto piccante e altrettanto improbabile, con cui arricchire la panoplia delle avventure agostane della fantasiosa congrega dei latin lover di povero spirito dell’alto milanese.

Già da qualche giorno gironzolavo per quelle contrade in un avanzato settembre che aveva già preso commiato dall’estate, con brezze frizzanti di prima mattina che importavano dalle spiagge il ribollire dell’alta marea e gli urli insistenti dei gabbiani che si facevano spazio tra nubi avvolgenti, foriere di scrosci gelati.
Da Paimpol, nei cui pressi avevo visitato il formidabile complesso abbaziale di Beauport, secondo nel mondo solo a San Galgano, ero giunto a Plouha, alla ricerca della cappella di Kermaria-an-Iskuit (2), nel primo pomeriggio di una giornata tormentata da una pioggia sottile, quasi una autunnale nebbia liquida, che rendeva disagevole l’orientamento e la decifrazione delle segnalazioni stradali.
Attraversai un paio di volte il paesino senza trovare indicazioni utili a raggiungere la cappella, quindi mi decisi a parcheggiare davanti ad alcune casette disseminate lungo la strada che usciva dal villaggio, per tentare di trovare qualcuno che mi fornisse indicazioni.
Prima di scendere dall’auto, indossai una specie di lungo spolverino marrone dalle svolazzanti falde, guarnito nella parte superiore da un abbondante révers del tipo chiamato un tempo pellegrina, utile a fronteggiare l’aria decisamente fredda e le goccioline minute e insistenti, quasi non avvertibili, ma sfrontatamente moleste.
Nelle infinite tasche di quella palandrana fuori moda era sprofondato tutto il mio mondo di vagabondo solitario: carta stradale, un paio di libri tascabili, due o tre mezzi pacchetti di sigarette, il resto di una baguette, un paio di calzini fradici, una pipa e relativa borsa di tabacco, dépliant degli ultimi siti visitati, biglietti stazzonati con numeri di telefono di ragazze e disordinati appunti buttati giù in attesa di trarne testi decenti.
Mi calcai in testa una specie di cappellaccio dalle cospicue tese e dal colore assolutamente stridente con quello della zimarra, cercando con lo sguardo improbabili passanti o automobili in arrivo: solo casette, lì intorno, dall’aspetto modesto, cinte da esigue siepi ispide di ginestroni e da bassi steccati di legno, ingentilite da sobri prati verdi su cui occhieggiavano fiori intristiti dal piovasco caparbio e ossessivo.
A qualche decina di metri, sull’uscio di una di quelle case si affacciò una donna, guardandosi intorno come cercando qualcuno o qualcosa e la udii rivolgersi allo spazio deserto, pronunciando qualche parola con tono paziente e distaccato, come rivolta a un gatto o a un cane che doveva essere lì nei dintorni.
Mi avvicinai alla casa senza fretta e la donna mi dedicò uno sguardo tra il curioso e il divertito, senza mostrare un aperto stupore per il mio abbigliamento alquanto stravagante, ma con un lampo di leggera ironia che le brillava negli occhi, mentre un sorriso impercettibile le si andava disegnando sul viso aggraziato e dai tratti gentili.
Indossava un abito estivo leggero e si stringeva un pullover intorno alle spalle per ripararsi dalle ventate puntigliose, mentre un gatto sbucava da un cespuglio e cominciava a strofinarsi contro i suoi piedi.
Mi fermai a pochi passi da lei davanti allo steccato che delimitava il giardinetto della casa, scostando il cappellaccio per darle modo di guardarmi bene in faccia e restando in silenzio un istante dilatato all’infinito, come cercando cosa dire.
“Bonjour, monsieur Gauguin”, mi salutò, anticipando le mie parole.
“Non mi chiamo Gauguin”, dissi stupidamente.
“Certo”, sorrise, “Gauguin è morto da un pezzo. Ma il suo modo di stare lì impalato in quella sua palandrana dalla foggia incredibile mi ha ricordato un quadro...”
“Bonjour, monsieur Gauguin, già. Mi scusi, stavo osservando la sua ricerca del gatto”.
“Non vuole entrare? Non è il caso di parlare sotto la pioggia e con questa staccionata fittizia in mezzo, come il bancone della boulangerie”.
“Grazie. Lei è molto gentile, ma non vorrei disturbare. Cercavo solo Kermaria-an-Iskuit”.
“Il suo bretone è veramente terrificante”, rise con cordialità, “no, lei non è Gauguin: lui parlava bene il bretone”.
“Non solo per questo non sono Gauguin. Non so neppure disegnare e se avessi abitato in Bretagna, mai sarei andato in Polinesia”.
“Venga dentro, allora. Le faccio un caffè. Questa pioggia neanche la si sente scendere, ma infradicia fin dentro l’anima in un modo assurdo. Si guardi: sembra la Barbara della poesia di Prévert: épanoui, ravi e ruisselant”.
“Sicuramente ruisselant. Grazie per il caffè”.
E mi diressi verso la casa, non senza averle sbirciato con interesse la forma dei fianchi che si disegnò intrigante, mentre si chinava ad accogliere il gatto ronfante di gratitudine, come Mosè salvato dalle acque.
Mi fece accomodare in un salotto accogliente di poltrone invitanti e di morbidi cuscini, avvolto in una penombra smorzata, favorita dalle persiane accostate e dal grigiore greve del cielo.
In un angolo una lampada accesa diffondeva una fragile luce aranciata che allungava le ombre nella stanza e creava un’atmosfera di suggestivo distacco dal presente.
La stanza tutta, del resto, suggeriva una sensazione, peraltro gradevole, di patinata trascendenza temporale, con la sua tappezzeria a fiorami di sentore antico, due stampe settecentesche a lato di una vetrinetta stipata di cineserie, un fanale nautico sulla mensola del camino che evocava un veliero a vele spiegate, un fonografo a tromba su cui incredibilmente girava un disco che diffondeva una sinfonia di Mahler, una piccola libreria con squinternati testi dalle preziose brossure consunte, un tavolino a tre gambe, in un angolo, che faceva galoppare la fantasia ad impliciti usi esoterici, su cui poggiava un opulento vaso di crisantemi essiccati.
Mi guardavo intorno affascinato e mi sentivo invadere progressivamente da un senso di placido torpore, come se avessi inalato un gas esilarante che prendeva per mano la mia mente e la conduceva distante.
Se qualcuno in quell’attimo mi avesse chiesto come mai ero lì, avrei risposto che c’ero sempre stato e che quella era casa mia.
La donna mi raggiunse dopo qualche minuto, recando su un vassoietto di lacca vezzosa due tazze di caffè profumato.
La preziosa penombra del locale le rendeva merito: sottolineava la grazia del suo muoversi misurato e trasformava il suo abbigliamento per nulla ricercato e del tutto casuale in uno scintillante lamé.
Poteva avere almeno quindici anni più di me, ma tra quelle pareti si dissolveva il tempo e lei appariva senza età, pienamente a suo agio nel fissarmi addosso pupille risolute in cui brillava ancora quella luce d’ironia appena abbozzata che avevo già notato durante quel paradossale scambio di battute davanti alla casa.
“Bonjour, monsieur Gauguin”, ripensai e mi venne da ridere.
“Perché ride?”, mi chiese.
“Nulla. Pensavo alle prime frasi che ci siamo scambiati. Non ci poteva essere un approccio più improbabile”.
“Lei l’ha presente bene quel quadro? E’ proprio vestito cosi. Come Gauguin, intendo dire. Dove l’ha trovato, quel capo?”
Non era una domanda, solo una constatazione.
“Non è stato intenzionale. Anzi, non ci ho pensato proprio, finché lei non me l’ha fatto notare. Mi è sembrato un indumento utile, anche se stravagante, con quelle tasche infinite e profonde come anfratti. Ci sta dentro quasi una casa. L’ho comprato in un mercatino di cianfrusaglie usate. Magari è davvero quello di Gauguin”.
“L’ho spiata, mentre preparavo il caffè. Ha continuato a guardarsi intorno, curioso come un gatto e con aria trasecolata. Non le piace la mia casa?”
“Anzi, proprio il contrario. Ha un’aria così fuori del tempo ed è piena di oggetti non comuni. Lei è una persona raffinata”.
“Beva il caffè, adesso, se no si fredda. Quanto zucchero?”
“Lo bevo amaro, grazie”.
“Lei parla molto bene il francese. Com’è che è qui in Bretagna, a scovare cappelle medievali?”
Le raccontai il mio interesse istintivo per quella terra, la mia esigenza di uscire dal gregge, la mia passione per l’arte romanica e il medioevo, la voglia di vedere i calvaires di cui avevo letto qualcosa. Le dissi di Anatole Le Braz e delle sue leggende che mi avevano incuriosito.
“Già, Le Braz”, disse, “quelle sue storie di trapassati che vagano nella campagna, di fantasmi benevoli o arcigni, di morti che si accompagnano ai vivi, di anime che urlano nella notte...”
“Le lavandaie notturne”,la interruppi, “sono veramente affascinato dalle storie di queste donne che espiano aborti e infanticidi nel contrappasso delle lenzuola lavate di notte e stese ad asciugare alla luce della luna”.
“Sicuro, le lavandaie di notte. Sa che non bisogna rivolgergli la parola, se non si vuole rimanere uccisi dall’incontro con loro?”
“Sì. Leggende meravigliose. C’è tutta la cultura di un popolo in quello scrittore”.
“Non sarà mica venuto per quello, spero per lei. Non crederà di trovare la Bretagna dell’ottocento ad attenderla sulla via dei calvari...”
“Certamente no. Ma chissà. Forse in qualche angolo sperduto della campagna c’è ancora il rottame di una macchina del tempo da mettere in funzione”.
“Se fosse venuto qui un mese fa avrebbe trovato le spiagge della bassa Bretagna invase dal resto della Francia, i pochi contadini rimasti appostati con i loro banchetti lungo le strade a spacciare ai turisti uova, patate bretoni, camembert e bottiglie di sidro”.
“Per questo sono arrivato solo ora”.

La conversazione morì per qualche istante, mentre bevevamo il caffè, guardandoci fissamente.
Il suo sguardo perdeva gradualmente il guizzo canzonatorio che mi aveva avvolto per tutto il tempo trascorso dal mio ingresso in quella abitazione e anche il suo atteggiamento pareva ora meno disinvolto e brioso.
Si alzò dalla poltrona raccogliendo le tazzine sul vassoio, mentre io mi alzavo a mia volta, diretto alla finestra per scrutare il cielo e trarne indicazioni sulle condizioni meteorologiche.
La pioggia si era infittita e attenuava sensibilmente la voglia di riprendere la strada verso Kermaria-an-Iskuit; le nuvole erano diventate più dense e stavano ad indicare una inequivocabile tendenza al brutto stabile, almeno per il resto della giornata.
Mi avvicinai al grammofono su cui si erano spente le note del Titano e guardai con interesse tra i dischi di resina vinilica ammucchiati su una mensola: tutta roba di pregio e rispondente ai miei gusti musicali.
Venne di fianco a me, mi prese dalle mani il disco che stavo guardando e disse: “Le piace Aznavour?” e lo mise sul piatto senza attendere risposta.
“Sempre deciso a proseguire per la sua danza macabra?”, mi chiese poi.
“Veramente pensavo di proporle di venire a visitarla con me. Ma poi ho visto il tempo e devo confessarle che questa pioggia mi impigrisce notevolmente”, risposi e mi sedetti ancora sulla poltrona e la fissai come aspettando una sollecitazione.
Venne verso di me; si fermò in piedi a un passo dalla poltrona e sognai di sentire: “Perché non ti fermi fino a domani?”, in un soffio quasi impercettibile che mi parve frutto di immaginazione indotta dalla penombra soffusa del locale e dalla sottile sensualità della musica di sottofondo, finché, alzando lo sguardo verso il suo viso, non colsi la determinazione del suo invito e della sua trepidante aspettativa.
La risposta di inequivocabile accettazione le venne dalle mie mani che subito si mossero lungo le sue gambe risalendo verso i fianchi pieni di cui presi possesso con decisione, attirandola a me.
La avvertii soltanto assecondare i miei movimenti, mentre affondavo il viso contro il suo corpo e mi lasciavo scivolare dalla poltrona sul tappeto cosparso di cuscini trascinandola con me in una caduta soffice che mi parve un volo tra i dirupi di un baratro.
Il nostro cercarci fu consapevolmente determinato e scevro di artificiosi preamboli: sentivo nella mano il suo sesso umido e avido e la penetrai scostandole appena lo slip e esaudendo la sua urgente pretesa; rimasi dentro lei a lungo immobile mentre i nostri pensieri si interpretavano dentro gli occhi sbarrati a fissare, oltre i corpi, la bambagia che ci avvolgeva e che schermava come una nebbia impenetrabile l’ambiente circostante.
Cominciammo dopo un tempo infinito a muoverci con lentezza, mentre le nostre mani, autonome da noi, ci liberavano progressivamente dai vestiti che non avevamo avuto il tempo di toglierci e quei movimenti acuivano il piacere intenso che ci aveva già sparato lontano dal mondo.
Il suo grido si soffocò in un morso atroce che si impresse sulla mia spalla come un marchio d’infamia.
Restammo immoti per attimi eterni, ad assorbire i nostri respiri che andavano riprendendo regolarità, mentre le nostre menti vagavano fuorviate in una dimensione senza contorni.
Recuperò quell’incantevole umorismo che mi aveva conquistato fin dal primo istante del nostro incontro, quando realizzò il mio corpo nudo dentro di lei, nuda, con quel residuo diaframma delle mutandine scostate per quanto indispensabile e quell’orrendo morso sulla mia spalla di cui non ero ancora in grado di percepire il bruciore.
Solo allora ci baciammo per la prima volta e dopo esserci staccati mi alzai a sedere con le spalle contro la poltrona da cui mi ero lasciato scivolare, mentre lei si toglieva anche lo slip, e la tirai contro di me, la sua schiena sul mio petto e le mie dita che giocavano con il seno ampolloso e ancora tumido.

Mi parve di sentire un vagito, dapprima lontano e indistinto, poi più vicino, come se provenisse da un altro locale della casa.
“Hai un bambino?”, le chiesi.
“Cosa ti viene in mente?” E la sua voce suonava del tutto naturale e tranquilla.
“Mi è sembrato di sentire un bambino piangere. Un bambino molto piccolo...”
“Impieghi molto tempo a tornare sulla terra”. E ritrovai quel tono di leggero sarcasmo nella voce che mi parve familiare come se l’avessi sempre sentita in ogni attimo della mia esistenza.
“Un bambino, che idea... Vivo sola. Solo io e il gatto. E te, se vuoi, per un paio di giorni. Non di più”.
Mi sentii un po’ stupido, ma mi rimase un residuo di pensiero, imbucato in un angolo remotissimo della mente, che insisteva nel convincermi che non mi ero sbagliato.
Si alzò e mi porse la mano per invitarmi ad alzarmi anch’io, con un sorriso delizioso che mi invase tutto.
Restò lì nuda davanti a me, spontanea e disinvolta, senza ostentazione e compiacimento e mi sfiorò le labbra con un bacio lievissimo e per la prima volta, forse unica nella vita, mi capitò di essere nudo davanti a una donna nuda e di avvertire più disagio di lei.
“Io mi faccio un altro caffè. Ne vuoi anche tu?”
“Grazie”.
E si diresse verso la cucina, lasciando lì sparsi sul pavimento i vestiti e la seguii con lo sguardo, affascinato dalla naturalezza priva di impudicizia con cui si muoveva nello spazio e davanti ai miei occhi, più suscitando ammirazione per la palese sicurezza di sé e del suo fascino, che evocando lubrici richiami sessuali, anche se aleggiava palpabile tra quelle mura una raffinata suggestione di intensa e composta sensualità.
Passammo tutto il pomeriggio scambiandoci le impressioni più svariate sulle canzoni francesi, la musica di Wagner e di Mahler, sull’arte medievale e le leggende gotiche dei nostri paesi, senza per nulla parlare di noi, accennando di tanto in tanto qualche carezza o gioco di sesso, rinviandone l’esecuzione come per una tacita intesa, consapevoli entrambi che nella prossima notte si sarebbe celebrato un rito infinito.
Rispetto a un paio di attempate e assolutamente ben conservate navi scuole della cui educazione sentimentale avevo già avuto modo di giovarmi, mostrandomi allievo attento, perspicace e desideroso d’apprendere, Geneviève aveva il vantaggio di un fisico che non rendeva così evidente la differenza d’età che esisteva tra noi.

Fui svegliato nel pieno della notte da un improvviso e violento scroscio della pioggia che batteva contro i vetri della camera al piano rialzato del villino, mentre il bagliore di un lampo attraversò la stanza come il fascio di luce proiettato dallo spot di un set cinematografico.
Cercai Geneviève accanto a me e il tepore del suo corpo avvolto nel lino del lenzuolo e accoccolato sul fianco mi provocò una nuova, intensa eccitazione.
Aderii a lei, passandole sotto un braccio e cercandole i seni con dita avide.
Avvertii il mugolio di un impreciso risveglio soddisfatto e la morbida consistenza delle natiche contro la mia pelle, mentre mi agevolava con un leggero movimento dell’anca e mi accoglieva nuovamente dentro di lei.
Improvvisamente, alla luce guizzante di un nuovo lampo, che rischiarò la camera di un’elettricità intensa, colsi con indubbia chiarezza la percezione visiva di una culla tra il letto e la parete più vicina a Geneviève: nella culla sedeva un bambino, con una manina appoggiata alla sponda e lo sguardo fisso verso di noi.
Nonostante l’istantaneità della visione, determinata dalla durata infinitesimale del bagliore, riuscii a cogliere il particolare della staticità eccessiva di quell’immagine che si era materializzata, l’incarnato marmoreo del bambino, i riccioli sfatti, gli occhi sbarrati e senza espressione.
Geneviève, benché rivolta anch’essa da quella parte, parve non accorgersi di nulla, neppure della caduta per un minuscolo istante della mia libido, a causa della stupefacente, conturbante proiezione.
Ebbe solo un movimento deciso per staccarsi un attimo e girarsi verso di me, prima di riassorbirmi avida, facendomi appoggiare sulla schiena e premendomi in faccia mani febbrili e accecanti.
La fantasima fu dispersa prima dalle sue dita e poi riassorbita dal buio della notte e la susseguente luce di un altro lampo rischiarò la parete senza che si materializzassero altre immagini.
Geneviève scivolò leggermente in un sonno pacato e io rimasi sveglio al suo fianco, cercando di scandagliare e decifrare l’impenetrabilità del suo essere, mentre l’intensità della tempesta si andava affievolendo e i lampi, a intervalli sempre più distanziati, serpeggiavano languidi guizzi sulle sue splendide forme, che avevano incendiato le mie ultime ore, pretendendo in contropartita una resa assoluta a qualsiasi conseguenza mi fosse derivata dall’accondiscendere a quel gioco stuzzicante del caso.
I misteri del pianto avvertito qualche ora prima e della visione recente costituivano solo il retroscena trascurato dei miei pensieri; mi dicevo non erano altro che quegli eidola, che Platone definiva false immagini, percezioni deformate della natura, e mi accontentavo di perdermi dietro a fantasticherie stupefatte per l’avventura che stavo vivendo.
Non pensavo assolutamente più alle storie agghiaccianti del buon Anatole: una sana vicenda di sesso a vent’anni, soprattutto quando avevo io vent’anni, finiva con il far passare in secondo piano qualsiasi interesse o passione.
Altro che Riccione e Dolomiti e Spagna franchista: quella sì, era una storia da raccontare ai nipoti e da inchiodare su spiedi d’invidia la mia compagnia di sfigati annegati nelle nebbie novembrine della pianura padana e avvolti nelle spire di fumo durante le sere spiate morire ai tavolini del bar.
Mi abbandonai a quello stato di soddisfazione compiaciuta che si trasformò presto in sonno sazio e profondo.
Al mattino mi svegliarono il chiarore abbagliante di un sole ancora basso nel cielo terso, da cui il temporale notturno e il vento avevano asportato il grigiore uggioso che mi aveva accompagnato nei giorni precedenti, e il profumo tenue di Geneviève che pervadeva la stanza.
Su un tavolino basso sotto la finestra, sul vassoietto di lacca su cui mi aveva servito il giorno prima il caffè, erano appoggiati una tazza di caffè, un croissant, un biglietto e un crisantemo essiccato.
Non sentivo rumori che indicassero la presenza della donna, almeno al piano rialzato della casa.
Mi alzai, drappeggiandomi addosso un lenzuolo come un antico romano e mi affacciai alla scala che portava al piano di sotto.
Di Geneviève nessuna traccia.
La casa era in ordine perfetto, la cucina era pulita come se non fosse stata usata nemmeno per preparare la colazione, il salottino in cui si era consumata la prima battaglia perfettamente rassettato, il grammofono spento, i cuscini ancora sparsi sul tappeto, ma evidentemente sistemati secondo una logica dispositiva non affidata al caso.
Mi affacciai alla porta dell’ingresso, sicuro che Geneviève fosse fuori con il gatto: solo una strada vuota e un prato deserto su cui il sole asciugava il ricordo del temporale notturno.
Da sotto la siepe occhieggiavano le pupille del gatto che emise dapprima uno sbuffo, poi un miagolio di maniera che non era né un saluto né una richiesta, cui seguì l’indifferenza più totale estrinsecata in uno sbadiglio immenso e uno stiramento al limite dello smembramento, un volteggio svogliato che lo immobilizzò in una posa da sfinge in contemplazione del nulla.
Tornai in casa e risalii le scale, realizzando in un flashback la visione del biglietto sul vassoio, accanto al caffè e al croissant.
Solo: “Devo andare a Saint Brieuc. Se vuoi, torna stasera”.
Apprezzai l’assenza di banalità che avrebbe rappresentato un “ti amo” o, peggio, un “è stato magnifico”, ma quella sparizione così di fretta e senza motivo, senza svegliarmi e senza gratificarmi con visioni impudiche, mi lasciava abbastanza perplesso.
Andai nel bagno e aprii il getto della doccia, lasciandomi piovere addosso l’acqua per lunghi momenti; poi presi a caso dalla mensola su cui erano allineati diversi barattoli e flaconi quello che mi parve essere un bagno schiuma e mi versai addosso quel liquido morbido che mi invase le narici del profumo di Geneviève ed ebbi la sensazione gradevole che fosse lei a scivolarmi sulla pelle.
Tornai nella camera ancora bagnato, ruisselant mi aveva detto lei un secolo prima, lasciandomi dietro una scia di gocce, proprio come un marito, sbocconcellai il croissant inghiottendolo insieme con le boccate di fumo di una gauloise, mi sciacquai la bocca con il caffè ormai freddo, tornai in bagno a completare la mia toilette.

La mattinata fu completamente dedicata alla visita di Kermaria-an-Iskuit.
Qualsiasi turista meno drogato avrebbe dedicato non più di un’ora alla cappella e al suo contenuto; io, invece, dopo un’ora ero ancora sul prato che circondava la bassa costruzione di pietra grigia ad indagarne il fascino in ogni sasso, in ogni fessura, negli spigoli asciutti e secchi dei timpani del vestibolo e del transetto, nella rozza cuspide del campaniletto; ad immaginare perdute immagini prostrate ai piedi dello sgraziato basamento che reggeva la stele del perduto calvario e intente a mimare gesti espiatori di ingenui mea culpa, a scandire fonemi propiziatori contro lamie gramaglie e penurie, a propiziare fratellanze mietiture e future salvazioni.
La farandola (3) della danza macabra inizialmente mi deluse alquanto: rispetto ad altre raffigurazioni che avevo visto a Clusone e a Pinzolo, i colori erano poveri, le figure piatte; poi però l’accuratezza dei dettagli, la vastità dell’affresco e la complessità della rappresentazione assorbirono la mia attenzione e restai a lungo ad osservare ogni particolare, ogni figura, a decifrare i cartigli che facevano da didascalia alle diverse figure, con l’aiuto di un cartoncino che riportava tutte le immagini.
Il custode della cappella venne a chiamarmi, quando l’ora di chiusura era passata da qualche tempo, mentre ero assorto, in fondo alla navata nord, davanti alla raffigurazione della leggenda dei tre morti e dei tre vivi (4).
“E’ l’ora di chiusura, signore. La chiesa riapre nel pomeriggio, se vuole continuare la sua visita”, disse con cortesia.
“Ho finito, grazie. Esco subito. Spero di non averle fatto tardare l’ora del pranzo”.
E mi avviai all’uscita, accompagnato dall’uomo che commentò: “E’ raro trovare persone così interessate. Di solito i turisti fanno qualche foto, passeggiano su e giù per la chiesa e se ne vanno”.
“Le faccio perdere troppo tempo, se le chiedo di vendermi la pubblicazione con la storia di Kermaria?”
“No. Gliela do subito. E’ un piacere incontrare visitatori come lei. Anche se non si è fatto nemmeno un segno di croce”.
“Cosa vuol farci? Ognuno ha le sue spiritualità, più o meno riconosciute dalla gerarchia ecclesiale”.
Nel pomeriggio feci una gita all’isola di Bréhat, dove c’erano solo una cappella e qualche rovina interessante da visitare, un parco naturale e belle viste sull’oceano, non prevista dal programma che mi ero proposto, ma mi premeva essere di nuovo a Plouha la sera, con Geneviève.
Ripassai al ritorno davanti a Kermaria-an-Iskuit e vidi il custode in piedi davanti al vestibolo; rallentai la velocità dell’auto per dare un’ultima occhiata alla cappella e lo salutai con un leggero colpo di clacson.
Guardò verso di me con uno sguardo interrogativo, poi mi riconobbe e agitò la mano in un caloroso saluto.

Arrivai di nuovo davanti alle casette e parcheggiai direttamente davanti alla recinzione del villino di Geneviève.
Nonostante la bella giornata e il sole ancora abbastanza alto, la casa appariva con un aspetto più trascurato rispetto al giorno precedente oppure, forse, la stavo osservando con più attenzione, senza l’assillo dell’infradiciamento del giorno prima, cogliendo particolari che mi erano sfuggiti.
L’intonaco delle mura era staccato in più punti e dai vasi collocati sul balconcino aggettante sul lato destro della facciata spuntava una verzura indefinita che si sarebbe potuta appropriatamente definire erbaccia.
Su uno dei gradini che davano all’accesso principale si allargava una macchia di terra rappresa, mescolata ad un antico untume.
Quello che il giorno prima mi era parso un prato curato con gradevoli chiazze fiorite si era trasformato in un disordine verdognolo, aggrovigliato e sterile.
La siepe di ginestroni sotto cui quella stessa mattina aveva sbuffato il gatto prima di irrigidirsi in una catalettica posa da sfinge pareva piuttosto un viluppo di spini inestricabili.
L’imposta della finestra della camera dove avevo passato la notte con Geneviève mancava di un cardine ed era fissata precariamente con un filo di ferro che la reggeva a stento.
Consideravo con sorpresa quei particolari tanto contrastanti con il senso di pulizia e di accuratezza che mi aveva suscitato il giorno prima quell’abitazione, poi mi volsi verso la strada, per accertarmi di non aver sbagliato casa.
Non c’era dubbio: era proprio quella di Geneviève.
Attraversai il prato e salii i tre gradini: da vicino, la porta evidenziava scrostature della vernice e il pomo della maniglia tradiva la presenza di ruggini antiche.
Il campanello penzolava verso terra, appeso a un filo elettrico sfilacciato.
Chiamai Geneviève, mentre provavo a spingere la porta che rimase serrata, dopo che una pressione non particolarmente vigorosa ebbe provocato uno scuotimento sensibile di tutto l’infisso.
Tornai verso la strada e vidi nel cortiletto della casa di fronte un uomo che mi guardava con curiosità, ma senza diffidenza.
“Cerca qualcuno?”, mi chiese.
Stavo per rispondergli: “La donna con cui ho passato la notte”, ma mi sembrò una risposta insulsa e rivelatrice di pretenziosa vanagloria.
Restai in silenzio.
“Ho un’attività di affittacamere”, proseguì l’uomo che parve non avvertire la mia reticenza, “sta cercando una sistemazione per la notte?”
Perché no?, ragionavo tra me: era troppo tardi e non volevo passare il resto della serata a cercare un hotel.
Attraversai la strada e andai verso di lui.
“Sì, grazie. Mi farebbe comodo passare la notte da lei” e lo seguii verso l’entrata della casa.
“Qui dietro ci sono i locali per gli ospiti”, mi disse, “niente di lussuoso: buon arredamento, bagno e ingresso indipendenti, colazione ricca tra le 7 e le 9 e bastano 60 franchi a notte”.
“Va bene”, dissi, “prendo la mia roba in macchina e la raggiungo”.
“Porti l’auto al di qua della strada. Perché si è fermato davanti a quella bicocca? Devo modificare l’indicazione chambres d’hôte sul mio prato. Dalla strada non si vede bene”.
“Sì, bisognerebbe spostarla”, dissi, evitando nuovamente di rispondere alla domanda.
“Che c’è, Marcel?” chiese una voce di donna alle mie spalle.
“Niente, dicevo che il cartello non si vede dalla strada. Abbiamo un cliente”.
Mi girai verso la casa.
“Che ci fai qui, Geneviève?”, dissi.
Sulla porta di casa stava Geneviève, con un bambino di circa tre anni per mano.
“Lei mi scambia per qualcun altro”, disse la donna con perfetta tranquillità.
“E’ mia moglie Arlette”, intervenne Marcel, con un’ombra di lieve stupore, guardandomi fisso.
“Chiedo scusa. La signora è il ritratto vivente di una vecchia amica. Sono stato stupido a fare quella domanda: è evidente che non può essere la stessa persona”.
Non ritenni opportuno diffondermi in altre spiegazioni e ribadii: “Vado a prendere la mia roba”.
Spostai la macchina dall’altra parte della strada e Marcel mi fece segno di entrare nel giardinetto.
Gli consegnai i documenti e mi lasciai condurre nella camera.
“Conosce un buon bistrot qui vicino?”, gli chiesi.
“Può andare al Roi Rouge, appena fuori dal paese sulla sinistra, lungo la strada per Paimpol. Ci arriva tranquillamente anche a piedi”, rispose.
“Grazie”.
Lo guardai e vidi con soddisfazione che non dava peso più di tanto all’equivoco che si era verificato con sua moglie.
Mentre facevo la doccia pensavo alla signora Arlette.
Equivoco un cazzo: era proprio la stessa persona che mi aveva ospitato il giorno prima, stessa pettinatura, stesso sguardo, stesso portamento, stessa voce.
Perfino il suo modo quietamente rassicurante di tenere per mano il bambino ricordava l’atteggiamento di premura che aveva mostrato la sera prima nel recuperare il gatto sotto la pioggia.
Uscii sul prato, sedendomi su un dondolo a fumare una sigaretta.
Marcel mi raggiunse, sedette su una poltroncina di plastica da giardino e cominciò a parlare di cose indifferenti: il temporale del giorno prima, la bella giornata di sole di oggi, la stagione turistica finita.
Colse il mio sguardo fisso sulla casa di fronte.
“Mi piacerebbe riuscire a comperarla”, disse con tono indifferente: “potrei ampliare la mia attività con altre camere”.
“Perché non lo fa?”, gli chiesi.
“E’ disabitata da prima della guerra. Non so neppure dove siano andati ad abitare i vecchi proprietari. Forse a Rouen, o a Rennes; l’avevo sentito dire una volta, ma non ricordo”.
Mi aggrappai a un filo di lana di speranza: “Ma non viene mai nessuno, neppure per un periodo di vacanza, per un fine settimana?”.
“Ma l’ha vista bene, la casa? Sembra che gli infissi debbano crollare sul prato da un momento all’altro”.
Elusi vigliaccamente il suo sguardo.

Rincasai presto: la cena al bistrot del re rosso era stata gradevole, ma la zona non offriva particolari stimoli per nottambuli, soprattutto in quella stagione.
La famigliola che mi ospitava si era già rintanata in casa e mi colsi a pensare con un filo sottile d’invidia a Marcel che si sarebbe infilato in un letto con la sua Arlette-Geneviève, alla faccia mia.
Alla luce di un lampione da giardino rimasi a leggiucchiare un paio di vecchie riviste che avevano lasciato sul dondolo verosimilmente per me.
Carini davvero, questi francesi, veramente impareggiabili nel ruolo di operatore turistico.
Delle vicende sportive del Cinque Nazioni non m’importava una sega e meno ancora delle nuove storie della Bardot e di altre sconosciute attrici, quindi, dopo tre sigarette non mi restò altro da fare che entrare in camera, indotto anche dalla frizzante brezza autunnale che portava un refrigerio eccessivo alla notte avvolgente.
Restai sveglio ancora un po’ a leggere nel letto, litigando con l’odioso rotolo che sostituiva il cuscino e che di notte attenuava sensibilmente la mia incondizionata stima per le strutture ricettive galliche.
Era certamente passata mezzanotte quando mi venne l’idea di fumare un’altra gauloise in giardino, prima di mettermi a dormire.
Indossai la palandrana sopra il pigiama e uscii nella notte serena.
Una grossa luna quasi abbagliante splendeva sulla strada deserta e faceva risaltare i contorni delle case addormentate.
Una cascata incredibile di stelle mi faceva apprezzare quella Bretagna così pulita e tersa, rispetto allo smog ingrugnito che velava il cielo dalle mie parti con astiosa caparbietà.
La strada era deserta ed era quasi palpabile una sensazione di solitudine e di silenzio da ultima landa del mondo.
Camminai fino alla strada e senza intenzione mi ritrovai a fissare la casa di fronte.
Alla luce della luna sembrava sparito lo squallore che mi aveva sorpreso al mio ritorno da Kermaria, anzi la casa mi parve essere del tutto simile alle altre dimore allineate lungo la strada, così come mi era parsa il giorno prima.
Nella mente mi si affollavano pensieri assurdi e ipotesi stravaganti, ma restava indubitabile la consapevolezza che lì dentro avevo trascorso, e in modo estremamente piacevole, la notte precedente.
Sicuramente, sotto la pioggia e durante lo stravagante scambio di battute del giorno prima “Bonjour, monsieur Gauguin”, “Non mi chiamo Gauguin”, non avevo avuto modo di rilevare le magagne strutturali della casa, come ora non riuscivo a coglierle, nonostante l’intenso lucore lunare.
Questo non era in contrasto con l’ambiente accogliente interno alla casa, con quel salotto ingentilito da musiche preziose, da soffici cuscini, da un arredamento allusivo e dal profumo intenso di Geneviève.
Contrastava però con le vicende proprietarie della dimora, abbandonata, a detta del mio affittacamere, da prima dell’ultima guerra.
Ma forse Marcel e la sua famiglia non passavano tutto il tempo a spiare i movimenti della casa di fronte.
Mi sembrava banale, come riflessione.
E non risolveva il mistero di quella donna che da un lato della strada si chiamava Geneviève e viveva passioni effimere e scoppiettanti con viandanti di passaggio e dall’altra parte della via si chiamava Arlette, teneva per mano bambini e interpretava il ruolo di moglie esemplare.
Magari erano lontani parenti e misteriosi incroci cromosomici avevano prodotto cloni stupefacenti e per qualche recondito motivo di dissidi familiari Marcel non si era diffuso in particolari, dopo il mio equivoco sull’identità della donna.
La luna accese un faro accecante sulla sesquipedale cazzata partorita dalla mia mente nel corso di quella travagliata inchiesta.
Lo accese anche sul giardino della casa di fronte e su una evanescente figura che si muoveva leggera sul prato:da dietro la casa avanzava una donna che indossava un lungo abito bianco, per la verità più simile a una camicia da notte che a un vero e proprio vestito.
Il viso e le braccia nude esibivano un pallore addirittura esangue, al punto da confondersi in un unico latteo contorno con la fantastica mise.
Solo i capelli che incorniciavano il viso di un biondo diafano che già avevo visto in due donne da quelle parti conferivano alla figura una corporeità indubitabile.
L’apparizione reggeva tra il fianco e il braccio una grande cesta di vimini colma di bianchi panni.
Guardavo assolutamente impietrito la scena nella quale la figura galleggiava leggera e come avulsa dalla realtà, intenta a gesti precisi e senza volgere attorno neppure uno sguardo.
Appoggiò sul prato la cesta, si fletté in una movenza aggraziata che disegnò la curva dei fianchi uccidendomi il respiro, pescò dalla cesta un grande lenzuolo e con un movimento risoluto lo passò sopra una corda tirata tra il muro della casa e una betulla sottile.
Mi parve di udire, ma forse fu una immaginazione briaca, un vagito lontano e l’eco di una nenia, quasi una ninnananna.
La donna ripeté ancora un paio di volte gli stessi gesti, raccolse la cesta vuota e si diresse verso l’ingresso della casa.
Come fuori dal corpo, avevo aleggiato in un volteggio ipnotico, attraversando la strada fino a pormi ritto in una posa già assunta un miliardo di anni prima davanti a quello steccato.
Con un piede sul primo gradino la bianca figura si fermò un istante breve, come presa da un ricordo.
Si girò impercettibilmente.
Parve uscire dal tunnel di un sogno.
Mi scorse.
Accennò l’oceano di un sorriso dentro cui sprofondò la mia nave:
“Bonjour, monsieur Gauguin”.



Note dell'autore:

(1)La “Legende de la Morte” è forse il testo più famoso di Anatole Le Braz (Saint Servais 1859 – Menton 1926), autore di diverse pubblicazioni che raccolgono canzoni, racconti e leggende popolari della Bretagna, attinte alla fonte diretta di marinai e contadini. Repubblicano e femminista
convinto, strenuo difensore della cultura e della lingua bretone, Le Braz era anche molto affascinato dai temi dell’aldilà e della trascendenza, non avulsi però dalle loro radici popolari e di costume.

(2)E’ una cappella dell’XI secolo che contiene un bellissimo affresco di danza macabra, oltre ad altri affreschi ispirati a leggende medievali.

(3)danza della cultura popolare provenzale, eseguita alla fine del Medioevo per le strade dei villaggi a scopo celebrativo dell’arrivo della primavera. I danzatori formano una catena tenendosi per mano
e seguono il capofila che procede a suo piacimento lungo un itinerario fantasioso che origina stravaganti figurazioni. Alla coreografia della farandola sono ispirate le danze macabre del XIV e XV secolo.

(4)Un altro tema tipico dell’iconografia medievale è quello dei tre giovani cacciatori che incontrano tre scheletri in una foresta. Costituisce una meditazione sulla tematica della morte, ispirata dai cartigli o dalle didascalie che spiegano i dipinti: “Voi siete quello che siamo stati e noi siamo quello che sarete”.


© Gianni Caspani





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