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L'esame
di Euro Carello
Pubblicato su PBSA2008


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Il trillo acuto lo sveglia di soprassalto da un sonno senza sogni. Spalanca gli occhi nel buio artigliando il cuscino, preso dall’angoscia. Questione di secondi, poi la coscienza affiora. E il ricordo, come ogni mattina. Il battito del cuore si regolarizza, il respiro che iniziava a farsi affannoso si calma.
Non si è mai abituato a tenere gli occhi chiusi. In genere lo fanno i ciechi dalla nascita, gli hanno detto, ma il suo caso è diverso. Decisamente diverso. Perdere la vista a 37 anni non è come non aver mai potuto vedere. È più… ingiusto, ecco. Sai quello che hai perso. Sai che non vedrai più un tramonto, o i barbagli freddi del sole sulla neve, il colore del vino nel bicchiere, il corpo di una donna, o…

Basta. Serve solo a farsi male, e oggi ci sono un sacco di cose da fare. Non c’è tempo per l’autocommiserazione. Distende lentamente le braccia sul lenzuolo, alla ricerca rassicurante dell’orlo ricamato. Percorre con il polpastrello le volute setose del filo. Scendendo dal letto allunga la mano per sentire l’ora sulla sveglia. Il dito corre delicato sul quadrante in rilievo. Le sette e mezza. Giusto il tempo di fare colazione e poi via. Il gran giorno.
Davanti allo specchio del bagno si insapona accuratamente le guance e il mento, si rade con delicatezza, da sotto in su. Una striscia olivastra dopo l’altra compaiono sotto il bianco cremoso della schiuma, parallele, perfette. A vederlo nessuno direbbe che è cieco. Ripone con sicurezza rasoio e pennello nel cassetto. La crema da barba. L’asciugamano appeso al gancetto sulla destra dello specchio. Una spazzolata ai capelli già brizzolati.
Con l’indice della mano destra scova tre capelli sul bordo del lavandino e apre il miscelatore per farli scorrere via.
Un sorriso gli increspa lievemente le labbra sottili, mentre pensa alla prima volta che l’ha fatto davanti alla donna delle pulizie. Un donnone di mezza età con una stretta di mano molle da bambina.
Come tanti del popolo, avrebbe detto sua madre, è la soggezione, magari spaccano la legna ma quando ti danno la mano è così. Un’anguilla morta. Era fatta così, sua madre. Brava donna, onesta e timorata di dio, ma un po’ in fondo ci godeva, da anziana preside di scuola media, a marcare le distanze. Anche su una scemenza come quella. Piccola borghesia di provincia, anche se ormai da tanti anni abitava in città. Gozzaniana. Magari non erano tutte buone, le cose, ma il pessimo gusto c’era tutto, poverina. I soprammobili inutili col centrino sui mobili lucidati a cera, l’orologio di padre Pio. Le famose teste di ceramica: l’olandesina, il moro col turbante, il marinaio. E i pavimenti a specchio, naturalmente. Una casa da esposizione, fino a che aveva potuto farsi le pulizie da sola. Poi, con gli anni se n’era andata anche la vista, e le righe nere sul lavabo o la polvere sulla credenza non le vedeva più.

Quanto tempo. Otto anni a maggio. Due prima… del buio.
Chissà se anche la stretta di mano dell’infermiera era stata molle così. È l’ultima che ha sentito, dopotutto. Lui era via per lavoro, quando gli hanno telefonato dall’ospedale era già tutto finito. Ha solo potuto vederla dopo, la faccia gialla distesa davvero come se dormisse, l’immancabile rosario tra le dita un po’ deformate dall’artrite.
Le lacrime erano uscite da sole, ma in silenzio. Solo un sobbalzo, quasi un singulto, in piedi nel bianco freddo davanti alla bara. Non era riuscito a baciarla. Neanche adesso sa dire perché. Si era limitato a sfiorarle le mani, corteccia fredda sotto le dita. Poi era uscito a piangere in silenzio, la faccia contro il calendario sul muro verdino.

Comunque si chiama Marta, o un nome così. La donna delle pulizie. Albanese, ma tanto una brava persona, avrebbe detto sempre sua madre.
All’inizio era sospettosa, Marta. Aveva l’aria da ma questo mi prende in giro, è cieco come me. Non poteva vederla, naturalmente, ma lo sentiva chiaramente, il mix di pena e diffidenza che aleggiava nell’aria. Nel modo irrequieto che aveva di muoversi, di spostare le cose, di schiarirsi la gola.
Poi, dopo l’episodio dei capelli nel lavandino, il cambiamento nel suo tono di voce, dalla compassione a un rispetto ancora venato di incredulità. Sicuro come l’oro che ha anche spalancato la bocca, per la sorpresa. L’ha sentita, che andava a controllare se c’erano altri capelli sparsi. Non ce n’erano.
L’ha conquistata definitivamente quando le ha preparato il caffè. Avvertiva la tensione del corpo di lei, sicuramente seduta in punta di sedia, in cucina, mentre lui armeggiava con sicurezza tra i barattoli e il gas. Riusciva a cogliere la forza trattenuta delle mani che avrebbero voluto aiutarlo, gli occhi che spiavano il tragitto del cucchiaino, dal barattolo del caffè alla moka. Neanche un granello, ne ha versato. Ricorda bene quando ha verificato, le dita sulla plastica fredda. Il tocco finale è stato aggiungerle un po' di latte. Quando gliel’ha offerto, ha percepito la contraddizione nel rifiuto complimentoso di lei, tra la pena per quello che giudicava un impossibile sforzo e la voglia di metterlo alla prova. Il suo grazie sommesso e meraviglioso è stato il premio. Nella tazzina senza una goccia fuori. Un capolavoro, davvero.
Da allora, lo porta in palmo di mano.
Certo, gli è costato un bel po’ di sforzo, ma questo lei non lo sa. Non sa le tazzine rovesciate, il caffè bollente sulle dita e sui pantaloni, la macchia di latte che si allarga sul ripiano levigato. Prove tecniche. Si è fabbricato un esame, uno dei tanti. E l’ha superato, come sempre. Almeno questo.
Ma è oggi l’esame più difficile. Se questo va bene, non importa più nient’altro. Andrà bene.

È passato un bel po’ di tempo, ormai. Sei anni fa, è successo. Si ferma in piedi, la spazzola ancora in mano, davanti allo specchio come se ci vedesse davvero. Abbassa la testa verso il pavimento. Poi la rialza di scatto e si riscuote, espirando a fondo dal naso, le labbra serrate.
Nel lavello di cucina ci sono ancora i piatti di ieri sera. Li sciacqua sotto il rubinetto e carica la lavastoviglie. Il detersivo nella vaschetta, verificando con le dita il livello. Clac dello sportello. Con la mano sinistra ruota la manopola, mentre con l’indice destro individua le tacche dei programmi. La cinque, come sempre. Risparmio energetico: non sono mai troppo sporchi, i piatti. Mica come quando si era messo in testa di fare il gulasch e ha dovuto rilavarsi la pentola a mano tre volte. Con la paglietta di ferro, tanto era incrostata, per non parlare del piano cottura.
Incidenti di percorso. Con le minestrine e le insalate non succede più. E quando decide per il ragù basta lo spargifiamma sotto la pentola di terracotta e il fuoco basso, per non attaccare. Progressi.

Sì, è passato un bel po’ di tempo. Ci vedeva ancora benissimo, quel giovedì. Era un giovedì, se lo ricorda perché era il giorno libero di Carla. Lei era ancora una supplente, arrancava da una scuola all’altra per mettere insieme un po’ di punteggio, e doveva accontentarsi di quello che trovava. Certo il sabato libero non lo davano all’ultima arrivata. Così era giovedì mattina e lui l’aveva invitata a visitare la fabbrica. Stavano insieme da poco, tutto sommato, cinque o sei mesi, e non c’era ancora stata l’occasione, ma lui ci teneva. I lavori finalmente erano terminati e in fondo era anche opera sua.
Quando erano arrivati al cancello, si erano fermati un momento sulla soglia. I finestroni dello stabilimento riflettevano quieti il primo sole di maggio. Nel parcheggio interno, le foglie lucide delle magnolie piantate da poco ondeggiavano al vento leggero della collina.
Non c’era nessuno. O meglio, nessuno che lavorava, tranne il custode all’ingresso, buongiorno ingegnere, venga venga, è tutto a posto tutto in ordine, mentre spazzolava veloce le briciole dalla giacca grigia, in piedi rigido davanti al tavolo sperando non si notasse la bottiglia.
Tutto era nuovo di zecca, i macchinari lustri, l’odore di vernice ancora nell’aria e i vetri con l’adesivo per le zuccate dei distratti. L’inaugurazione doveva esserci la settimana dopo, col sindaco e il vescovo e il generale dei carabinieri, tutto come dio comanda.

Era buffa, Carla, tacchi alti e tailleur crema, tra i mastodonti grigi e le casse da imballo sparse qua e là. Ma era un bel contrasto. Ricorda la vampata di tenerezza che l’ha riempito, a vederla andarsene in giro cauta, le gambe sottili già abbronzate, la punta leggera delle dita a sfiorare appena un bancone o una trave, nella lama di luce dei finestroni là in alto che le ricamava riflessi chiari tra i capelli. Come temesse di rompere qualcosa, lei così minuta sotto i muri di venti metri.
Ricorda che si è avvicinato, con l’intenzione di abbracciarla da dietro, nel modo che le piaceva tanto: lasciarsi andare contro di lui, corpo morbido su corpo asciutto, la cedevole lucentezza dei capelli a contatto con la sua guancia, a pregustare il bacio che sempre seguiva.

È stato l’inciampare in un bancale dimenticato, che gli ha salvato la vita. La fune d’acciaio avrebbe potuto spezzarsi in qualsiasi momento, ha poi stabilito l’inchiesta. Materiale difettoso. Però il momento è stato quello. Inciampando è rimasto indietro di un paio di metri, quel che bastava. Lui per fortuna non ha visto, non poteva più vedere. L’acciaio che le ha spezzato la spina dorsale è arrivato a lui indebolito, l’ultimo guizzo non più mortale. Aveva già avuto il suo pasto. In pratica, il corpo di lei ha fatto da barriera. Gli ha salvato la vita. Lui ricorda soltanto il bruciore atroce sulla fronte e come in un horror di serie B qualcosa di caldo dall’odore dolce e terribile, sulla faccia e giù a imbrattargli il vestito.
Quando si è svegliato all’ospedale aveva già capito.
La prima cosa che si è chiesto è stata se anche gli occhi dei ciechi possono piangere. Ha avuto molto tempo per sperimentare che possono.

Mancati controlli, hanno detto. Per risparmiare, per incuria o incompetenza. Tutto sommato non importa più. Sei anni sono un sacco di tempo, anche se il caldo sulla faccia e l’odore li ha sentiti ancora, per tanto tempo, ogni volta che ci ha pensato. Che si è costretto a pensarci. Un altro esame, anche questo. Ci ha messo molto tempo per riuscirci, e le prime volte vomitava. Poi, con l’andar del tempo, ce l’ha fatta. È riuscito a rivedere tutta la sequenza, dall’ingresso nel capannone fino alla fine. Non vuole dimenticare. È tutto quello che gli resta. Le fotografie ormai sono inutili, degli oggetti ha voluto conservare soltanto la sciarpa blu che le aveva portato dall’India. Dopo tanto tempo, riesce ancora a trovarci il suo profumo, la notte.

Il ronzare sommesso della lavastoviglie lo riporta alla realtà. Stringe le spalle in una contrazione dolorosa, poi si costringe a distenderle. Si appoggia con i palmi aperti sulla lamiera vibrante, abbassa la testa lentamente. Fa un respiro lungo a occhi chiusi - come se cambiasse qualcosa - e prende il telefono.

Il tragitto in taxi non è lungo, ma sgradevole, come sempre i viaggi in auto, da quando gli occhi non possono preavvisarlo delle curve e degli spostamenti bruschi. Occupa il tempo ripassando il comportamento che ha deciso di tenere.
Quando lo hanno chiamato, i suoi “soci”, non credeva alle sue orecchie. Solo perché erano passati sei anni pensavano che avesse dimenticato tutto? Le bugie, le carte sparite, le perizie truccate a suon di milioni. E la farsa del processo – quattro anni per la prima sentenza - un record, con la media nazionale. Insufficienza di prove, si chiamava una volta, adesso aveva cambiato nome, ma il senso era sempre quello: se hai soldi te la cavi, se non ne hai crepi. O paghi. Ah, erano stati bravissimi, loro. Periti di parte da Oscar per la recitazione, testimoni che cambiavano idea, documenti spariti, di tutto era successo. Anche lui, l’avevano assediato e bombardato così tanto di carte (di carte!) e di parole che a un certo punto era stato lì lì per crederci, che era stata solo una fatalità.
Poi non aveva più avuto voglia di combattere, la stanchezza aveva avuto la meglio e aveva firmato quello che gli avevano chiesto di firmare.
È stato il periodo più duro. Chiusura totale. Anche senza mangiare, spesso. Acqua minerale e scatolami, quando aveva imparato a usare l’apriscatole. Se no surgelati e microonde, un frutto, due wurstel, uno yogurt quando qualcuno glielo portava. Giornate interminabili tra le lenzuola disfatte, nell’aria pesante della casa trascurata, trascinandosi dal bagno alla poltrona, appoggiando la fronte al vetro inutile della finestra sul viale. Le notti con la radio accesa, a basso volume per non disturbare. Com’era, quella frase di Sofri che l’aveva tanto colpito? Ah, sì: gli anni volano, sono certi pomeriggi che non passano mai. Sacrosanto.

Quello che gli ha permesso di recuperare è stato il figlio dei vicini, quattro anni a luglio.
Era pomeriggio, crede – non ne è neppure sicuro – quando il gracidare perentorio del campanello l’ha scosso dal solito torpore, costringendolo ad arrivare sciabattando all’ingresso.
Quando si è trovato lì con la porta in mano, ascoltando la frase smozzicata del bambino che moriva in un sussurro, ha avuto una scossa. Ha sentito il respiro trattenuto del piccolo, ha percepito lo sgomento del suo ritrarsi istintivo, dello scalpiccio affannato su per le scale.
È rimasto fermo in piedi nell’aria stantia del pianerottolo, ad ascoltare rumori e voci dal piano superiore. Il colpo di grazia l’ha avuto quando la madre ha chiesto della palla, e il bambino è scoppiato in un pianto convulso, inframmezzato da schegge di parole dove affioravano paura e cattivo. Ha avuto un lungo brivido, il corpo scosso come un filo d’erba per un tempo infinito, un peso insostenibile tra le spalle magre. Poi ha chiuso piano la porta, sfinito dallo sforzo, abbassando adagio la maniglia a evitare il più piccolo rumore. Paura assurda di attirare l’attenzione, che tutti fossero lì a spiare come si era ridotto, com’era diventato. Lo scatto dello scrocco l’ha fatto trasalire come un’esplosione.
Si è appoggiato con la schiena alla porta. Immobile per un lungo momento, assaporando disgustato il lezzo rancido del pigiama, il ruvido della pelle tra le dita dei piedi, l’unto dei capelli arruffati, l’ispida ruvidezza della barba.

È da quel momento che è riuscito a risalire. Probabilmente il bimbo dei vicini non ha capito il perché dell’ enorme scatola di Lego da parte di quell’uomo che gli aveva fatto tanta paura. Glielo doveva. Da allora, più niente letto sporco e piatti incrostati, aria mefitica e maglioni unti. Non che siano state tutte rose, ricadute ne ha avute, ma ha scoperto che dedicarsi alle difficoltà pratiche aveva un effetto anestetico. Imparare a cucinare, ritrovare le cose dove le aveva lasciate, non farsi prendere dal panico quando esce col bastone a comprare il giornale.
Ormai ci sono giorni in cui riesce a non pensarci, anche per mezza giornata.
Ma la novità vera, è che anche il dolore si è fatto dolce. Come quando ti mordi una guancia da bambino e dopo il primo pianto continui a accarezzare la ferita con la lingua e insieme fa male ma ti piace, senti il dolore e l’orlo slabbrato della carne calda e non riesci a smettere. E il giorno dopo quasi ti dispiace che il dolore non ci sia più e lo vai a cercare, esplorando piano, perché ti fa paura ma ti attrae. Oggi gli tiene compagnia, il suo dolore, come un vecchio amico con cui hai litigato tanto tempo fa e non ricordi più il perché. Una cicatrice che accarezzi ogni tanto e non fa più male, soltanto tenerezza.

Il taxi frena. È arrivato. Sfila dal portafoglio la banconota giusta – non ha più bisogno di scomparti diversi, le riconosce, ormai – controlla le monete di resto e lascia un euro di mancia. Percepisce quasi fisicamente lo stupore del tassista. Piccole soddisfazioni da cieco emancipato.
L’aria è abbastanza calda, per essere aprile. Il vento di ieri è caduto, c’è la calma piatta che potrebbe precedere il temporale. Considerando che è sera, potrebbe fare più freddo.
Chissà se i suoi “soci” sono già lì. Chissà qual è stata la loro vera reazione alla sua scelta dell’ora. E del posto, soprattutto. Erano circospetti e cortesi, nel cercare di sondare il motivo e di fargli cambiare idea. Ma lui è stato irremovibile. Se volevano parlare di vendere, di contratti, di qualsiasi cosa riguardasse la fabbrica, quello era il posto. O così, o niente. E hanno dovuto far buon viso.

Sono già arrivati. Sente lo sbattere delle portiere. Due macchine diverse, non sono venuti insieme. L’”incidente” ha cambiato molte cose, e più ancora il processo. Affari loro.
Ci siamo. L’esame comincia.
Da Alberto una stretta di mano. Breve e virile. Deve aver fatto uno di quei corsi per manager tipo la prima presentazione è quella non verbale, attenzione alla cravatta e alle scarpe, stringete la mano con vigore ma non troppo, date un’immagine di sicurezza ma non di violenza eccetera eccetera. Americanate. Lei invece lo bacia addirittura, avvolgendolo in una nuvola soffocante di qualche costosa schifezza. Da quando ha fatto caso che ha lo stesso nome della stilista, e le hanno detto che le somiglia anche un po’, si sente in dovere di adottarne la linea completa, gioielli e scollature da troia comprese. Quando si dice le affinità elettive. Peccato che il fisico non sia più all’altezza. Questa veramente è una malignità, perché lui non ha più avuto modo di sincerarsene di persona, ma stando ai pettegolezzi raccolti tra gli ex-amici, pare sia proprio così.
I due parlano troppo, si parlano addosso, accavallando le frasi, e ogni tanto gli sfugge una risatina nervosa. Le parole non le saprebbe ripetere, è tutto concentrato sulla percezione del secondo livello, quello vero. La stretta che vorrebbe essere premurosa al suo gomito quando si arriva agli scalini. Lo scalpiccio irrequieto dei tacchi di lei sulla pietra. Alberto che si schiarisce la gola di continuo.
Lui non ha detto una parola, ma sembra che la cosa non li turbi più di tanto. Capace che non se ne sono neanche accorti.
Quando entrano, li accoglie un sospiro freddo di polvere e di ferro. La primavera dentro non è ancora arrivata.

Per lui è una mazzata. Sei anni indietro in un secondo. L’umido del cemento e l’aria stantia lo schiacciano, togliendogli il respiro. Ha un blocco in gola e la pelle d’oca, non riesce a deglutire, un crampo improvviso al ventre lo sega in due. Si sforza di restare immobile, aggrappato al bastone bianco come ad un palo. Sente un brivido salirgli dalle tempie, percepisce i capelli irrigidirsi dolorosamente uno per uno.
Rivive tutto. Il sibilo del cavo, il liquido caldo sulla faccia, l’odore. Istintivamente la mano sale sulla giacca per sentire il sangue. Vacilla. Ha paura di svenire. Poi muove una mano, ripercorre il filo della cucitura sull’orlo morbido della stoffa, cercando di concentrarsi. Conta le asole, il polpastrello allenato registra un punto irregolare all’altezza del secondo bottone. Si sforza di respirare col naso, emettendo l’aria lentamente.
Passato. È passato.
Loro non si sono accorti di nulla, ne è sicuro. Deve essere stato un attimo. Hanno solo smesso di parlare. Un certo effetto deve averglielo fatto, dopotutto, rimettere piede qui, con quello che è successo. Ma forse è meglio non sottovalutare il loro pelo sullo stomaco. Sente il clic dell’interruttore e poi il ronzio lontano dei neon che si accendono.

Si accorge che la mano sul bastone gli fa male, le dita sono ancora contratte e rigide sul metallo chiaro, l’anello cinese che Carla gli ha regalato è penetrato nella carne. Rimarrà il segno, per un po’. Rilascia la stretta lentamente, cambiando posizione. Appoggia la punta del bastone in avanti nel gesto familiare e inizia a muoversi, ticchettando piano.
Dall’esterno viene lo schianto secco di un tuono e subito dopo un tamburellare fitto scende dai finestroni lontani. Il temporale è arrivato.

Sperando di riuscire a controllare la voce, dice be’ se dobbiamo parlare d’affari andiamo in ufficio, no?
Le risatine sono nervose e forzate, e la stretta sul suo braccio più brutale di quanto richiederebbe l’aiuto a un cieco. Ma guarda, dopo tutto sono fatti di nervi e carne anche loro, al processo proprio non si sarebbe detto.
Lei adesso è più avanti. Sente la sua voce spostarsi qua e là per il capannone. Si lamenta della polvere, la cretina. Comincia a dire ma come ha fatto Carla con quel tailleur così ... e si blocca di colpo. Un opportuno sternuto di Alberto con bestemmia incorporata salva la situazione. Si fa per dire.
Finora è stato silenzioso, Alberto, concentrato sul suo ruolo inedito di guida al cieco. Non che sia mai stato un gran parlatore, barzellette idiote a parte. Un venditore di tappeti, più che un C.E.O., come gli piaceva farsi chiamare. Senza offesa per i venditori di tappeti. Gli è sempre rimasta la curiosità di chiedergli se lo sapeva, cosa voleva dire C.E.O., ma conosceva la risposta. La non risposta, più esattamente: lo avrebbe guardato dall’alto in basso, con tutto il disprezzo che riusciva a concentrare negli occhi bovini, poi si sarebbe guardato intorno con aria intensa e avrebbe tirato fuori qualche cazzata sull’America’s cup o sulla Formula uno fingendo di intendersene, come faceva per tutto. Un mezzuccio, certo, ma era servito a toglierlo dall’imbarazzo un sacco di volte, anche nelle assemblee della società. In tribunale meno, ma lì aveva supplito in altri modi.
Lo sente, che Alberto vorrebbe andare più in fretta, sente i suoi passi forzatamente trattenuti e i respiri profondi che tira per restare calmo. Certo stanno avanzando piano, il capannone non finisce mai. Duecentotrenta metri, se ricorda bene. Ma tanto, che fretta c’è? Hanno aspettato sei anni, possono aspettare sei minuti in più.
A un certo punto Alberto si blocca di colpo e tra un oh cazzo e l’altro dice qualcosa su un appuntamento per l’indomani. La stretta al gomito scompare. Il susseguirsi invadente dei bip gli dice che sta tentando di telefonare. Al terzo porca puttana si ricorda che dentro il capannone non c’è mai stato campo e lascia perdere.
In quel momento salta la luce. Se ne accorge dal gridolino idiota di lei e dalla bestemmia d’ordinanza di lui, più elaborata, a base di madonne e di botti. In effetti il ronzio dei neon non si sente più.

È stato il temporale. Non che per lui faccia differenza. Sono gli altri che adesso sono in difficoltà. Sente Alberto che si muove adagio qualche metro davanti a lui. La sua voce tra il teso e l’incazzato dice adesso ti vengo a prendere non preoccuparti, ma sbaglia direzione. Non si è ancora reso conto che a questo punto è lui, l’unico che riesce a “vedere”. A orientarsi, almeno. Oh, lui lo sa perfettamente, come ci si sente. Il senso di spaesamento totale che ti prende quando improvvisamente ti ritrovi a non poter più vedere. Mai. Non per un minuto o un’ora. Per sempre. Il panico. Certo, qui non siamo a questo, è una situazione temporanea. Quando si riaccenderà la luce si ristabiliranno i ruoli, le gerarchie. Il cieco zitto e buono in un angolo col suo bastoncino, e gli altri a zampettare allegri.

Intanto Alberto credendo di tornare indietro è andato avanti e ha raggiunto la donna. Altro gridolino idiota. Poi risata nervosa di lui
ah, ma sei tu credevo che fosse lui.
Dice vieni dammi la mano andiamo avanti, in ufficio ci deve essere una pila.
Dice più forte rivolto al vuoto tu aspetta qui, prendiamo la pila e torniamo a prenderti.
Troppo buoni.
Poi sente come uno strofinio di stoffa e uno squillante tieni giù le mani porco nell‘eco metallica delle navate vuote. Un colpo sordo a terra, sarà la borsa.
Risata maschile.
eppure una volta ti piaceva
dice lui insinuante
ti ho detto di tenere giù le mani
stile principessa offesa. Lo adotta con quelli che non le piacciono.
e dai, per una palpatina, sei un po’ passata ma ancora morbida nei punti giusti
è untuosamente prepotente, nell’abbassarsi intimo del tono si sente la protervia di chi è abituato al genere di impresa
lasciami, che sei pure grasso fa far schifo
La voce di lei è sprezzante e acuta
grasso, eh? senti qui se è grasso, senti
Sente rumori confusi, scarpe che sfregano sul cemento
e molla la mano, che vuoi da me, lasciami
Poi l’inequivocabile crac della stoffa che si strappa e
cazzo fai, ma lo sai quanto m’è costato ‘sto vestito, stronza.
Risata di gola di lei che si allontana, i tacchi incerti sul cemento.
Ridi, eh? Ma ti insegno io, ti insegno…
Scalpiccio
no, dai piantala, mica l’ho fatto apposta, mi fai male
Lo scalpiccio si fa più distante. È riuscita a divincolarsi. Sembra che stia scappando nel buio.
Tonfo
ahi, mi sono storta una caviglia, dammi una mano non fare lo stronzo .
Una specie di grugnito e un ansimare sordo. Sovrappeso lo è sempre stato, e adesso è pure peggiorato, Alberto. Whisky come se piovesse e più niente sport, dopo l’incidente sugli sci.
Ha cambiato genere di piste, adesso. Sempre bianche, ma meno faticose, diciamo. Basta uno specchietto e un cinquanta euro arrotolato. Movimento, zero. Neanche più lo squash che gli piaceva tanto, che faceva tanto americano. Vero che per lo squash non è necessario essere coglioni, però aiuta. Proprio il suo genere. Anche se è difficile capire come riesca a essere insieme coglione e astuto, visto com’è riuscito a sfangarla in tribunale.

Lo sente sbuffare strisciando i mocassini su misura nella polvere del pavimento.
te la do io la caviglia duemila euro cazzo
Sembra incazzato davvero. Si vede che scarica qui la tensione di tutto il resto. E poi, quale migliore preda di una donna che pesa la metà di lui? Ma non le farà niente di serio, ci scommette. Una sberla, tutt’al più. Sono troppo legati, quei due. Troppi interessi in comune da sistemare. Si sparerebbero volentieri, ma sono condannati a collaborare, almeno finché non si chiude la questione.
e il tuo straccetto da troia, quanto ti è costato, eh? Vuoi vedere che fine fa , vuoi vedere?
Sempre più rabbia nella sua voce, e un presagio di violenza, ora, nei passi pesanti che le si avvicinano.
e dai, piantala
Anche lei ha la voce affannata, adesso. Un tono stridulo. Comincia ad avere paura davvero. Certo il buio peggiora tutto, lui lo sa bene. Sono più lontani, ora, verso il centro del capannone.
All’improvviso sente un ah! soddisfatto mentre i passi di lui da incerti si fanno veloci
non ci avevi pensato, a questo, eh?
La voce di lei è quasi un gemito
oh cazzo la luce del telefonino
sì, la luce del telefonino
le fa il verso.
La luce del telefonino. Bella idea, obiettivamente. E bravo Alberto. Accendini più niente, da quando ha smesso di fumare. L’unica cosa furba copiata dagli americani. Si ricorda quando impestava l’ufficio con quei sigaracci spacciati per cubani che ovviamente qualcuno gli portava di contrabbando. Certo che cammina sicuro, adesso. La luce blu – o verde, chissà, il suo era verde, una volta - nel buio assoluto deve sembrare un faro.
Il fruscio là in fondo deve essere lei che tenta di scappare. Ma la luce ce l’ha solo l’uomo, lei no. Troppo stupida anche per avere un cellulare senza dimenticarlo da qualche parte. O farlo cadere nella vasca da bagno.
Il fruscio adesso è inframmezzato da gemiti soffocati, parole smozzicate che si allontanano.
tanto ti becco lo stesso, è inutile che scappi
La voce si confonde con le raffiche della pioggia sui vetri.
dove sei finita
abbaia Alberto. Comincia a pensare che voglia farle del male sul serio, ha una voce rabbiosa che non gli conosceva. Non sarà una sberla isolata. Facile che per qualche giorno dovrà chiudersi in casa a smaltire i lividi.
e questo cazzo è porca puttana anche i topi
il colpo sul cemento si stacca netto sullo scrosciare dell’acqua là in alto.
no il telefono no, cazzo!
Già, i topi. Un ambiente enorme e disabitato, facile che ce ne siano. Il grand’uomo ha visto il topo e si è lasciato sfuggire il cellulare. Così adesso sono di nuovo alla pari, con lei. Forza fisica a parte.
Il rumore della pioggia è diventato un rombo. I tuoni si succedono continuamente. Ma se ci sono i tuoni c’è anche…
ah! Ti ho vista!
la luce dei lampi. Ne basta un altro perché la raggiunga, e se continua così, non avrà problemi. Sente di nuovo i passi affrettarsi decisi, poi fermarsi di colpo.

non trovo più la borsa mi sono sporcata tutto il vestito e la caviglia mi fa male
il tono adesso è infantile e querulo, la sua arma segreta. Ha cambiato tattica. Sotto i passi duri dell’uomo sente il pianto sommesso di lei. Gli sembra di vederla, seduta di sbieco con le gambe raccolte sotto il corpo, appoggiata a una mano, le guance rigate di lacrime vere. Peccato che al buio non renda gran che. Ci vorrebbe un lampo, di nuovo. Se no Alberto si perde il mento tremulo e gli occhioni spalancati verso il maschio forte e incombente sul suo fragile corpo di umile donna. Sempre avuto un gran senso del teatro, lei. È così che è riuscita a infinocchiare tutti. Così e con un certo talento per le attività orizzontali, a quanto dicono.

La voce dell’uomo tradisce soddisfazione e rabbia
‘stavolta ti ho beccato cazzo
Riesce a distinguere a fatica, nel frastuono della pioggia, un trascinare pesante, lo strofinio della stoffa sul cemento
no, mi fai male davvero, lasciami
Sempre più lagnosa, ma percepisce una punta di collera, adesso, il tono altezzoso di chi non ha più voglia di giocare.
e certo che ti faccio male…
rumori soffocati di colluttazione, ansimare a due voci, poi
ah!
il grido dell’uomo è basso e soffocato, ripiegato su se stesso.
troia!
gli esce ancora in un soffio dolorante. Dall’impatto sordo e dall’arrestarsi immediato dei movimenti, gli ha dato una ginocchiata.
Lei adesso è tagliente.
ti piace questa? è abbastanza morbida, questa? eh?
Si accorge di stringere convulsamente il bastone, fermo in piedi, le orecchie tese a non perdere nulla.
La voce di lui è un ruggito
ti faccio vedere io se mi piace…
una corsa di passi interrotti, lamenti inarticolati. Rumori confusi. Fruscio, ansimare. Un grugnito più forte, lo squittio spaventato di lei, poi
aaah!
il grido si tronca di colpo in un tonfo sordo che sembra venire dal basso.

La fossa. L’aveva dimenticata. Sei metri. Sente i capelli rizzarglisi sulla testa, un brivido freddo gli percorre la schiena. I mancorrenti. Non c’erano. Del resto mancava una settimana all’inaugurazione, all’epoca del fatto, non era tutto pronto, ancora.
Non riesce a fermare il tremore convulso che lo ha preso. Vorrebbe muoversi, ma non ci riesce. Come negli incubi ha le gambe di legno che non rispondono più. Sta lì piantato, fermo immobile, gli occhi inutilmente sbarrati e la bocca aperta. Aspetta di sentire qualcosa. Di capire.

Una voce bassa e roca si fa largo, un’eco metallica nel vuoto freddo del capannone.
Alberto lo chiama per nome, quasi un’invocazione, ben diversa dal tono violento di poco fa e dal finto disinvolto che aveva prima.
Lui tace. Sa che dovrebbe rispondere, chiedere come stanno, se si sono fatti male, ma la lingua gli rimane immobile nella bocca improvvisamente riarsa. Cerca di deglutire ma non ha saliva. Boccheggia ripetutamente nell’aria molle, non riesce a far uscire un suono. Non sa dire quanto tempo passa, dritto nel silenzio umido, le orecchie indolenzite nello sforzo di ascoltare.
Poi un ringhio rabbioso lo raggiunge dal basso
dove sei bastardo
Nella voce sente qualcosa che prima non c’era. Sofferenza, ma anche paura. Ora è più un gemito, quasi una preghiera
rispondi lo so che mi senti
Lui tace.

Movimenti molli. Fruscii faticosi di stoffa trascinata. Un respiro affannato. Silenzio. Poi un suono antico, inatteso e incongruo, che comincia in sordina e poi cresce e si allarga tra le navate deserte. Un singhiozzare quieto che si alza e poi stempera in un lamento basso e prolungato.

è morta , lo capisci che è morta io non volevo quando siamo caduti l’ho schiacciata
le parole escono sottili, ora, un soffio disperato.
aiutami ho battuto la testa sanguino mi fa male non riesco a stare in piedi ti prego

Lui continua a tacere. Il brivido che lo percorre è diventato un tremito violento. Deve serrare con forza le mascelle per non sbattere i denti, ma è incapace di muoversi.
oh dio ho un buco in testa mi esce qualcosa fai qualcosa ti prego chiama qualcuno
Il tono è sempre più basso, fa fatica a ricostruire le frasi nello scrosciare feroce delle grondaie là in alto.
…puoi …sciarmi così… …prego
Le parole sono confuse e fievoli, si perdono in un lamento sconnesso, via via più debole. Riesce a cogliere soltanto dei frammenti.
…bulanza …telefona ..iuto

Il silenzio irrompe di colpo. La pioggia è diminuita. Non riesce più a percepire nulla, solo il picchiettare delle gocce che si fanno più rade. No, c’è qualcosa... Un raspare animale si insinua sullo sgocciolio di sottofondo. Di nuovo nulla. Poi
Ah!
L’eco metallica della voce lo fa sobbalzare. Il grido è forte ma strozzato. Avverte il cozzo sordo della testa sul cemento come una fitta aguzza tra le tempie sudate. Un soffio freddo lo raggiunge nel silenzio improvvisamente vuoto.

Si sente prosciugato, secco, come quella carogna di cammello vista nel deserto, tanti anni fa. Ha paura di accasciarsi lì, sul pavimento freddo di polvere. Non trema più, ora. Gli sembra soltanto di avere le braccia e le gambe di pietra. Sente il collo rigido, le spalle contratte sotto l’impermeabile. Nelle orecchie un pulsare ritmico accompagna lo sgocciolare irrequieto delle grondaie. Deve muoversi. Concentra tutta la sua energia nel cercare di spostare le dita artigliate sul bastone. Sente il manico di legno sotto le dita, i polpastrelli che arrivano a lambire il metallo freddo sotto la vera d’argento. Si concentra sull’indice. Suda. Con uno sforzo che lo sfinisce percepisce le venature amichevoli dell’impugnatura. Ne ripercorre la piccola onda a sinistra, il nodo centrale. Poi la piega verso il basso, la minuscola crepa, il residuo secco di vernice. Il vecchio esercizio dei primi tempi, uno dei primi esami. Avere qualcosa di familiare a portata di mano per dominare il panico del buio.
Lentamente, il percorso conosciuto lo calma, lo riporta alla coscienza, alla padronanza di sé. Riesce a muovere la mano, poi il braccio. Al primo tentativo di spostare un piede barcolla. Un lampo di panico assoluto. Se cade, sa che non riuscirà a rialzarsi. Allarga d’istinto le braccia, oscilla ma resta in piedi. Un respiro profondo. Il pulsare alle orecchie si sta allontanando. Ancora un momento. Calma. Ecco. Alza la testa verso l’alto, la riabbassa.
Una serie di scatti e un ronzio sottile. Deve essere tornata la luce. Immagina la scena: un cieco con il bastone bianco in piedi in mezzo al capannone gelido e due fantocci contorti in una fossa. Rabbrividisce di nuovo. È immobile, il mento alto e gli occhi vuoti spalancati verso l’angolo freddo della fossa. Resta ancora un momento fermo, poi si riscuote. Le gambe rispondono di nuovo, e anche le mani. Si muove. A sinistra. Scivola lentamente verso la parete laterale, il bastone teso in avanti a esplorare il pavimento. Il toc secco del metallo sulla ceramica gli dice che è arrivato. Il freddo liscio gli fa scattare in mente qualcosa. La ceramica. Ma certo. Le piastrelle, più esattamente. Ora ricorda. C’era stato un problema, e quella naturalmente aveva fatto su un casino, neanche fosse stato il bagno di casa sua… Di colpo immagina il corpo contratto nella fossa, come una bambola rotta. Si vergogna del pensiero impietoso.
Insomma era saltato fuori che c’era un difetto in una fila di piastrelle, sul lato sinistro del capannone, proprio sul tragitto che portava agli uffici. Una crepa sottile come un ago, che percorreva le piastrelle longitudinalmente. Su tutto il lato. Roba da ridere, per una fabbrica, ma dicevano che nel giro di qualche mese, con gli sbalzi di temperatura, la crepa si sarebbe allargata. Chi se ne frega, aveva detto lui, ma gli avevano fatto presente i finanziamenti che avevano avuto, le banche, i notabili in visita, il vescovo. Insomma un problema d’immagine. La cosa buffa era che alla fine non se n’era fatto niente, troppi soldi, e al diavolo i notabili e il vescovo.

Faccia alla parete, tasta con la mano libera. Più o meno all’altezza di un metro e mezzo, se ricorda bene. Eccola qui. I polpastrelli addestrati seguono la linea sottile con facilità. Sposta il bastone alla sinistra e s’incammina, prima esitando, poi sempre più sicuro. Potrebbe semplicemente appoggiarsi alla parete, ma seguire la linea gli dà un senso di sicurezza e di padronanza di cui ha assolutamente bisogno per non cedere al panico. Per non pensare.
Quando la superficie liscia delle piastrelle s’interrompe sull’infisso di metallo, segue con le dita il tubo zigrinato che porta all’interruttore.
La serratura si apre con uno scatto e un ronzio. Esce nell’aria umida di asfalto e di terra bagnata. Il colpo secco della porta di metallo dietro di lui lo fa trasalire. Scende dal marciapiede e fa due passi a destra, dieci in avanti. Si ferma in piedi, sotto la cupola stillante della magnolia. Allunga la mano verso la consistenza rugosa del tronco e appoggia delicatamente il palmo. Sente l’umido salirgli per il braccio, percepisce il profumo delle foglie bagnate, lo scricchiolio della ghiaia fredda sotto le scarpe. Resta così per un tempo che gli pare infinito, senza pensare. Ascolta il cinguettare prudente di un passero, il rombo attutito delle auto, la sirena di un antifurto. Poi raddrizza lentamente la schiena, svuota i polmoni in un lungo sospiro. Alza lo sguardo al cielo come se vedesse. L’incresparsi lieve delle labbra potrebbe essere un sorriso triste.
Dal capannone affiora lo sgocciolare lento delle grondaie, coperto per un momento dal brontolio di un tuono lontano. Si incammina sotto le ultime gocce, alzando sul collo il bavero dell’impermeabile. Il ticchettio familiare del bastone gli fa strada. L’esame è andato bene.

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