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Urla di culture in fermento
di Andrea Succi
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Rivedo nel suo sguardo la stessa ansia di farsi che avevo io fino a due anni fa, la stessa feroce angoscia di andar fuori il più presto possibile, la stessa glaciale indifferenza nei confronti di chi non può aiutarlo.
Mi ha appena chiesto una pastiglia.
C’è chi si fa di ecstasy, chi di coca, chi di altre droghe, chi di amore, chi di naturali endorfine.
Io molto più semplicemente mi facevo di alcool. Se ce lo si poteva sparare nelle vene, l’avrei fatto, cazzo se l’avrei fatto!
Ma, ehy, non si poteva!
Mi ha appena chiesto una pastiglia, non ce l’ho, ho chiuso con certi giri.
Lo guardo senza dire nulla.
Non sono seduto al mio solito posto, oggi no, oggi è diverso.
È la prima volta che torno da sobrio, e non so dire se l’effetto mi piaccia o meno.
L’unica cosa che sento è una pungente, a tratti, lancinante, solitudine.
Eppure sono con gli amici di sempre, o forse è proprio per questo.
Eppure questo posto è terribilmente pieno di gente, ogni minuto che passa ne arriva sempre di più.
Un uomo tiene in braccio una fatina bionda e un bimbo di colore.
L’avrà adottato, penso.
La bimba mi guarda e accenna un sorriso. Ricambio.
All’improvviso un fischio assordante invade l’aria e si infila nelle mie orecchie. Non sento più niente.
Sono accerchiato da migliaia di persone, forse qualcuno mi parla ma è come se fossi in una bolla d’aria.
Che qualcuno la buchi, cazzo!
Ma a queste cose bisogna che ognuno provveda da sé.
Mi giro verso sinistra, un folto gruppo di scalmanati si sbraccia e urla, migliaia di bocche si uniscono a formare una gigantesca, mastodontica, immensa bocca che urla all’unisono.
Sembra ce l’abbia con me, sembra voglia mangiarmi in un sol boccone.
Sto morendo di paura, mi tremano le gambe, cerco con gli occhi la fata di prima ma non c’è più.
Mi guardo intorno spaurito, dio mio non c’è più nessuno.
E i miei amici? Niente da fare.
Anche l’immensa bocca è scomparsa.
È rimasto soltanto un ragazzo della mia età, biondo, come me, poco robusto, come me, sembra divertirsi, al contrario di me.
Sembriamo due gocce d’acqua di due epoche diverse.
Io in bianco e nero, lui a colori. O forse l’esatto opposto.
È seduto su un muretto alto due metri, al di qua di una grande e alta vetrata che lo sovrasta.
La sua immagine è riflessa su tutta la vetrata, guarda me, guarda proprio me.
Mi sorride. Alza la mano sinistra, nella quale tiene una bottiglia di plastica da due litri, piena di liquido arancione, e fa il gesto di brindare. Beve. Si asciuga le labbra con la mano e ride, ride di gusto.
Ride di me?
Mi fa l’occhiolino e quando riapre l’occhio ci sento di nuovo bene.
Sento i discorsi dei miei amici, li vedo accanto a me, rivedo le migliaia di persone, rivedo la fatina.
Vedo tante donne, tutte bellissime, una in particolare cattura la mia attenzione.
Avrà più o meno trenta anni e sta gentilmente rifiutando le avances di un giovane e inesperto manager in giacca e cravatta.
Sul suo volto si allarga un sorriso da ingenua conquistatrice di uomini (e forse anche di donne, chi lo sa!) un sorriso fine, di una timida maliziosità.
Un sorriso che gli sorridono anche le orecchie, un sorriso che, da solo, basta a riempire una giornata vuota.
Sembra nata per sorridere.
Sfodera denti bianchissimi, ha labbra morbide e saporite come una morositas, e due occhi da gatta, una di quelle gatte dolci solo con il proprio amante.
Ricevo una botta sulla spalla che quasi mi sbilancia.
Una ragazza con i capelli cortissimi a spazzola mi è finita addosso.
Mi dice solo «Scusa amore!» e scorgo il suo piercing sulla lingua.
Per scusarsi, o almeno così credo, mi dà un bacio a stampo sulle labbra e ricomincia a correre e a farsi largo tra la folla.
Ha fretta e si vede. Oramai ci siamo quasi.
Tutti quegli scalmanati che stanno sulla mia sinistra si sono coperti con un enorme lenzuolo. Ma non fa freddo.
Il lenzuolo mostra un volto che urla pazzia.
L’Urlo di Munch.
È la prima volta che vedo una coreografia dal vivo, anche se una parte di me è ancora sotto quel lenzuolo.
Tra i tanti cori prepartita anche il “Noi odiamo la Juve, noi odiamo il Verona, noi odiamo la Roma, forza Magico Milan” sulle note di Pomp and Circumstance March n° 1 di Beethoven.
Fischio d’inizio. La Scala del Calcio milanese urla cultura.

© Andrea Succi





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