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Emily
di Ivan Visini
Pubblicato su PB6


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Emily è una macchina. Di carne e sangue. Di maglie metalliche fuse tra le fibre muscolari. Di micro circuiti e schizzi elettrici. Emily ha luci colorate intermittenti al centro delle pupille, ed un cuore che non batte, ma sibila come un pistone idraulico.

Cosa sono io?

Un ammasso, un agglomerato di materie incompatibili tra loro. Che per strana ragione è stato composto, costruito, edificato su di uno scheletro di carne ed ossa.

Sono qualcosa di diverso da tutto ciò che sia stato mai creato.

Io sono Emily.

Non una macchina, non un essere umano. Ma un fiore semilucido, di petali affilati come lamette da barba.

Esperimento. Chiamano questo corpo.

Esperimento. Sdraiata su di un tavolo da lavoro, dove chirurghi disinfettati manipolano parti meccaniche.

Vedo.

Il loro incessante e rapido muoversi. Cavi colorati fluiscono come arterie, dentro e fuori me. Ho gli occhi aperti e nano punture d'insetti artificiali saldano e modificano, inseriscono. Illuminano. E luce, luce, LUCE.

Fotogrammi scorrono lenti. Saltano. E' la realtà nel suo nascere.

Mani macchiate di sangue. Il mio sangue.

Il mio sangue.

Inseriscono oggetti sconosciuti. Apparentemente irriconoscibili da occhi inesperti.
Organi? Forse.

Quando un robot muore, i suoi organi vengono disinstallati e riutilizzati. Se possibile. Ma io non sono un…

Corpo vuoto.

Macino teorie, pensieri, che silenziosi drogano il mio cervello con visioni supplementari dell'ambiente circostante. Pallido. Freddo. Fluorescentemente bianco.

Occhi fissi. Dicevo. Punzecchiati fino al nucleo.
Guardo il soffitto. Immobile. E' uno specchio. La rifrazione delle sorgenti luminose definisce le forme negli svariati movimenti. Catenarie luminose natalizie. Questi apparentemente uomini asettici.

Il mio corpo disteso è composto da parti disgregate dal tronco. Le braccia fuori dalla propria sede naturale sono poggiate lungo i miei fianchi. Non perdo sangue. Forse è finito. Come accade per le lacrime.

Tutto finisce. E' la legge naturale di ogni inizio.

Il mio petto è un tripudio d'elettricità e movimento. Qualcosa si muove. Pompa, motore, meccanismo propulsore, macchina.

Cuore.

Fluidi scorrono. Non ho gambe. Cosa sono io?

"E" come Emily. "E" come Esperimento.

Ed io?

Sono il risultato di un miscuglio di nomi?

Delimitano il mio essere. Volevo essere un quadro, un'opera grandiosa. Senza cornice.

Le cornici delimitano l'opera. Sono squarci nel tessuto dei sogni. Confezionati a puntino, sfarzosi o semplici, o moderni, oppure antichi. Ma sempre squarci delimitati sono.

No, niente di tutto ciò desideravo. Volevo unirmi al resto del sogno, dissipare quei tratti così sicuri che mi tenevano in questo mondo.

Dissipare, disgregare, disseminare me stessa sul grande quadro della vita. Dare colore a ciò che ormai era pura e meccanica routine.

Ho sempre amato l'arte. Cosa non avrei fatto per amore artistico. Cosa ho fatto?

Poco. Solo colori. Per tingere questo vuoto.

E le mie gambe, no, dico, le mie gambe dove sono? In arrivo forse, oppure disperse…

La mia testa ruota di lato. Deve aver ceduto la colonna vertebrale. Quel che ne restava di una serie di piccole ossa disposte una sopra l'altra diligentemente.

Ho sempre amato i colori. Li ho ricercati in ogni modo, li ho seguiti in ogni mondo. Ma anche quelle piccole pasticche sul comodino mi mostravano solo il bianco prima del vuoto.

Asettico. Puro. Pulito. Freddo. Privo di passionalità. Passionalità.
Il fuoco nelle vene.

Le mie vene ora sono… elettricità.

La mia testa piegata vede un altro tavolo, in un'altra stanza. Oltre una parete di vetro.
Uomini tranquilli contrastano le nevrosi di questi, piegati su me. Per equilibrare le cose mi dico. Per equilibrare le cose.

Perché sono in questo posto dalle pareti riflettenti?

"E' salva" dicono.

Parlano di me. Salva. Da cosa?

Dalla morte? Un pezzo di carne e metallo disteso su di un tavolo da cucina, senza gambe e con le braccia fuori sede.

Sono salva. Forse mi esporranno in un museo.
Uno di quelli super visitati, con lo sconto comitiva e studentesco. Con apertura notturna e con il soffitto trasparente per lasciare entrare anche la luce della notte. Per vedere fuori, per vedere oltre.

Come una statua me ne starò in una teca di vetro antiproiettile, con allarme ad ultrasensori. Guai a chi respira!

Sarò arte moderna. I miei occhi vedranno in eterno facce sorridenti, sguardi interrogatori. Di gente che non comprende l'arte. Quindi la critica.

Sarò luminescente, e lampeggerò come il giallo d'un semaforo.

Sento fluire i pensieri al di fuori della mia testa. Credo escano de quei buchi ai lati del cranio… come si chiamavano… sto vaneggiando. Svanendo. Sfumando.

Veleno che scorre in me.

Assuefazione alla realtà.

Apatia

Ansia

Crisi.

Dei binari.

Un treno.


© Ivan Visini





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