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Il Vestibolo
di Paolo Ferrante
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Finalmente, finii di camminare.

Il paesino era deserto, un vuoto assordante nella geografia mondiale.

Neanche un’anima in giro. Solo botteghe abbandonate, casupole barocche in disfacimento, monumenti rosi dal tempo.

Mi accorsi solo più tardi del pianoforte.

Era in mezzo alla strada. Aggrottai lo sguardo, e accorciai la distanza abbastanza da protendere un braccio per accarezzare quell’oggetto insolito. Era a coda, decorato d'intagli a mo’ di curve spiraliformi, color nero cupo. I tasti sembravano denti cariati di un enorme mostro. Quesiti e dubbi presero ad accavallarsi in me: cosa ci faceva lì quell’affare? E dov’ero finito io?

Prima che potessi pormi ulteriori domande, la mia attenzione fu catturata da un nuovo elemento. Una casa altissima. Antica, torreggiante, misteriosa. Si stagliava nel cielo, rispetto alle sorelle nane fatte di esigui portici e miseri cinque metri d’altezza.

Vinto dalla curiosità e magnetizzato dall’architettura imponente, decisi di avvicinarmi all’edificio.

Elusi il bizzarro ostacolo musicale che si frapponeva fra me e il portone, e mi ritrovai ad afferrare saldamente il battente; era custodito da un minaccioso leone in ferro battuto. Lo percossi più volte, sperando di destare gli eventuali inquilini all'interno.

Inizialmente, non ci fu risposta. Poi. Si aprì. Cigolante. Grondante misteri sepolti.

Un po' insicuro, superai il varco di tenebra, dunque attesi che gli occhi si abituassero al buio. Avanzai di qualche passo, le gambe tremanti. Un tetro silenzio vigeva assoluto su quell’atmosfera da panico. La paura mi ondeggiava addosso, pronta a smussare e infragilire i miei nervi, ma fui forte.

Gridai “c’è nessuno?”, sperando in una risposta, ma una semplice eco svogliata mi restituì le ultime sillabe. Guardandomi attorno, appurai d’essere in un enorme androne, scabro degli elementi caratteristici di un ingresso antico. In fondo alla stanza, individuai un’altra porta. La raggiunsi a passi decisi, aprendola all'istante. Mi si presentò un mondo totalmente diverso, sotto forma di stanzino accogliente e ammobiliato con gusto. Dalla finestra di fronte si intrufolava uno splendido albero di limoni con due rami invitanti, dai quali pendevano due frutti dorati. Davanti ai miei occhi, un tavolo in mogano e delle comode poltrone, ammalianti. Sorrisi, tornato di buon umore…

Risa puerili lontane mi distolsero dalla contemplazione, rigettandomi nella paranoia. Volsi il capo a sinistra, dove avevo sentito le voci, e scorsi un'altra porta. Chiusi la presa sulla maniglia, trattenendo il fiato la girai verso il basso. I cardini rugginosi scricchiolarono fastidiosamente. Spiai con cautela nel varco, nuovamente innervosito dall'idea di ritrovarmi improvvisamente di fronte al padrone di casa, senza uno straccio di scusa da presentare.

Osservai la nuova stanzetta, nella quale scorsi un rinnovato tenebrore. Scrutai l'interno, in cerca di una presenza, ma nemmeno stavolta trovai qualcuno. Mi addentrai, osservando una misera finestrella coperta da stracci vecchi e polvere. Ragnatele e cianfrusaglie ammuffite ammobiliavano il posto, il tutto condito da una penetrante puzza di chiuso. Guardai per terra, rinvenendo nel ciarpame indistinguibile degli scintillii: provenivano da un oggetto dorato. Lo afferrai per portarlo alla luce, e vi riconobbi una sorta di clarino sozzo.

Lo lasciai cadere sul pavimento, dapprima spaventato e poi colto da una leggera malinconia. Non seppi spiegarmi tali sensazioni.

Guardando nella stanzetta, trovai un'altra porta, e ringraziai il cielo perché quel luogo mi metteva i brividi. Appena l'aprii, lo stupore mi invase la gola, e quasi sobbalzai per la meraviglia. Era un atrio troppo, troppo grande. Mi risultò inconcepibile accettare una visione simile, sulle prime. Eppure, quando entrai, osservando quelle colonne squadrate, quel soffitto talmente alto da risultare un inarrivabile secondo cielo, accettai pian piano quella realtà. Decisi di esplorare il nuovo spazio. Era tutto bianco, dal pavimento alle pareti, aveva un che di precostruito, di…sintetico.

L’enorme caverna artificiale possedeva illuminazione elettrica: neon sistemati sul soffitto altissimo conferivano alla sala un’apparenza ancor più aliena, del tutto estranea all’ingresso gotico antico. La prima cosa che mi colpì fu la pulizia, dissonante dall’atmosfera d’abbandono delle altre camere.

Corsi a perdifiato, come se mi trovassi in un parco giochi all'aperto, tanto pareva vasto il locale. Ma, a un certo punto, dovetti fermarmi. Un oggetto attirò la mia attenzione, collocato al centro del salone. Ricordo cosa pensai, quando lo vidi da lontano: toh, sembra una bara! Sorrisi, e, avvicinandomi.

Constatai.

Che era.

Davvero, una bara.

L’angoscia mi assalì.

Era fatta in legno lucido, di mogano come il tavolo nella prima stanza che avevo visitato. A chi poteva appartenere? E soprattutto, cosa ci faceva lì?

Mi venne quasi voglia di piangere, e nella spaventosa malinconia mi avvicinai all'oggetto, abbracciandolo forte fino a farmi male. Riemersi da quella reazione quasi subito: ma che stavo facendo? Mi allontanai dalla bara immediatamente, pulendomi le lacrime dalla faccia.

Un rumore.

Alle mie spalle, appena percepibile. Una figura umana era appena scappata da una porta in fondo al salone, accorgendosi della mia presenza. Un altro essere umano! Finalmente! Ma perché era fuggito? Corsi a perdifiato fino a raggiungere il muro in fondo e spingere la leva di quella che sembrava una pesante porta tagliafuoco. La spalancai, e mi ritrovai davanti delle scale avvolte nella penombra. Salii due gradini per volta, arrivando in cima e poi svoltando a destra. Il piano dov'ero arrivato aveva un lungo corridoio. Annusai involontariamente l’aria, e percepii come un forte odore di gomma bruciata, ma decisi di non farmi altre domande.

Lo percorsi fino alla fine senza fare caso, se non con la coda dell'occhio, ai quadri che ornavano le pareti laterali. La luce era discreta, ma non riuscii a capire stavolta da dove provenisse. A malincuore, scoprii che il corridoio terminava in un vicolo cieco, come se avessero murato la via di proposito. Demoralizzato e sopraffatto dai dubbi, mi appoggiai di schiena su quella fredda parete, mentre una pesante solitudine iniziò a sopraffare lentamente sulle mie insicure spalle.

Feci per gridare nuovamente "c'è nessuno?", quando ad un tratto un dettaglio attrasse la mia attenzione. I quadri. I quadri appesi sui muri. Erano foto incorniciate. Che ritraevano...

Mi avvicinai per capirlo, e appena decodificai quelle forme, mi venne la pelle d'oca. Erano foto mosse, raffiguranti automobili nell'atto di scontrarsi contro guardrail in una strada buia, o contro persone, cani, motociclette. Osservai le fotografie attentamente, dedicando dieci secondi a ciascuna. Ogni singola immagine rappresentava le anatomie di un incidente prima, durante e dopo l’impatto. Erano come...Sembravano raccontare una storia. Mi chiesi quale essere perverso potesse amare così tanto la morte, al punto da arrivare a collezionare tutti quei frammenti di dolore. Sempre più intimorito, realizzai a freddo alcuni fatti: ero in casa di uno psicopatico, da solo, disarmato e senza alcuna protezione.

Calma. Non farti prendere dal panico, mi dissi.

Neanche finii di pensare, che notai nell'oscurità una sezione quadrata nel pavimento. Era una botola. Aperta. Vinsi la torpidità del terrore, e decisi di scrutarvi dentro, incuriosito. Sembrava profonda e larga un metro e mezzo. Lentamente, mi sedetti sul bordo di quel pozzo per verificare la bontà della supposizione con i piedi. La punta della scarpa sinistra toccò dopo un po’ il pavimento del fondale, e così fece anche la sua compagna destra. Scesi, accorgendomi che il passaggio era talmente basso che mi avrebbe inevitabilmente costretto a gattonare. Così feci. Il cunicolo si restrinse ad imbuto, fino a diventare alto circa la metà rispetto all’inizio, costringendomi così a strisciare. Avanzai con gomiti e ginocchia, chiedendomi quanto poteva estendersi tale oscuro pertugio. Non mi sentivo particolarmente spaventato, né soffocato: era tutto così assurdo e irreale che mi pareva un gioco, e come tale, giocavo. Ero in un certo senso, a mio agio.

Il tunnel ridivenne largo dopo circa una quindicina di metri, e senza accusare fatica mi ritrovai nuovamente a gattonare, finché il passaggio non divenne abbastanza alto da permettermi un'andatura su due gambe.

Neanche a dirlo, il cunicolo sbucò in una piccola anticamera, con una gradinata di fronte: era altissima. Cercai con lo sguardo la fine di quella vetta, ma non ci riuscii. Così, sempre più incuriosito, salii quegli scalini invitanti. Verso metà percorso, un po' spaventato dall'estrema altezza raggiunta ( per giunta priva di appigli o corrimano ), rinvenni ai miei piedi un oggetto. Lo colsi da terra e lo spolverai: sembrava un quadernetto d'appunti. Lo sfogliai, leggendo alcune pagine di poesie scritte a penna, ornate da disegni a matita. Arrivando all'ultima pagina, lessi una frase che sembrava un ammonimento.

NON PROSEGUIRE.
LASCIA PERDERE.

Possibile si riferisse a me?

L'eventualità mi terrorizzò.

Rumori di passi incalzanti, dietro. Sospiri di fatica non miei, dietro.

Tremai, facendo cadere il quaderno a terra, e qualcosa mi disse che avrei fatto meglio a non voltarmi.

I muscoli del collo si irrigidirono all’istante. La paura mi congelò le gambe. Poi l'impulso di scappare divenne più forte, vinse il blocco e mi fece schizzare via come un lampo.

- Tu! - mi disse una voce rimbombante, da dietro - Ehi, tu! Fermati! - mi gridò.

In un primo momento pensai si trattasse del padrone di casa che giustamente volesse chiedermi cosa diavolo ci facessi nella sua proprietà. Ma decisi di non dare credito a questa spiegazione, proseguendo come un pazzo nella mia salita disperata. Notai che mancava ormai pochissimo all’arrivo. Mi sentivo un velocista a pochi passi dal traguardo. Tre metri. Due metri. Sentii anche il mio inseguitore aumentare la velocità, e solo allora fui veramente tentato di girarmi dietro, per capire con chi avessi a che fare. Non lo feci, rinunciai a quel privilegio per piazzarmi primo nella corsa contro il tempo. Arrivai sulla cima stanco, ma soddisfatto. Il piano raggiunto dava su una balconata, la quale mostrava un panorama bellissimo: nuvole d'oro, rosa, arancio, si stagliavano su un cielo azzurro sconfinato, con un sole stufo nella volta celeste, rannicchiato in un orizzonte prossimo all'imbrunire. Mi dimenticai totalmente dell’inseguitore di pocansi, e mi avvicinai alla balconata, la quale si rivelò molto larga. Alla mia destra, una breve scalinata. La percorsi immediatamente, scoprendo che conduceva sulla terrazza.

Lì trovai un uomo ad attendermi. Finiti i gradini, mi avvicinai all'estraneo, il quale vedendomi, applaudì.

- Bravo, ce l'hai fatta! - mi disse, con voce allegra. Indossava un frac nero, e non doveva avere più di trent’anni.

- Io la conosco? - gli chiesi, perplesso.

- No, mio caro. - mi ammiccò - Quel che importa, è che tu sia qui.

Lo guardai con espressione interrogativa.

- Dove siamo? E chi è lei?

L'uomo non rispose, alzò e abbassò le braccia oscillando di tanto in tanto i polsi, con una mimica da direttore d'orchestra. Dal nulla si levarono al vento graziose melodie d’invisibili flauti, violoncelli, contrabbassi e trombe. Non sprecai tempo a cercarne la provenienza, preferii ascoltare quella sinfonia così piacevole, che accarezzava tutte le fibre della mia anima .

Dopo cinque minuti, la sinfonia cessò. Il maestro finì la sua esibizione con un inchino. Ero così estasiato, che non riuscii a muovere un solo muscolo, nemmeno per applaudirlo.

- Sono periodi difficili, caro. – mutò tono, sul greve - Strade recise da tagli prematuri, tempi di tempi affamati di sogni rubati, di vite sciupate, e strade perdute… – s’interruppe, indicandomi uno scivolo metallico alla sua destra, che partiva dal cornicione del terrazzo per arrivare in basso. Non lo avevo notato, prima.

Mi avvicinai alla scaletta, e avvertii l’impulso irresistibile di salirci sopra. Mi sedetti sulla sommità, affacciandomi verso il basso. Constatai che lo scivolo finiva dentro un grande giardino con un fitto roseto.

- …Eppure, - riprese l’uomo – a costo di ripetermi, mi inorgoglisce sapere che qualcuno, come te, ci riesca ancora.

- A fare cosa? – chiesi inutilmente, ancora inascoltato. L’unica risposta che ebbi dall’estraneo fu una garbata spinta, che mi fece slittare giù immediatamente. Lo scivolo mi condusse verso il roseto, a velocità elevata. Chiusi gli occhi, e sentii la mia mente semplificarsi, devolvere, rimpicciolirsi…regredire…

Una forte luce mi molestò le orbite, sebbene avessi ancora le palpebre abbassate. Sentii parlare una voce, ma non riuscii a capire cosa dicesse, con i mezzi nulli di cui ora disponevo.

- Ce l’abbiamo fatta, amore! – disse la voce, un dolce timbro femminile – La Scienza della Reincarnazione ce l’ha di nuovo restituito!

© Paolo Ferrante





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