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QUESTIONE DI TEMPO
di Alessio Iarrera
Pubblicato su SITO


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Spero che quando sarò morto qualcuno legga questi appunti. Se questo dovesse succedere potrà capire che io non sono pazzo e che non ho mai avuto nessuna smania del tempo. Amo la vita con passione. Il mio amore per la vita è istintivo, incontenibile, profondo. Vivo con tutti i sensi, osservo ciò che di meglio esiste nell’umanità, respiro l’esistenza, ne ascolto il ritmo pacifico e frenetico quotidiano. Tutta la mia carne è accarezzata dalla vita. Non ho mai avuto problemi a gestire il mio tempo anche se di solito non ho orologi al polso e non ho pendole in casa. Mi oriento con il giorno e la notte come una meridiana vivente e lo scorrere del tempo lo sento nelle vene. Allora mi viene voglia di assaporare ogni piacere. Di sentire i battiti del mio cuore ch’accendono l’impetuoso desiderio della vita a ogni ora, a ogni minuto, a ogni secondo che trascorre. Ma ciò che amiamo con tanta passione finisce per deprimerci. Non avrei altra spiegazione per chiarire l’accaduto, altrimenti! Non so nemmeno in che modo possa io raccontarlo. Non lo so, so soltanto che è successo.
Ieri – ma era ieri? Certo, ma poteva essere un altro giorno, un altro mese, non lo so… ma la memoria mi dice che è successo proprio ieri. Ora però non ne sono più sicuro. Non so più da quanto dura quest’agonia. Da quanto? Chissà! Non lo so! – dunque, ieri sono uscito per la solita passeggiata ai giardini pubblici, dopo cena. La dolce ombra della sera stava avvolgendo la città col suo impecettibile tocco accendendo i colori dei lampioni e dei negozi lungo i viali alberati, le forme dei monumenti nei parchi e le luci delle case. Scendendo verso le vie dei giardini pubblici ammiravo il nastro di stelle che tagliava il cielo dai tetti delle case con le finestre aperte e illuminate. Mi sentivo invaso da una gioia leggera mentre la luce elettrica dei negozi e dei lampioni sfavillava sul mio cammino. Erano tanti fuochi accesi sulla gente che si fermava a guardare le vetrine tentennando nell’incertezza dell’acquisto di un cappotto o di una borsetta che incorniciavano manichini da esposizione baciati dai riflettori. La notte era scintillante e le persone passavano, ridevano e passeggiavano sui marciapiedi diffondendo luce di vita lungo le strade e i parchi della città. Entrai per qualche minuto in un bar: quale bar? Non ricordo più. Fui accolto dal brusio della voce dei numerosi avventori seduti ai tavolini e al bancone. Lo splendore delle lampadine al neon che scattavano sugli specchi e sulle pareti della sala mi colmò di tenerezza. Ero in un ambiente amico anche se non conoscevo nessuno ma mi piaceva sentire il calore delle persone che si strofinavano contro il mio corpo per passare o andare in bagno, tanta era la ressa. Bevvi una birra stando tra la gente e ascoltandone le mille voci confuse, le risate e l’armonia della vita. Uscii e raggiunsi il viale dell’Università, dove i caffè parevano, tra le strade e i vicoli, fuochi d’amore. I platani, sommersi di luce, erano fosforescenti. Mi fermai sotto la torre della Ghirlandina, illuminata da due linee di fuoco dai fari della piazza e d’imponente bellezza. Ne fui così rapito e una gioia improvvisa mi entrò nelle vene. Varcai il portico che circondava l’ingresso del Comune e osservai l’immenso orologio. Dalla piazza pareva la faccia di un gigante. Le lancette dei secondi scorrevano a scatti mentre l’ora della notte procedeva tranquilla. Gli astri, gettati nell’immenso spazio del cielo, disegnavano figure di luce. Restai a guardare l’orologio per molto tempo. M’aveva colto un brivido strano, fu come se un presentimento oscurasse il mio cuore ma non ci feci caso e continuai a camminare. Poi ritornai indietro. Ripassai per la piazza ma non guardai l’orologio. Lo confesso, avevo un po’ paura ma non sapevo di cosa. Ritornai nei giardini pubblici. La gente rideva seduta sulle panchine. I bambini mangiavano il gelato o giocavano a rincorrersi. Che ore erano? Non lo so. L’oscurità incombeva dal cielo lentamente. Densi nuvoloni di pece. Sentii improvvisamente freddo e mi mossi verso il viale delle Rimembranze, uscendo dal parco. Ed ecco mi accorsi che stava succedendo qualcosa di nuovo, inaspettato, alieno. Mi parve che ovattato si facesse il rumore, come distante un miglio, che l’aria fluttuasse densa come melassa imputridita e non avesse nessuna eco, nessun brivido sonoro. Deserti erano il viale e il parco, adesso. Solo due figure impellicciate passeggiavano vicino alla fermata dei taxi, e sulla strada illuminata a malapena dai lampioni languenti, una fila di automobili parcheggiate come una colonna di bidoni abbandonati. Altri veicoli andavano lentamente, svoltando ai semafori dal verde sbiadito, carichi di buio senza nessun brillio di luci dei fanali e ammiccamenti di frecce accese. Sotto ogni lampione i vetri dei parabrezza perdevano ogni scintillio e la luce pareva come risucchiata dall’oscurità. I semafori smisero di lampeggiare, i tre colori furono inghiottiti dagli oblò. Occhi improvvisamente ciechi. I passanti, quasi invisibili, procedevano con passo uguale seguendo un rito arcano ma le scarpe sul lastrico di ciottoli non rumoreggiavano, i tacchi delle dame marciavano sul selciato ma senza far suono. E uno dopo l’altro sparirono anche i passanti. Un di loro scorsi, indistinto, accorrere verso uno svincolo. Un uomo con un grosso cappotto grigio e una specie di coppola in testa. Lo seguii, poi svoltai nella via Respighi e tornai sul viale dei negozi. Non c’era più, né i negozi erano più brillanti, né le vetrine piene di colori e di luce erano più luminose. Ora i manichini esposti erano immersi nel buio e nel viale non c’era più anima viva. Mai avevo visto tanto deserto nella città. Mi sentivo spinto dalla disperazione, dal bisogno di correre via. Arrivai fino alla Ghirlandina. Qui mi arrestai, inquieto. M’accorsi che la torre non era illuminata dai riflettori della piazza. Compresi che mai avevo veduto una piazza così vuota e anonima, così scura. Neanche più a scorgere la punta della torre riuscivo, il cui vano delle campane si perdeva ormai nell’immensità di quel tremendo silenzio. Il silenzio dell’oblio che pareva abbassarsi sulla città che amavo per annullarne i rumori, le luci, l’allegria e la vita. Tornai indietro e i miei passi non emettevano nessun suono. Provai a pestare la terra per sentire il tonfo delle scarpe sul marciapiede, niente. Intorno a me era il deserto. In Piazza Roma m’imbattei nell’ampio parcheggio vuoto e guardai la Chiesa di San Domenico, accanto alla prestigiosa Accademia Militare. La cupola pareva avvolta da nubi nerastre, così scure da renderle impenetrabili e solenni. L’immensità del silenzio aveva sommerso ogni cosa. I lampioni spenti, i negozi morti, la gente sparita. Camminai ancora. Verso la stazione dei treni, dove speravo di ritrovare i rumori, c’era una fila di vagoni fermi sui binari. Passai accanto alle carrozze e chiamai ma non uscì nessuno. La mia stessa voce era priva di timbro. Allungai il passo per evitare quel silenzio di morte e mi precipitai nella saletta d’attesa. Vuota, ma in un angolo, completamente dimenticati, c’erano cataste di bagagli, anonimi e silenziosi. Davanti alla guardiola del controllore vidi un cappello da capostazione abbandonato sulla spalliera della sedia e attaccato alla porta di vetro un biglietto con scritto TORNO SUBITO. Osservai il quadrante dell’orologio a muro. La lancetta dei secondi batteva a destra e a sinistra a intermittenza, le altre erano ferme. Sembrava il dito di un bambino dispettoso che mi faceva no no. Poi più niente. Che ore erano? Osservai il movimento della lancetta dei secondi finché non si fermò. Mi pareva di aver girato tutta la città perché le gambe mi si accartocciarono e dovetti sedermi su una panchina della saletta d’attesa. Ansimavo. Solo dopo parecchi minuti, ore, anni, ricominciai a camminare, ma non sapevo più dove orientarmi. Svoltai verso viale Medaglie d’Oro e mi misi a correre. Entrai in un vicolo cieco e buio. Mi ero perso. Poi riconobbi la Banca del Lavoro e la cancellata di ferro. Il vetro era scuro e all’interno della banca i computer erano vuoti come scatoloni di cartone. Cosa potevo fare? Mi decisi a suonare alle case. Mi attaccai ai citofoni per chiamare la gente. Nessun campanello suonava, nessuna voce rispondeva. Passai davanti a una villetta. Le finestre del piano terra erano aperte ma all’interno non c’era più nessuno. Mobilio e oscurità soltanto. Suonai un’altra volta al citofono di una palazzina pigiando sui pulsanti di tutte le targhette. Nessun suono elettrico uscì dalla rete del citofono. Nessuno rispondeva. Nessuno apriva la porta. Suonai ancora e sentivo che le lacrime erano prossime insieme allo sfinimento. Aspettai. Niente. Ma la polizia dov’era? I carabinieri dov’erano? Pensai. Ma quel pensiero di speranza morì quando vidi che nel parcheggio c’era un’auto della celere con la portiera dell’autista aperta. La macchina, abbandonata sulla strada, era vuota e silenziosa. Osservai le sirene spente sul tettuccio e l’idea di attaccarle per attirare l’attenzione mi sfiorò ma non suonarono. Allora gridai, con tutto il fiato che avevo in petto:
– Aiuto! Aiutatemi! Aiuto! Aiuto!
La mia voce morì nella via vuota, senza suono, debolissima, schiacciata da quell’orrendo silenzio. Anche quella disperata richiesta, se mai qualcuno l’avesse udita, restò senza risposta. Ero terrorizzato! Corsi per le strade urlando senza voce e intanto le lacrime mi rigavano il viso. Supplicavo le vie vuote di rispondermi, le auto abbandonate di portarmi lontano dalla città morta e buia. Avanzavo suonando campanelli senza più orientamento, tirando sassi alle finestre chiuse e alle persiane dei condomini, battendo i piedi e picchiando i pali della luce e i cassonetti della spazzatura con mani e bastoni. A un tratto mi accorsi che ero ritornato alla stazione dei treni, nella saletta d’attesa e che il quadrante dell’orologio a muro aveva ripreso quel dondolio intermittente della lancetta dei secondi. Fui preso da indicibile orrore. Che cos’era successo al tempo? Oh, mio Dio! Che cos’era successo al tempo? Ripresi a camminare, pensai che tutti gli orologi erano fermi e che le lancette dei secondi oscillavano a destra e a sinistra con quel dondolio da meccanismo inceppato senza mai andare avanti. Mi sedetti su una panchina e presi la testa tra le mani. Ero prigioniero del tempo che s’era fermato. E la città era deserta perché le altre persone vivevano la loro vita sincronizzata con orologi che funzionavano mentre il mio s’era completamente bloccato in quella dimensione surreale. Ma volli verificare, volli sapere. Trovai la strada per la piazza della Ghirlandina e con un’orrenda paura nelle ossa vidi che anche la lancetta dei secondi dell’orologio del Comune oscillava. E io sarei morto se il grande orologio della città si fosse fermato per sempre. Ed era possibile perché anche quello della saletta d’attesa della stazione dei treni s’era fermato. Allora mi sedetti al centro della piazza deserta e piansi. Piansi davanti a quell’orologio gigantesco che segnava sulla lancetta intermittente i secondi bloccati di quella mia vita ormai agli sgoccioli. E ora, mentre sto scrivendo queste ultime righe, sento che non resisterò a lungo e che morirò prima ancora del momento fatidico.


© Alessio Iarrera





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