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Adamantine Morimaux (parte seconda)
di Anna rita Chietera
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Questa volta, però, il guaio in cui si trovava Adamantine non era di altrettanto semplice risoluzione; né riguardava direttamente lei, in realtà. Si trattava proprio di Tina. Ed a metterla in un pasticciaccio brutto era stato niente popò di meno che suo fratello Didier, attualmente agli arresti, il quale neanche in gattabuia riusciva a restare con le mani in mano.

“Vede,” cercò di spiegare Adamantine con malcelato imbarazzo “non deve pensar male di Didier…” -

“Ah no? E cosa dovrei pensare, allora. Bella mia, ma non ti rendi conto? Quello che ha fatto lo definirei…quanto meno irresponsabile!” 

“Sapevo che questa volta non avrebbe capito…non potevo aspettarmi un giudizio diverso da…un…un avvocato…” concluse sprezzante Adamantine.

“Ma scusa, ragazza mia” le disse lui tenendo le mani giunte parallele al terreno, facendole oscillare in su ed in giù, con movimenti quasi automatici, che ricordavano quei vecchi soldatini caricati a corda “dovresti aver capito, ormai, che io sia tanto schifato dalla giustizia, quanto dalla sua totale mancanza…sì, sì, lo so…è un controsenso, ma ti assicuro che, il più delle volte, le due cose finiscono per coincidere. E come questo possa accadere…boh!”

A tali parole seguì una pausa di silenzio, perché Adamantine incominciava a non raccapezzarsi più nei discorsi di Mancuso e lui, d’altro canto,  era proprio immerso nel tentativo quasi tragico di farsi capire.

“Il punto è: comprendo che Didier faccia tutto questo perché Bruna non lavora e la bambina ha bisogno di quel che ha bisogno (ma pure i figli si mettono a fare, in queste condizioni!)” e qui alle mani giunte dell’avvocato, si aggiunse uno sguardo querulo rivolto al Cielo, che esprimeva molta più disperazione che fede “ma metterci in mezzo Tina! Questo è davvero troppo!”

“Non lo dica a me…non ho avuto neppure il coraggio di farmi vedere. Mi sento così male…”

“Andrò io da Tina, ma tu devi denunciare tuo fratello se davvero le vuoi bene.”

“Ma non posso, si rende conto? Non lo faranno più uscire di galera, così!” Rispose Adamantine, dando sfogo ad un pianto aggressivo. Mancuso restò di pietra, questa volta, senza farsi intenerire; e rispose:

“D’accordo, capisco anche questa…e Tina? Lo sai, vero, che certamente metteranno dietro le sbarre anche lei (se non l’hanno già fatto)…peccato che la poveretta, di come ci sia finita al fresco, non ne abbia la più pallida idea. E nessuno crederà mai alla sua estraneità ai fatti! D’altronde, neppure io sarei mai riuscito a farmi persuadere: Una volta ho comprato dello zucchero francese ad un prezzo vantaggiosissimo; poi, qui in piazza, ne andavano tutti matti…al punto che io mi chiedevo: ma cos’avrà poi questo zucchero di diverso dagli altri…sarà che costa meno…mai a pensare che fosse cocaina!”

E l’avvocato non poteva immaginare che, proprio in quel momento, Tina, sotto interrogatorio, stesse dando testimonianza di quegli stessi identici fatti, nel tentativo disperato di giustificare l’ingiustificabile. Intanto, Bruna e la bambina vivevano in una nuova casa, la piccola era stata iscritta ad un asilo privato (perché bisognava cogliere l’attimo, dopo aver sopportato tanta, troppa indigenza) e la mamma non poteva certo andare a prenderla da scuola sempre con lo stesso vestito, esponendosi al ludibrio delle altre francesissime madri…eh no! Chanel, Luis Vuitton, Yves Saint Laurent, questi sì che erano nomi di cui tener conto; Tina era un nome troppo scontato per poter competere nell’alta società…non troppo per arrivarci, evidentemente. Erano stati capaci di usare il suo negozio di dolci per mercificare in droga, ‘sti  stronzi! Didier, pressato da sua moglie che non ce la faceva più, e che sognava dopo il matrimonio una vita più agiata, aveva organizzato la vendita di coca purissima,  raffinata in Francia ed impacchettata in scatole di cartone blu, bianche e rosse da cinquecento grammi l’una, con una vistosa etichetta sulla quale capeggiava la scritta SUCRE BALEINE. Particolarità di questa stravagante azienda (e questo Tina non poteva saperlo) era che la botteguccia dei dolci di piazza P. aveva l’esclusiva italiana dello zucchero BALEINE. I clienti sapevano che in quelle confezioni non ci fosse affatto zucchero e, appena arrivavano le partite, in quattro e quattr’otto, per pochi euro la boss e compagni ne portavano via vagonate. Il pagamento vero e proprio avveniva tramite vaglia postale, sul conto della signora Morimaux, la moglie di Didier. La cosa non destava sospetti perché Bruna, sulla carta, fabbricava in  casa oggetti di bijotteria, realizzati con perline e fil di rame e li spediva per posta a chi fosse interessato, con tanto di partita IVA. Tutto fatto per bene, insomma. 

Fino a quando due finocchi molto allegri, in Corso Como, furono visti, zaini in spalla, avvicinare clienti di tutte le età,  prevî cenni concordati. La cosa, dopo sere di struscio in servizio, non era sfuggita a due giovani tenenti in borghese che, fermati gli allegri finocchi,  trovarono nei loro zaini confezioni…di zucchero!?…BALEINE, guardacaso. I finocchietti, ridendo e sgomitando tra loro come due liceali pettegole, finirono per rivelare che avevano acquistato la polvere della felicità in piazza P. “ ahahaha”…- ridacchiò quello con la lingua più lunga “lì si vende nei negozi!” I due tenenti tutto si aspettavano fuorché questo; ed immediatamente si misero a lavoro per ottenere alla svelta mandati di perquisizione presso tutte le attività commerciali della piazza. La povera Tina aveva diligentemente consegnato ai carabinieri il registro degli acquisti.

“Come mai tanto zucchero BALEINE, signora?”

Tina strizzò l’occhio al carabiniere che teneva ancora il registro in mano e, dopo avergli assestato una piccola gomitatina d’intesa gli rispose, pimpante come al solito “Non sa quanto ne vendo!”

“Signora, lei è in arresto” fu la risposta seccata del carabiniere, che iniziava anche a sentirsi preso per i fondelli.

Intanto in piazza P., iniziava a diffondersi uno strano brusio, un suono di mosche fastidiose, che Mancuso conosceva fin troppo bene. Era il vociare delle grandi occasioni, quello riservato ai momenti in cui c’è in ballo qualcosa di “grosso”. Finchè, mentre era al bar a fumarsi un bel sigaro cubano - Romeo e Giulietta numero 3 per l’esattezza, i suoi preferiti – gli si avvicinò furtivo il suo compagno di merende Peppino Malatesta. Lanciò rapide occhiate tutt’intorno prima di parlare. L’avvocato lo bloccò.

“Senti, Peppì, se mi devi dire qualcosa che non si deve sapere in giro, dimmela un’altra volta ed in un altro posto, perché sei un attore coi fiocchi, proprio! Se ne sono accorti tutti…” Ed infatti, ai tavoli attigui, si era smesso di parlare per mettersi in ascolto delle novità.

“E…e allora facciamoci due passi.” Propose Peppino.

“E facciamo due passi.” Acconsentì l’avvocato, mentre si alzava per seguirlo; tanto, purtroppo, già aveva intuito che si trattava di Tina e le cose erano andate male. Malissimo. Perché era l’unica piega che la situazione poteva prendere. 

“Che si deve fare, secondo te? Sei avvocato, dovresti sapere come muoverti!”

“E infatti lo so.”

“E cioè?” Gli chiese Peppino Malatesta sulle spine.

“E cioè che non ci sta niente da fare. Se vendi droga…vai in galera. Logico e consequenziale. Io non esercito più, avevo giurato che dopo la pensione non avrei messo più piede in un tribunale e non farò eccezioni questa volta. Anche perché, come ti dicevo, non ci sono santi. Tina è una brava persona e, in Italia, in galera ci vanno solo le brave persone. Logico e consequenziale.”

“Che freddezza…fai venire i brividi…”

“Co’ sto caldo?”

“Co’ sto caldo, figurati!”

In realtà l’avvocato non aveva proprio intenzione di lasciar perdere, anche perché Tina aveva certamente bisogno di un amico, in un momento simile. Mancuso si chiuse dietro la porta di casa a due mandate ed iniziò a trafficare con il telefono. Poi, si mise solo ad aspettare.

L’indomani mattina, ad ora di pranzo, il Tg regionale della Lombardia, lanciava un titolo interessante: Droga in piazza P.: spunta la pista dei marsigliesi.

“Ottimo” si disse l’avvocato. Tanto, non scopriranno mai chi c’è dietro davvero. Al massimo beccheranno i corrireri…anche se quella carogna di Didier si meriterebbe altro che l’ergastolo…figlio di una grandissima puttana…

La giornata trascorse lunga più che mai ed in piazza non si muoveva un filo d’erba. Solo cani al pascolo con i padroni. La paura era così tanta che sembravano tutti in vacanza: persiane serrate e nessuno dei soliti in giro. Neanche Adamantine s’era fatta viva.

“Quella pensa che ho fatto la spia.” Si disse l’avvocato.

Finchè, all’alba del giorno successivo, si sentì un botto fortissimo. Mancuso scattò giù dal letto e s’affacciò al balcone. Sembrava tutto tranquillo, ma mentre si voltava per rientrare, notò, più infondo, una piccola utilitaria capovolta, in mezzo alla strada.

“Un incidente? E come ha fatto a cappottarsi, che non ci sono curve? È tutto dritto, là…” Mentre pensava così, vide uscire un uomo di corsa. Questo poi, si voltò indietro e tornò alla macchina per prendere il libretto di circolazione dal cruscotto e due o tre pacchi di cartone blu, bianchi e rossi. Scappò via e non lo si rivide più. La polizia, che visti i fatti degli ultimi giorni era in stato di allerta, era stranamente arrivata quasi subito. Rimasero tutti di stucco nel vedere quella macchina incidentata, proprio lì ed in quella maniera, ma la scena prometteva altre sorprese. All’arrivo della volante, scesero dall’auto due sgallettate in mutande.

“Minchia che due fighe!” disse il primo agente, seguito a ruota dal secondo:

“Benedizione…” poi, come se si fosse dato un pizzicotto “Ehm, signorina, signorina….dove corre? Ehi, anche lei, non facciamo scherzi, eh?” E manette ai polsi, le infilarono in macchina tutti contenti, ché un inizio di giornata così non s’era mai visto.

L’avvocato era rimasto molto perplesso e non riusciva a raccapezzarsi. Si vestì e, ad orario d’apertura si presentò da P., per trarre informazioni fresche dalle testimonianze del popolo di piazza.

“Avvocato, ha sentito?”

“Che cosa?”

“Tina è tornata a casa”

“E perché, dove se n’era andata?”

“Ma com’è che non sa mai niente?” E P. rientrò nel bar scuotendo la testa, a preparargli il solito caffé.

“Aspetta, aspetta…” lo bloccò Mancuso. “Visto che sei sempre così bene informato, ma che è successo stamattina, che mi sono preso un colpo?”

“ Un incidente…drogati…mi sa che giravano partite di droga di cui ci si doveva liberare e, qualcuno le ha vendute ad uno sprovveduto che non sapeva (come lei) dei fatti di questi giorni, c’è cascato, e ha comprato. Questo furbone, s’è presentato ubriaco fradicio e, nello scappare via, voleva fare lo splendido con le troiette che si portava dietro, ed è andato a sbattere, Schumacher…”

“Ah, ho capito…” fece l’avvocato, mentre nascondeva sollievo profondo dietro l’apparente dabbenaggine. “Vai a fare il caffé, che poi mi racconti bene pure il resto.”

“Beato lei, avvocato. Vive proprio su un altro pianeta!”

“É la vecchiaia, P; la vecchiaia…”

Poco più tardi, inaspettatamente così come si era presentata qualche giorno prima, comparve Adamantine.

“E allora, si è messo a fare la spia?” Gli si parò innanzi con le mani ai fianchi.

“Stai zitta, Adamantine. Andiamo a casa mia.”

“No, io di lei, non mi fido più!”

“E fai male. Andiamo a casa mia ti dico.” E la sua espressione iraconda fu così eloquente, che la ragazza fu costretta a cedere.

L’avvocato le spiegò che aveva fatto in modo – suo malgrado – che Didier ne restasse fuori. Non sarebbero mai arrivati a lui. Ma l’avvisava: la prossima volta non sarebbe stato altrettanto tenero con loro. Adamantine, che per nulla al mondo si sarebbe aspettata un epilogo del genere, lo strinse in un abbraccio che voleva esprimere tutta la sua infinita gratitudine.

A rompere l’intensità del momento, intervenne un acuto stridulo:

 “ Papà!”

L’avvocato e Adamantine si voltarono di scatto, come se fossero stati colti in flagranza di reato, e videro di sfuggita Linda, la figlia di Mancuso, con la bambina in braccio. Era venuta a prenderlo, come d’accordo, ma - lo sguardo truce e senza aggiungere altro - la nuova arrivata si congedò in tutta fretta, lasciando echeggiare per il portone lo scalpiccio deluso ed incazzato delle suole di cuoio, mentre imboccava di corsa la tromba delle scale.

© Anna rita Chietera





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