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Il Mare
di Saul Ferrara
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Fuori da ogni finestra c’era stesa una camicia ad asciugare e la debole brezza della sera le gonfiava come tante bandiere obbedienti agli ordini del vento. I colori sgargianti delle camicie anche se erano appena rischiarati dalla fioca luce del crepuscolo, spiccavano rispetto al misero grigiore delle mura delle abitazioni. Le piccole case erano attaccate una all’altra come arnie di un alveare. Costruite in economia, davano un senso di imminente precarietà. Nessuna era mai stata imbiancata e con il passare del tempo il loro colore era stato determinato dall’umidità, che si presentava con grosse chiazze che ingrandendosi sempre più, lentamente coprivano la superficie quasi per intero. Quel paesello a poche decine di metri dal mare era l’unico posto che il vecchio Rino avesse mai visto in tutta la sua lunga vita, quello era il suo intero universo. Fin da bambino aveva trascorso la maggior parte del tempo ad osservare il mare, lo aveva visto adirato come un dio offeso e calmo come un bimbo addormentato. Il mare aveva formato il suo carattere, tanto che anche l’animo di Rino era instabile, ora irrequieto e subito dopo docile. Non sapeva ancora stare in piedi da solo quando, per la prima volta, aveva provato il sapore salato del mare. Suo padre, anche egli un pescatore, durante le belle giornate domenicali lo lasciava gattonare nella battigia. E un giorno, mentre Rino giocava con la sabbia completamente assorto ad ammirare i disegni che tracciava con le sue minuscole mani, suo padre, dopo essersi bagnato le dita in mare, gliele aveva passate rapidamente sulle labbra. Rino si era messo immediatamente a piangere e la madre lo aveva preso in braccio per calmarlo, ma lui continuava a singhiozzare sempre più forte. Quel liquido, dal gusto così diverso da quelli che era abituato ad assaporare, gli pizzicava la bocca in un modo insopportabile. La madre aveva iniziato ad inveire contro il marito, dandogli del pazzo, ma l’uomo, assolutamente indifferente al pianto del figlio ed agli insulti della moglie, aveva immerso la mano in mare come a voler catturare la debole onda che si stava infrangendo sulla riva, e aveva ripetuto nuovamente quel gesto sconsiderato, questa volta con una tale solennità da apparire come un sacerdote druido che compiva un’ancestrale rito battesimale.
Tutto si era svolto in pochi concitati minuti, nonostante i furiosi tentavi della madre che cercava di tenere il marito lontano dal bambino tirandogli dei maldestri calci. Il padre, soddisfatto per esser riuscito a compiere la sua missione, aveva rivolto al piccolo una frase che Rino, nel corso degli anni, gli avrebbe sentito ripetere un centinaio di volte: << Il mare è più salato di tutte le lacrime che verserai, ma se sai amarlo, con te sarà più dolce del miele. >>. Quelle parole per Rino erano diventate il suo unico comandamento, e nei momenti di estremo dolore, quando non riusciva ad impedirsi di piangere, si spingeva con la sua barca oltre il faro e soltanto lì, da solo con il mare, dava sfogo al suo pianto. Da ragazzino, quando aiutava il padre di ritorno dalla pesca a trascinare la barca a riva, trovava spesso delle alghe impigliate tra le maglie della rete; tutti le consideravano delle insignificanti erbacce marine, ma per lui erano i fiori degli abissi, le sentinelle che custodivano i segreti dell’oceano. Le metteva in un grande catino colmo d’acqua nell’ingenuo intento di ingraziarsi la loro fiducia, per poi ottenerne in cambio le tanto sperate rivelazioni. Col passare degli anni, ovviamente, aveva perso questa sciocca convinzione, ma intimamente continuava a credere che nella profondità del mare si celasse qualcosa di straordinario, una sorta di divinità che si sarebbe rivelata soltanto a quei pochi eletti che fossero riusciti, con un totale amore nei suoi confronti, a rendersi meritevoli di quel dono soprannaturale. Rino, fedele a questa sua personalissima credenza, aveva sempre rispettato il mare e tutti gli animali che lo abitavano. A differenza degli altri pescatori gettava la rete in mare una sola volta e se la pesca era abbondante teneva solo un numero di pesci sufficienti a soddisfare il suo bisogno, restituendo la libertà agli altri. Tutte queste sue stranezze, inizialmente, lo avevano portato ad essere deriso dai suoi compaesani, ed in seguito, avendo questi constatato la sua totale indifferenza ai loro commenti, lo avevano emarginato come fosse un appestato, rivolgendogli la parola solo quando era indispensabile. E la divinità del mare, alla morte dei genitori di Rino, si era ricordata di lui, mostrandosi timidamente. Era morta prima la madre, consumata in pochi mesi da quella che i suoi gretti compaesani chiamavano una malia, ma che i medici invece avevano chiamato carcinoma ai polmoni. E due mesi dopo, il padre, distrutto dalla perdita della compagna di un’intera vita, si era spento spontaneamente, come una candela alla quale si fosse rapidamente bruciato lo stoppino, senza che Rino avesse il tempo di rendersi conto che invece aveva deciso di rinunciare a vivere. Dopo il funerale del padre era salito in barca ed aveva iniziato a remare con tutte le sue forze, come se cercasse di scappare da quel dolore sordo che gli stava dilaniando l’anima, e stranamente più si allontanava dalla riva e meno acute si facevano le fitte che lo tormentavano. Sembrava che la morte, la malattia e tutto ciò che causa sofferenza appartenesse solo alla terra ferma, mentre tra le onde era come non ci fosse posto per loro; lì nell’imperscrutabile azzurro esisteva solo la pace. Aveva superato abbondantemente i bastioni diroccati del vecchio faro quando per riprendersi dalla fatica, lasciati i remi, si era sdraiato nello stretto spazio della barca, con un braccio che penzolava fuori. Ogni tanto un’onda gli lambiva la punta delle dita, ed era come se un gigantesco gatto lo invitasse a giocare. Il delicato tocco delle onde lo confortava, si sentiva protetto ed amato dal mare con la stessa premurosa attenzione che i suoi adorati genitori gli avevano sempre dimostrato. Persa la cognizione del tempo, era rimasto in quella posizione finché non si fece buio, galleggiando nell’oscurità come una lontanissima stella inghiottita dall’infinita profondità dello spazio. Quella piacevole sensazione di imperturbabile quiete venne interrotta da un episodio inspiegabile, un episodio al quale in seguito, col passare degli anni, avrebbe cercato di non dare più troppa importanza, come se non fosse mai accaduto, come se lo avesse solo sognato. All’improvviso aveva sentito qualcosa stringergli la mano; la sua prima sensazione fu di paura, e per quanto potesse apparire assurdo l’unica spiegazione era che ad afferrarlo fosse stato un pesce attirato in superficie dai movimenti delle dita o forse dal luccichio del bracciale. Poi, passati alcuni attimi di panico, percepì al tatto che quella stretta era di una mano. Rimase immobile, chiedendosi cosa fare mentre sentiva delle dita lunghe ed affusolate intrecciarsi alle sue. Con un rapido scatto si mise in piedi, mentre la barca oscillava pericolosamente, ed alzato il braccio all’altezza del volto fissò la propria mano con ostilità, come se ad un tratto fosse diventata estranea al resto del corpo: al centro del suo palmo brillava un piccolo corallo verde smeraldo. Non ne aveva mai visti di quel colore e soprattutto non immaginava che fossero così luminosi. Lo mise dentro il fazzoletto, che poi legò con un nodo alla cintura, e presi i remi si diresse verso la riva. Quel misterioso corallo non poteva che essere un dono del mare, aveva pensato emozionato Rino, e l’idea di poterlo guardare con la dovuta attenzione a casa lo incitava ad aumentare la frequenza del suo vogare. I colpi dei remi suonavano secchi e rapidi nel silenzio notturno, alzando una allegra pioggia di spruzzi che raggiungevano Rino sul volto. Appena approdato a riva, stremato dalla fatica, barcollando, raggiunse un lampione. Voleva guardare subito il corallo ma quando sciolse il nodo, con amara delusione, dovette constatare che nel fazzoletto, a parte l’acqua che lo aveva inzuppato, non c’era niente.


Quel giorno era dedicato ai festeggiamenti per il Santo Patrono del paese, nessun pescatore era uscito in mare e l’unica barca che si vedeva galleggiare a largo era quella di Rino. Prima di tagliare gli ormeggi dalla barca, per far capire agli altri che anche lui avrebbe rispettato la sacralità di quel giorno, aveva lasciato la propria rete in bella vista sul piccolo molo. Rino non aveva bisogno di pescare, ormai era vecchio e stanco, e l’unica cosa di cui sentiva la necessità era quella di trovarsi da solo in silenzio col suo mare. Durante quella solitaria riflessione un pensiero lo assalì: ora che la sua vita era vicino alla fine era l’eterno mare ad osservarlo. Quando ritornò al molo e scese dalla barca era notte fonda, i festeggiamenti erano terminati da un pezzo e tutti i suoi paesani stavano sicuramente dormendo placidamente, stremati dai balli ed indeboliti dal vino. Non c’era nessuno ad aspettarlo, né tanto meno qualcuno che si fosse preoccupato della sua assenza, Rino era solo come pochi possono arrivare ad esserlo. Mentre legava la barca agli ormeggi, annodando meticolosamente la fune intorno al piolo di legno, cercò di allontanare quel pensiero dalla mente ma, come accade sempre in questi casi, più tentava di pensare ad altro e più era forte l’attrazione ad evocarlo. Le sue mani sciolsero i nodi appena stretti, offrendo la barca al mare ed ai suoi moti che lentamente la riportarono lontano dal molo. Rino si accovacciò fissando il mare che il buio aveva fuso con il cielo, formando un’enorme manto nero privo di orizzonte. Aspettava, non sapeva cosa o chi, ma era certo che doveva farlo. Poi, alle sue spalle, le assi di legno del molo iniziarono a vibrare debolmente come se qualcuno con passi lenti e leggeri ci camminasse sopra. Rino si voltò e la vide, una bellissima ragazza bionda. Non indossava nulla e non dimostrava di provare imbarazzo della sua nudità mentre camminava sicura verso di lui con le braccia protese in avanti come una sonnambula. I suoi occhi invece erano aperti, azzurri e luminosi spiccavano nell’oscurità come le lampare durante la pesca notturna. Giunta davanti all’attonito Rino la ragazza prese dolcemente le mani del vecchio pescatore nelle sue e disse. << Hai trascorso tutta la vita amando il mare, quindi amandomi. Ora è giunto il momento di vivere con me.>>. Rino progressivamente perse tutte le sensazioni del proprio corpo. Prima smise di avvertire i battiti del cuore, poi il respiro e l’ampliarsi della cassa toracica che l’accompagnava, in fine la solida consistenza dei muscoli e delle ossa. Non stava morendo, stava diventando altro: diventava acqua, acqua che scivolava dal molo per perdersi nel mare.

© Saul Ferrara





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