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La busta azzurra
di Luigi Panzardi
Pubblicato su SITO


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NASI LILIANA - Responsabile dei rapporti con la clientela.

Uno schianto e un dolore acuto alla mano destra, imprigionata nel cassetto che Liliana spingeva con con il ginocchio.

Rodolfo Carlini la guardava rosso e supplichevole: "Scusami Lilì, cercavo una gomma!"

"Non cercavi la gomma. Ce l'hai sulla scrivania. La vedi? Spiavi! Perché?"

Liliana fece mugugnare di dolore il collega spingendo con più forza il cassetto, poi tolse di scatto il ginocchio e quello, come sollecitato da una molla, si catapultò sul pavimento, rovesciandovi il contenuto. Subito apparve sul mucchio di carte e cartelle il tesserino che i dipendenti della Assicurazioni Corona s.r.l. portavano spillato al petto e sul quale erano evidenziate con eleganza le generalità della ragazza e la qualifica.

"Confesso Lilì..."

"E non chiamarmi Lilì, ti ho sempre detto che non mi piace, anzi lo odio, e tu imperterrito me lo propini questo nomignolo schifoso!",

"Va bene, Liliana, non lo dirò più, ma calmati! E' vero, ho messo le mani nel tuo cassetto ed ho sbagliato: avrei dovuto chiederti il permesso, ma non c'eri ed io ho bisogno di sapere il numero di telefono del signor Mastrazzi."

Questo cognome infatti si poteva leggere, scritto in evidente inchiostro rosso, sulla prima cartella blu del gruppo sparso ai piedi della scrivania. "Non credo siano cose personali queste: sono pratiche che riguardano l'azienda e il nostro lavoro. O mi sbaglio?"

"Si, ma il cassetto è mio e ci posso tenere quello che voglio! E tu non lo aprirai mai senza il mio permesso!" Lo guardò con sfida, gli occhi gelidi e improvvisamente pieni di odio.

Rodolfo ritornò lentamente al suo tavolo, massaggiandosi la mano ancora dolorante. La donna raccolse le cartelle e il cassetto ed effettuato un furtivo controllo di una grossa busta azzurra posta in mezzo ad altre carte, rimise tutto a posto.

"Cos'ha la Nasi? Mi sembra strana." Il collega Aroldo s'era avvicinato, solidale con Rodolfo, meravigliato di quella reazione eccessiva.

"Non lo so. Non la capisco. Ora, per favore, lasciami lavorare. Ho bisogno di contattare quel cliente e non so come fare senza il numero di telefono."

Liberatosi del collega, l'impiegato si girò frustato a guardare Liliana che gli si avvicinò, fissandolo, improvvisamente dolce e arrendevole e che, incurvandosi proprio sotto gli occhi di lui, gli regalò la visione di buona parte del seno roseo e sodo, posando poi sulla scrivania il biglietto con quel desiderato numero telefonico.

"Mi perdoni?" Gli chiese con voce roca, guardandolo negli occhi, provocante. Rodolfo divenne rosso ed eccitato. Si sentì invadere dalla lussuria. "Si, certo. Comunque è colpa mia." Risentito non volle dir altro. Liliana si drizzò e girandosi gli mostrò le forme delle natiche carnose, ben visibili attraverso la trasparenza dei leggeri pantaloni bianchi di cotone. Il giovane incollò con voluttà gli occhi sul sedere della donna e ancor più si rinfocolò il desiderio.

Il resto della giornata trascorse senza novità. Alla fine del lavoro, prima d'uscire dall'ufficio, Liliana passò accanto a Rodolfo, sfiorandolo. Il giovane percepì il contatto, ma non si mosse, la salutò appena, rosso in viso. Lei non rispose, andando via moveva ad arte il corpo, ben sapendo che l'uomo non avrebbe perso un attimo di quel turbinio di carne. Giunta in strada entrò in macchina, guidando verso il supermercato vicino casa. Inavvertitamente, all'interno del grande magazzino, si diresse verso il settore degli articoli per l'infanzia, attratta da una enorme carrozzina con dentro due gemelli, tranquilli e sonnacchiosi. La loro madre, col viso fresco e bianco rivolto allo scaffale, esitava a scegliere i prodotti. Liliana inopinatamente le si avvicinò: "Per il bagnetto va bene quello verde." Disse, indicandolo con la mano, "può prendere anche l'olio per la pelle, sta sulla fila di sopra, è molto delicato e fluido." Non capiva niente di quei prodotti, non aveva neanche mai pensato alla maternità, ma si avvalse delle informazioni pubblicitarie. Intanto si fermò a guardare i bambini e una sensazione dolorosa e calda la pervase. Uno di quei neonati le rivolse lo sguardo, agitò le manine e proruppe in un pianto disperato. Lei mormorò una scusa alla giovane madre, che non capì e che si allontanò, scomparendo tra gli scaffali.

Giunta a casa Liliana si accorse di tremare e ne attribuì la causa a quell'episodio.

"Perché sono andata in quel posto?" Si chiese. "Avrei dovuto acquistare dei surgelati e invece mi sono trovata là, a dare consigli da madre esperta quale non sono e per farmi turbare dal pianto di un moccioso!" L'ultima parola la pronunziò con rabbia. "Si, li ho odiati subito, eppure mi sono fermata a guardarli, così piccoli e già impertinenti. Scommetto che erano due maschietti." Rise ironica. "Bene, ora un bagno caldo e poi in pizzeria, visto che i neonati mi hanno impedito di far la spesa".

Immersa nel tepore dell'acqua profumata, quell'episodio non accennava a dileguarsi, anzi, come una goccia di vernice schizzata su di un muro, si dilatava e con sottili filamenti si accostava ad altre macchie più scure, a nozioni e considerazioni con le quali non avrebbe dovuto avere alcun nesso. E per via di tali strani mescolamenti, Liliana si ricordò di alcuni appunti che aveva copiato da un libro esoterico, nel quale si narrava di una donna demoniaca, Lilith, la prima moglie di Adamo. Quella che non volle assoggettarsi ad Adamo, a stargli sotto nella compiacenza sessuale, perché si sentiva insopportabilmente frustata in quella posizione. Per godere aveva bisogno di tenere lei il compagno sotto di sé e dominarne l'ansito. Siccome le leggi le imponevano di essere compagna fedele ed ancella al servizio del maschio Adamo, rifiutò i divini piaceri dell'Eden e fuggì in cerca di luoghi e di creature che potessero appagare i suoi desideri. Vagò per la terra, fino a giungere sulle rive del mar Rosso, dove si dedicò a una vita sfrenata, in compagnia di demoni, generando con questi schiere di diavoletti.

"Se ricordo bene", disse alla fine Liliana a voce alta, tenendo ben la testa fuor dell'acqua per evitare che la schiuma candida le finisse in bocca, "c'era scritto in quello strano libro che Lilith, per vendicarsi della morte dei propri figli, uccisi da Dio o da qualche angelo, era diventata insaziabile mangiatrice di neonati, rapiti alle tribù nomadi del deserto". Rise. Per quale motivo la sua coscienza ora collegasse fra loro quei ricordi così diversi non valeva la pena di scoprirlo, tanto più ch'era affamata.

Uscita dall'acqua, si ammirò allo specchio. Il giovane corpo le piaceva. Era soddisfatta delle sue forme: aveva le gambe snelle, sode e rosee, che arrivavano diritte al pube, coperto questo da una delicata peluria corvina; il disegno morbido delle anche, il bacino piatto con l'ombelico abbellito da una piccola protuberanza carnosa, che faceva capolino come un fiore voluttuoso, il seno alto dai capezzoli appuntiti e, infine, il viso colorato da sfumature delicate di pallido bianco e roseo, su cui spiccava il vermiglio caldo delle labbra appena carnose ed il nero delle ciglia, degli occhi e dei capelli. Gli occhi avevano un'espressione profonda, misteriosa e ingannevole per gli uomini che, mentre credevano felici di scorgervi una lussuriosa condiscendenza, subito dopo venivano allontanati da un'espressione di odio implacabile. . I capelli in una chioma crespa le scendevano lungo le spalle fino a lambire la prima incurvatura dei glutei. A vederla da dietro ora nuda sarebbe stato impossibile non eccitarsi, osservando tra tanta perfezione, come la punta più lunga dei capelli si insinuasse nel morbido canale formato dalla congiunzione dei lobi.

Liliana sorrise, quasi eccitata dalla sua stessa bellezza. "Ora a mangiare" si ordinò.

Dopo cena tornò a casa. Quella sera non ebbe voglia di vedere amici.

Aveva bevuto abbastanza vino, senza accorgersene, esitò quindi un momento, poi decise d'inghiottire un tranquillante: le parve necessario, pur non sapendosene spiegare il motivo. Prima di addormentarsi pensò a Rodolfo, rivide il suo corpo virile, il volto di maschio ancora immaturo, lo sguardo bastonato dalla furia di lei, improvvisa. Quello sguardo mortificato le diede un attimo di eccitazione, prima di cadere nel sonno. Il sogno torbido e infinito fu invaso dalle figure dei due neonati visti al supermercato, il cui corridoio ora si slargava illuminandosi sino ad accecare e in quella luce che annullava ogni altra forma, sentì lo stridio prodotto dalle grida dei neonati, acuto ed incessante. Alla fine il sonno vinse tutte le altre vicissitudini e Liliana pote' dormire tranquilla nelle ultime ore della notte.

In ufficio il giorno dopo le si avvicinò Daniela, la collega addetta ai sinistri.

"Liliana, sai cosa si sta mormorando da noi? Cosa hai fatto ieri a Rodolfo?"

"C'è stato un piccolo diverbio, niente di serio. Perchè?" Chiese meravigliata la donna.

"Eppure devi averlo sedotto: Ha detto che stanotte ti ha posseduta, in sogno, ma ch'era così reale da sentirsi sazio al risveglio."

Liliana ne fu colpita. Il fatto di essere stata posseduta, di essere diventata proprietà di quell'uomo, sia pure virtualmente, le fece sorgere moti di ribellione e disgusto. Diventò rossa e le tremarono le mani sulla tastiera del computer.

"Porco!" Disse, con rabbia.

"Scusami, non credevo che ti venisse un colpo a sentire queste chiacchiere. Infondo è stato un sogno. Non te la prendere: sul conto di noi altre si dice di peggio." Si defilò la collega, un po' spaventata e pentita.

Rodolfo non si curò di tenere per sé il sogno che aveva fatto, lo confidò all'amico e compagno di lavoro fidato e fu per questo che, dopo qualche ora, tutta l'azienda sapeva della sua avventura onirica, anzi qualcuno già insinuava che quella storia non fosse tanto irreale.

Liliana fissò la schiena di Rodolfo che stava seduto alla scrivania davanti, ignaro della vendetta che la donna meditava contro di lui. Il giovane percepiva vagamente quello sguardo su di sé e cercava di smirciarla con la coda dell'occhio per averne la conferma. Intanto si chiedeva cosa fossero quelle strane sensazioni e quell'attrazione intensa. La desiderava, ma voleva anche altro, esserne soggiogato, dipendere dai suoi capricci, alla maniera di un animale domestico. Trasferire sotto il dominio di lei tutto il suo essere.

"Che assurdità vado pensando", si disse in un flebile mormorio.

In un certo senso i desideri di Liliana combaciavano con quelli di lui. Certo, le sarebbe stato agevole dominare il corpo del maschio floscio, proprio dell' impiegato sedentario, per questo si alzò e gli passò davanti lentamente. Rodolfo non perse un guizzo di carne, né si trattenne dall'andarle dietro, vedendola diretta verso la collega Daniela.

"Si lavora poco stamattina!" Disse sorridendo, tanto per iniziare il discorso, quando fu vcino alle colleghe.

"E tu perché ti impicci degli affari altrui?" Gli rispose fremente Liliana.

"Sei ancora arrabbiata?" Chiese Rodolfo, supplichevole.

"Per forza, dopo tutto quello che è successo stanotte!" Sghignazzò Daniela, che aveva il gusto di mettere sempre tutti in imbarazzo. Rodolfo si fece rosso:

"Amici e segreti sono impossibili, comunque i sogni non si scelgono, di questo non mi puoi incolpare." Disse a Liliana.

"Io vado, ho un impegno. Saluti." La ragazza si allontanò, lasciando il giovane allocchito. "Ma dove vai?" Volle ancora insistere lui, gridando, con la speranza di trattenerla.

"Consulenza... dalla ditta Plurivetro." Rispose lei, scomparendo nell'ascensore.

 

Il fascino di quel lavoro per Liliana era poter amministrare liberamente il tempo dell'impiego, purché non perdesse mai di vista la produzione. Del resto a lei era stato assegnato l'incarico di curare i rapporti con la clientela e per soddisfare le esigenze di questa doveva stare più fuori che in ufficio.

Salita in macchina ripensò alla lite avuta il giorno prima con Rodolfo, e allora nella memoria si presentò il motivo reale di quella rabbia esagerata: era stato il panico per il pericolo che il giovane avesse potuto scoprire il segreto custodito nella busta di colore azzurro che aveva subito, quasi tremando, rimessa nel cassetto della scrivania la mattina precedente; quella busta che il giorno stesso riportò a casa nascondendola in un posto più sicuro. Conservava in essa, con cura morbosa, pagine e spezzoni di giornali che riportavano la nera cronaca dei modi in cui erano morti i suoi genitori. Nel momento in cui lei stessa aveva scoperto quegli articoli aveva giurato solennemente che mai estraneo sarebbe venuto a conoscenza di quelle storie. Nessuno più infatti si ricordava della fosca tragedia familiare accaduta ventisei anni prima in città.

Districandosi dal traffico intenso, Liliana ripensò per l'ennesima volta a quei tempi infelici.

Il papà, Francesco, era architetto. Il lavoro lo costringeva a lunghe e frequenti assenze da casa. La più grande afflizione di lui era non poter dedicare molto più del suo tempo al figlio Roberto, verso il quale sentiva un amore sconfinato. Il bimbo aveva compiuto da poco otto anni. Quando il papà stava a casa erano indivisibili. Giocavano, mangiavano, dormivano persino insieme, ma soprattutto ridevano sempre in ogni e di ogni circostanza, burloni e felici. Liliana non era ancora nata, ma era già in arrivo. Avrebbe poi letto nel diario del fratello il resoconto preciso ed emozionante del rapporto allora esistente fra padre e figlio. E dalle fanciullesche memorie straripava la felicità pura, alla quale Esterlinda, la madre, non doveva essere estranea. Il racconto giornaliero di Roberto, che iniziava dall'anno precedente a quello della nascita di Liliana, descriveva infatti gli atteggiamenti premurosi della madre e delle affettuose attenzioni di lei per il figlio e per il marito. Nel diario si leggeva spesso delle cene, organizzate nel giardino illuminato da lunghe file di lampadine colorate e festoni sospesi tra i rami del noce e del tiglio, alberi che s'erano salvati durante la costruzione della villa per ordine inderogabile dato dalla padrona di casa. Esterlinda aveva obbligato il marito a modificare il progetto della villa, perché non fosse abbattuto innanzitutto il noce, sotto al quale amava rifugiarsi. Ai piedi dell'albero si trasfigurava in una sorta di animale alato e volava per plaghe fantastiche e segrete. Solo al figlio, qualche rara volta, confidava di volerlo portare un giorno con sé in uno di quei meravigliosi viaggi, ma quali territori percorresse nessuno ancora aveva il privilegio di conoscere..

Roberto confidava al diario lo scoramento per non poter essere con la madre in quel vago fantasticare.

"Forse solo Liliana, ancora nel ventre di lei, può accompagnarla. Ma ora finirà di viaggiare su quel treno. Mio padre e mia madre sono ansiosi per la nascita di mia sorella, che già ha portato tanto scompiglio nella mia vita. Figuriamoci quando dovrò sopportare ogni giorno la sua presenza fisica...Ho sentito un grido. E' mia madre. E' arrivato forse il momento?"

Quello fu l'ultimo evento che annotò sul diario, alla pagina del 20 marzo 1980. E l'ora: le sedici e trenta.

Da un mese circa era stata assunta Olga, una donna cinquantenne, vedova, tuttofare ed a tempo pieno, Quel lavoro per lei rappresentava vitto, alloggio e, soprattutto, compagnia. Si era subito sentita a suo agio e si era dedicata con alacrità e passione alla gestione della casa, ricevendone in cambio fiducia e affetto, soprattutto da Roberto, che aveva finalmente trovato a chi confidare i suoi piccoli tormenti.

Quel pomeriggio del venti marzo Esterlinda fu portata di corsa in ospedale dal marito, il quale aveva già rinviato tutti gli impegni per poter essere presente al parto. Roberto era rimasto in casa, con la compagnia di Olga.

Francesco non si pote' allontanare dall'ospedale per tutta quella notte. Roberto passò il resto del pomeriggio a guardare i cartoni animati trasmessi dalla televisione. Più tardi squillò il telefono. Roberto si precipitò a rispondere:

"Pronto, papà!"

"Roberto, è nata la tua sorellina, vedessi com'è bella!" Sentiva la felicità del padre per l'arrivo del nuovo essere e provò un astio doloroso verso entrambi. Non riuscì a parlare subito e l'uomo si preoccupò di dimostrargli l'affettuosa sollecitudine di sempre: "Stai bene, Roberto? Che hai? Non sei felice per la sorellina?"

"Si, papà, certo. Forse è perché sono un po' addormentato." Mentiva probabilmente per la prima volta, ma proprio non ce la faceva a dire al genitore che la neonata non era da lui molto gradita, anzi che la riteneva proprio una intrusa.

"Lo so, caro, è un grande sacrificio il tuo, ma per questa notte devi comportarti come un uomo. Non aver paura di nulla, vai a letto e dormi tranquillo. Domattina ti verrò a prendere e torneremo insieme qui dove potrai conoscere finalmente la piccola Liliana. D'accordo?"

"Si papà, io pensavo però che tu venissi ora, ormai lei è nata!"

"Tua madre mi ha supplicato di farle compagnia, io pure credo che sia meglio così, già non mi è stato facile ottenere il permesso. E' solo per questa notte, amore mio, domattina staremo di nuovo insieme."

"Va bene, dai un bacio alla mamma per me. Buona notte, papà."

"Lo darò alla tua mamma e a Liliana, caro, buona notte. Dormi tranquillo."

In verità Roberto non durò a lungo sveglio. Accompagnato di sopra nella sua camera e messo a letto da Olga si addormentò subito. L'ultimo suo pensiero, ma lieve come una piccola nuvola fugace, fu che non aveva mandato il bacio alla sorellina: "D'altronde come si può baciare una persona che non si è mai vista?" A questo punto chiuse occhi e coscienza.

L'indomani il padre mantenne la promessa. Venne a prenderlo per portalo in clinica. Roberto invidiò ancora di più la sorella perché, pur essendo appena nata, due uomini si degnavano di farle visita, come ad una regina.

Nei giorni seguenti, quando furono di nuovo tutti insieme, il rapporto con la neonata si incanalò nella normale condotta di fratello maggiore e Roberto si rassegnò a condividere con lei l'affetto dei genitori, .

Così sembrava una famiglia felice, se non ci fosse stato quel neo di Esterlinda a dilatarsi pericolosamente. Poco dopo il parto, infatti, s'era accentuata l'inclinazione della donna a viaggiare con la fantasia. Per di più a questo assentarsi s'era aggiunto il nervosismo con cui lei reagiva sempre più spesso ai richiami, sia pure fatti con dolcezza, del marito. Questi naturalmente si preoccupava sempre più dello strano comportamento della moglie. Francesco, convinto che si trattasse del trauma sopravvenuto al parto, era più premuroso nel rapporto con la donna e più presente, restando pazientemenete in silenzio per tutto il tempo in cui la compagna non voleva parlare, e se ne percepiva fisicamente l'assenza, mentre cercava i discorsi più opportuni e pacati quando finalmente Esterlinda si svegliava da quelle aeree incoscienze e tornava a stare con tranquilla lucidità nella famiglia. Questo sforzo del marito toglieva tempo ed energie al padre. E di questo soffriva Roberto che invece ne incolpava la sorella.

Il bambino di tentativi ne faceva per strappare la donna a quel torpore, spinto anche dalla certezza di riavere per sé le attenzioni del padre, una volta che questi si fosse liberato dalle preoccupazioni della moglie. Si avvicinava alla madre dolcemente, carezzandole con la punta esile delle dita prima il collo, da sotto i capelli, poi le guance, mentre con le labbra le sfiorava un orecchio, solleticandola col soffio leggero del respiro. Sembrava per un momento che lei ne godesse, abbozzava un sorriso, gli rivolgeva persino lo sguardo ed allungava la mano, tentando una carezza; Roberto le avvicinava la sua testolina per facilitarle il gesto, ma il braccio cadeva prima che le dita della donna sfiorassero i capelli del figlio.

Accadeva qualche volta che Roberto, spazientito, chiamasse la madre con veemenza e per nome, come a dimostrare il suo disprezzo per quell'atteggiamento svagato:

"Esterlinda, mi senti? Perché Liliana piange sempre la notte? Non fa dormire nessuno...Mamma, Esterlinda, dài, ascoltami...Ti prego..." Roberto, dinanzi a quell'imperturbabile e pur malinconica indifferenza finiva col supplicarla. Allora Esterlinda si svegliava, riacquistava una torbida coscienza della realtà circostante ma, innervosita da queste per lei obbligate distrazioni, gridava al figlio che non doveva sentirsi disturbato per così poco, che avrebbe dovuto avere più pazienza, che la sorellina era piccola e doveva conviverci senza lamentarsi, e che, infine, la lasciasse in pace.

Francesco, ormai dopo un mese e mezzo di vita casalinga, fu costretto a riprendere il lavoro. Il collega con cui divideva lo studio era stato categorico: "Non era più disposto a lavorare per due!". Reclamavano anche i clienti, perché c'erano progetti rimasti in sospeso e la cui realizzazione non poteva più essere rimandata.

Prima di tutto pensò di soddisfare le richieste pressanti di Cornelio, un commerciante che aveva acquistato la villa in collina, affidandogli l'incarico di ristrutturarla. Decisosi a chiudere quella lunga vacanza, partì una mattina di maggio, poco dopo l'alba. La zona da raggiungere era lontana e lui voleva arrivare insieme alla squadra di mastri e muratori, solitamente mattinieri. La moglie sembrava dormisse tranquilla. Uscendo dalla silenziosa camera matrimoniale diede uno sguardo in quella di Roberto, essendo, come d'abitudine, aperta. Il bambino dormiva tranquillo col corpo poggiato sul fianco destro, sicché egli ne scorse il viso roseo e come sorridente. Non riuscì a trattenersi e dovette entrare nella camera per dare un bacio ad una guancia morbida e calda. A piano terra, in cucina, Olga l'aspettava, con la colazione già pronta. L'architetto scambiò poche parole con la donna, pregandola di stare molto attenta alla moglie e confidandole le sue preoccupazioni per l'instabile equilibrio psichico di lei. Dieci minuti dopo attraversava con l'autovettura la campagna ancora fredda ed umida e si dirigeva verso la collina velata dalla nebbia.

 

Esterlinda si svegliò intorno alle sette. Fissò il letto vuoto al suo fianco, poi girò lo sguardo per la camera, scrutandola come se non la riconoscesse. D'un tratto s'agitò, spaventata. Sembrò mettersi in ascolto di qualcuno che proferiva accuse e minacce, faceva cenni di assenso col capo e si ritraeva, come per cercare riparo da un pericolo incombente. All'improvviso scoppiò in un pianto dirotto. Poco dopo cessò di piangere e si asciugò gli occhi col dorso delle mani. Queste, bagnate di lacrime, se le contorceva, mentre accennava ad alzarsi e poi esitava, atterrita a volte, poi seria e condiscendente altre, tesa a prestare tutta l'attenzione a quella misteriosa entità che lei mostrava di vedere, come se le desse realmente e argomenti ed ordini. Alla fine, infatti, ubbidiente scese dal letto, scalza si avvicinò al comò, si guardò allo specchio e disse, come se il suo riflesso del vetro appartenesse ad un altro essere, crudele e categorico: "Si! si!" in un sibilo doloroso. Tremante, rovistò tra i cofanetti dei profumi, vide ed afferrò le forbici lunghe, sottili e appuntite. Ancora a piedi nudi, uscì dalla camera ed entrò in quella del figlio. Roberto era sempre steso sul fianco destro, così come l'aveva lasciato il padre, e dormiva. La madre, nel vederlo in quel primo attimo pensò che ogni mattina doveva svegliarlo con ripetute carezze. Solo dopo adeguate coccole Riccardo si decideva ad alzarsi.

Silenziosamente continuò a far cenni affermativi col capo e, intanto, si avvicinò al letto, osservò il bambino, guardinga, come se avesse paura di toccarlo, poi, senza lasciare le forbici, sfilò il cuscino da sotto il capo del figlio e con gesto veloce glie lo rovesciò sul volto. "Amore mio, tua madre non ti farà soffrire...io ti libererò! io ti libererò!" mormorava, piangeva e premeva il cuscino sul viso e sulla bocca e sul naso del bambino, sino a quando sentì il piccolo corpo cedere, rilassarsi, diventare inerte. Allora lasciò cadere il cuscino sul pavimento, strinse con una mano la testa di Roberto accostando il viso di lui bianco al suo rosso e sconvolto, conficcò con l'altra mano le forbici nel petto del bambino, e poi un'altra e un'altra volta ancora, mormorando, invasata:

"Esci, demone! esci! Noi ti comandiamo di uscire!"

Quindi si fermò, tremante. Guardò il sangue sgorgare dal corpo del figlio e inondare il letto. Vide quel sangue su di sé, sulle sue mani, lo sentì caldo sul suo volto. Gettò le forbici e si alzò come senza peso, uscì dalla camera, scese al piano di sotto. Scalza, non un fruscio si udì nell'aria. Aprì piano la porta che dava sul giardino e, lacerandosi i piedi sulla ghiaia, si diresse al noce irto e gigantesco. Al tronco era appoggiata una scala messa per montare l'altalena, poi il marito aveva abbandonato quell'idea, lasciando una corda penzolante da un alto ramo dell'albero. Con l'aiuto della scala, Esterlinda salì fino a quel ramo, senza un rumore, si legò la corda al collo, stringendo con forza disperata il nodo e si lasciò cadere.

Olga lavava le stoviglie nel lavandino della cucina, quando guardò l'orologio. Perché figlio e madre non scendevano per la colazione? "Possibile che dormano ancora?" pensava. S'avviò per le scale. "Vado io a svegliare il bambino, anche se forse non vorrà andare a scuola. Sarà triste oggi, perché manca il padre. Si vogliono così tanto bene!"

Era entrata ormai nella camera. Paralizzata. Guardò il corpo martoriato di Roberto, il sangue sparso, gli schizzi dappertutto, poi le uscì dalla gola un urlo disumano. Arretrò fino alla porta, continuando ad urlare impazzita, corse nella camera dei coniugi, scoprendola vuota, si precipitò gridando per le scale, andò nel soggiorno, dalla grande vetrata vide il corpo penzolare nel vuoto, i folti capelli neri scesi in disordine sugli omeri di lei; la grande vestaglia bianca con le macchie rosse di sangue le davano una sembianza diabolica. "Dio! dio! che cosa..." balbettava, annaspava nell'orrore assurdo, che le scoppiava in gola aprendole la bocca senza voce, rigida, lo sguardo fisso sulla sagoma che lievemente oscillava, sospinta da un leggero moto d'aria.

Pur in tanta cieca disperazione, più tardi le balenò alla mente il ricordo dell'uomo: "Devo, devo avvisarlo...deve venire...devo dirgli qualcosa. No, tutto no, non ho il coraggio. Lo scoprirà lui...quando verrà... Signor Francesco..." piangeva al telefono, non riusciva a parlare. "Olga, mi dica" diceva lui sempre più agitato dalle pause e dai singhiozzi che pur udiva distintamente. "Olga, per favore, mi dica, cosa c'è? Forza, coraggio, mi dica, cosa è successo? Olga! Olga!" Sentì di nuovo la voce della cameriera articolarsi tra i singhiozzi: "Venga, signor Francesco, una tragedia...venga..." e lei pose il telefono. Seduta a malapena sul bordo di una poltrona, restò immobile a fissare il corpo che dondolava nel vuoto. Il noce fremeva appena per l'aria che gli attraversava l'intreccio delle foglie d'un verde cupo sullo sfondo grigio del cielo.

Finalmente arrivò Francesco. Appena la macchina giunse a metà viale, vide il corpo, fermò il veicolo e rimase immobile, paralizzato ed ora consapevole di quei numerosi segnali premonitori sottovalutati. Poi si mosse e scoprì tutto da sé, passo dopo passo. Si stava avvicinando alla scala dell'albero quando si accorse del sangue che macchiava la vestaglia. Si immobilizzò per un dubbio improvviso ed atroce che gli tolse ogni forza. "Dov'è Roberto?" urlò. Olga inebetita, non fiatava. Entrò nel soggiorno, avvicinandosi alla scala, sui gradini di marmo spiccavano altre macchie di sangue. Incominciò a salire, esitante ad ogni gradino, piegandosi a sfiorare con la punta delle dita il sangue rappreso. Quando entrò nella camera aveva già intuito il tragico orrore. Si accasciò tremante sul morticino trafitto, gli baciò il freddo volto, gli accarezzò i capelli singhiozzando, la coscienza oppressa da un peso immane: "Le passerà!" si diceva. "Ecco ora il risultato, tutti e due morti."

Rimase fermo a lungo, senza parole, immobilizzato dal dolore, stringendo il corpo del figlio.

Il silenzio della casa scosse Olga. Corse prima nella sua camera, a pianoterra: la bimba dormiva nella culla, ignara di tutto. Poi ritornò al telefono e chiamò i carabinieri. Aveva paura. Aveva bisogno d'aiuto. Quando Francesco uscì da quella camera, costretto dagli agenti, incontrando la cameriera la supplicò di non abbandonarlo e di prendersi cura, ora ancor più, della bambina. Temeva che la donna volesse fuggire da quella casa.:

Non mi abbandoni, Olga, non mi abbandoni" ripeteva ossessivamente. La donna non l'ascoltava, guardava gli intrusi che frugavano in ogni angolo, rispondeva alle loro domande con monosillabi. Quando però gli agenti abbandonarono la casa, il silenzio che la invase era ancor più opprimente.

Nel tempo che seguì, l'architetto, per non diventare preda della disperazione, riprese con foga l'attività professionale. Olga aveva ceduto alla suppliche di lui ed era rimasta per aiutarlo a crescere Liliana. La bambina, con i suoi bisogni e il suo carattere vivace, le dava la forza di vivere e muoversi in quelle stanze funeree.

Passarono tre mesi di dolore. Francesco non si rassegnava. Il passare del tempo gli rendeva più acuto il malessere. Ormai in casa non parlava, né aveva rapporti con la figlioletta. Allungava su di lei le oscure ombre della depressione materna. Era talmente vivo il desiderio di rivedere il figlio Roberto che, per una sorta di opposta reazione, la stessa presenza di Liliana lo infastidiva. Si rifiutava di partecipare ai giochi di lei, talvolta si allontanava dalle sue manine tese per abbracciarlo. Anche se, nelle notti insonni, il rimorso per questi innaturali comportamenti lo tormentava e si risolveva a giurarsi che il giorno appresso sarebbe cambiato, sarebbe ridivenuto il buon padre, qual era infondo. Ma Olga, anche il giorno dopo, doveva a forza strappare Liliana dal soggiorno, perché non infastidisse il padre che, buttato su una poltrona, non smetteva di pensare alla moglie e al figlio morti, muto e freddo come marmo.

Forse distratto da un così immane dolore, o forse per un guasto meccanico, una sera, sicuramente mentre rientrava a velocità sostenuta, l'architetto perse il controllo della vettura che andò a conficcarsi nel costone d'una collina, trasformandosi in un mostruoso groviglio di metallo.

Fu necessario l'intervento dei vigili del fuoco per estrarre il corpo dalla massa nera delle lamiere.

Olga stava preparando la cena quando sentì squillare il citofono.

"Siamo i carabinieri, signora, ci apra per favore."

Alla voce carabinieri nella mente della donna seguì rinnovata la tragica sequenza degli avvenimenti già vissuti pochi mesi prima. Aprì il cancello e il resto fu pianto, sconsolato e preoccupato: insieme al dolore per la morte dell'architetto, il suo pensiero affettuoso andava al destino di Liliana, orfana e la cui ancor breve vita già carica di così nefasti avvenimenti.

La preoccupazione per l'avvenire della bambina le richiamò alla memoria la confidenza fattale un giorno dalla signora Esterlinda. La poverina, in uno strano discorso sui doveri dei genitori, aveva accennato alla sua madre che viveva in città e che non vedeva ormai da tanti anni.

Quindi la piccola Liliana aveva una nonna. Forse non era così sola al mondo. Pensava Olga.

Ed era vero. La nonna materna viveva in un piccolo agglomerato tranquillo di ville, poco distante dal centro urbano. Rimasta vedova, si era risposata con Romualdo Castri, un ricco professore in pensione. Ora questi conducevano una vita molto riservata, tanto che persino tra madre e figlia non c'era stato più alcun rapporto. Sicché l'anziana donna probabilmente neppure sapeva dell'esistenza della nipote, pur avendo partecipato commossa al funerale della figlia.

Quando Olga trovò l'indirizzo, il giorno dopo il funerale di Francesco, si presentò con la bambina nella villa in cui abitava la coppia. In verità, i padroni di casa furono gentili e la lasciarono parlare, seguendone il discorso con interesse: entrambi compresero le necessità impellenti sorte da quelle tragedie e, forse anche ravvedendosi dal comportamento innaturale tenuto per tanti anni verso la figlia Esterlinda, in pieno accordo col suo secondo marito, acconsentì ad accogliere in casa la nipotina Liliana, a patto che Olga continuasse ad accudirla, e magari estendesse la sua opera di cameriera a tutta quella nuova abitazione.

Infondo era quello che la donna desiderava, essendosi legata alla bambina con lo stesso affetto di una madre vera. Inoltre ci teneva a mantenere la promessa fatta tempo prima al padre di Liliana che l'aveva supplicata di non abbandonare mai la figlia e che dopo la tragedia aveva pensato bene di assegnarle un congruo vitalizio.

Le venne in mente anche l'idea che sarebbe stata una gran cosa per la piccola Liliana se fosse stato possibile modificare, solo lievemente, il suo cognome, per preservarla da tristi circostanze in cui le sarebbero state chieste informazioni su come e perché fosse stata così tragica la fine dei suoi. Ne parlò alla nonna che condivise con entusiasmo quell'idea, tanto da convincere il suo nuovo marito Romualdo a ricorrere alle sue influenti amicizie per ottenere, nel più breve tempo possibile, una piccola rettifica al cognome della nipote . Per questo Liliana, senza chiederlo e senza saperlo, dopo alcuni mesi, da Nisi si chiamò Nasi.

La nutrice e la bambina si trasferirono quindi definitivamente nella villa della nonna, in una zona del piano terra che aveva un accesso indipendente. Da una finestra Liliana spesso si emozionava nell'ammirare i tramonti sanguigni e immaginava sotto la linea scura dell'orizzonte abissi colmi d'anime tormentate dalle fiamme. Una di quelle anime le appariva più spesso. Aveva il viso simile a quello della donna bruna che Olga teneva incorniciata sul proprio comodino, vicino al letto. Liliana non riuscì a confidare quella strana visione, che ben presto comunque svanì, lasciandale solo un indefinibile prurito.

La domenica mattina, Olga portava Liliana in chiesa. La bambina, partecipava alla funzione religiosa, pregava, s'inginocchiava, fino a che non la prendeva un inspiegabile quanto invincibile sonno e si addormentava con la testa poggiata sul passamano del banco di legno. Olga non se la sentiva di svegliarla e la lasciava in pace.

La nutrice, un po' alla volta e cogliendo le occasioni più propizie, aveva raccontato alla bambina diventata ormai fanciulla parte della storia familiare. Le aveva detto della morte del fratellino Roberto, ma come avvenuta in un incidente, giocando con la madre; durante il gioco s'era ferito gravemente perdendo molto sangue. Fino a morirne. La madre, Esterlinda, di delicata bellezza, dopo quella tragedia amava correre a nascondersi sui rami del noce che cresceva nel loro giardino. L'albero era altissimo e la madre osava andare sempre più in alto, di ramo in ramo, fino a quando uno di questi cedette, facendola mortalmente precipitare da basso. Per come fosse avvenuta la morte del padre, Olga non ebbe difficoltà nel rivelarla alla bambina, perché causata realmente da un incidente automobilistico. Mentiva per non essere la causa di altri traumi. Né mai avrebbe trovato il coraggio di dire alla bimba, anche quando fosse diventata grande, come la madre le avesse ucciso il fratellino. Forse un giorno Liliana l'avrebbe scoperto da sé, ma allora lei sicuramente non sarebbe stata più presente.

Trascorsi alcuni mesi dal compimento del diciottesimo compleanno di Liliana, Olga si ammalò e fu ricoverata in ospedale. Liliana le stette vicina in ogni momento con affetto e questo fu per l'anziana donna il dono più gradito.

Il giorno dopo il funerale della nutrice, Liliana fu presa dal desiderio vivissimo di far visita alla sua casa. Non c'era mai più stata. Olga glie lo aveva sempre impedito, e lei non lo aveva mai veramente desiderato prima d'allora.

Vi andò una domenica mattina umida e nebbiosa.

Il giardino non era più tale. L'erba incolta aveva invaso viali e aiuole. Erano i primi giorni di aprile e piccole margherite selvatiche spuntavano tra l'erba e ai piedi del tiglio, che ancora si stagliava superbo nell'aria grigia. Liliana entrò nell'ampio soggiorno, con esitazione. Polvere e ragnatele dominavano l'ambiente; in qualche angolo l'umidità aveva prodotto macchie verdi di muschio. La ragazza si guardava intorno stupita e spaventata: s'era già pentita di quella decisione. Comunque andò avanti, in cucina, nella camera di Olga, che era quella più in ordine. Tornò nel soggiorno e salì per le scale, decisa ormai ad ispezionarla tutta. Entrò in ogni camera, trovando ovunque lo stesso ordine, sul quale la polvere aveva steso un telo cinereo e i ragni veli tremanti. Era commossa, ma appena un po' delusa per non aver trovato niente che potesse parlare della vita che lì vi avevano vissuto i genitori. Aveva la strana sensazione di vagare per una casa estranea, ostile. Scese di sotto, era assetata, tornò in cucina con la speranza di trovarvi un po' d'acqua, ma i rubinetti erano secchi, naturalmente. Cominciò istintivamente ad aprire i pensili, trovandovi posate, tappi ammuffiti e cianfrusaglie d'ogni genere. In un angolo c'era una cassettiera. Il primo di quei cassetti però non s'apriva; ancor più incuriosita, la ragazza prese un coltello e usandolo come leva riuscì ad estrarlo. Apparvero pagine di giornali ripiegate con cura. Liliana le prese con cautela e le slargò. Piegata sul tavolo, incuriosita, spianava le pieghe di carta come d'un vestito, finché le apparve il titolo con il nome della donna in neretto grande; sotto, si allungavano le colonne zeppe di parole con la descrizione di tutte le fasi della tragedia che colpì diciotto anni prima la sua famiglia. V'era descritto in quelle pagine, con dettagliata precisione, ogni sequenza di quella storia, illuminata da alcune orrende fotografie rese ancora più sinistre dalla scoloratura inflitta dal tempo; vi eranarrato l'assassinio del figlio perpetrato dalla madre, documentato da una fotografia in cui si vedeva nitido il corpo di Roberto steso sul letto, il suo volto delicato, come dormiente; vi era raccontato il suicidio di lei avvenuto subito dopo, con la fotografia del corpo penzolante tra i rami dell'albero di noce.

Poi, su altre colonne di giornale, la cronaca della morte dell'uomo trafitto dalle lamiere della vettura, accartocciatasi nell'incidente. Il giornalista, con argomentazioni ipotetiche, interpretava l'incidente mortale come provocato dalla instabilità emotiva dell'uomo, seguita alla morte della moglie e del figlio. La ragazza, tra ansiti di orrore, nonostante il piccolo trucco del cognome, scopriva così che la fine dei suoi cari non era stata la conseguenza di circostanze fatali, ma la folle esecuzione di orribili volontà. Lesse tutto, avidamente, poi rovistò ancora nel cassetto, dal cui fondo uscì un testo della Bibbia; ne scorse i fogli, quasi certa di trovare altri segreti, ma vi scoprì, usata come segnalibro, una riproduzione del dipinto di "Lilith" del pittore John Collier, un evidente ritaglio d'una pagina di rivista, in cui splendeva la figura della fanciulla bellissima; i capelli che le scendevano folti sulle spalle fino a lambire i glutei, il volto virgineo eppure lussurioso, il corpo nudo, eccitante, inanellato dalle spire di un lungo e grosso serpente, la cui testa, sbucando da dietro il collo si adagiava sul petto, lambendo con la stretta lingua il seno, la guancia di lei reclinata sul collo del viscido animale in un voluttuoso abbandono. Liliana rimase immobile pur nella tempesta dei sentimenti, affascinata da quell'immagine, poi si accasciò su una sedia, sconvolta. Raffigurandosi la figura della madre, richiamata alla memoria dalle immagini delle poche fotografie, una domanda perentoria le si formulò: "Come può aver ucciso mio fratello e suo figlio, mia madre? Ed è colpevole anche della morte di mio padre, suo marito. E' un'atroce assassina. Ma che mostro ho in mente?". Si alzò e prese a camminare per la casa, oppressa da un imperversare di sentimenti. Fu allora che decise di rimanervi. "Qui è vero che sono morti, ma questa è casa mia!"

Doveva organizzarsi, far pulire le camere, riallacciare i servizi, riordinare il giardino. Il noce non c'era più, Olga le disse un giorno che era stato sradicato, ma il tiglio, alto ed ampio, ombreggiava ancora, e avrebbe potuto offrire un robusto sostegno ad un'altra altalena, se avesse avuto un giorno un figlio, pensò lei, con la ferma volontà di distruggere quei miti, annullare le paure, consce e inconsce che fossero.

 

"Basta con i ricordi." Si disse, ritornando improvvisamente al presente.

Per andare dalla ditta Plurivetro bisognava attraversare tutta la città, passare davanti alla sua villa, ormai lambita dai palazzi dei quartieri periferici, proseguire ancora per alcuni chilometri, fino ad arrivare nella zona industriale. Poco dopo fu infatti davanti al suo muretto dai mattoni marroni con la rete metallica sovrastante che separava il giardino dalla strada. L'abitazione, situata infondo, non era visibile dal viale. Liliana continuò il viaggio senza fermarsi. Già così sarebbe arrivata dal cliente in ritardo. Anzi pigiò sull'acceleratore. Proprio su quella strada, una decina di chilometri più avanti, era morto il padre. Ebbe un fremito di paura, ma aumentò la corsa come per sfuggire con la fuga ad un pericolo.

"Caro papà, sono sicura che sia stato il dolore a vincerti, hai chiuso gli occhi ed hai lasciato che la macchina si schiantasse contro la collina." Continuò a correre per il viale a doppia carreggiata, divisa al centro da una larga fascia di terreno da cui si ergevano querce e folti cespugli di oleandri con fiori rosei, giallognoli e aranciati che la vettura sfiorava sulla corsia di sorpasso, veloce e silenziosa.

Liliana era soddisfatta d'aver deciso di abitare nella sua casa. La nonna aveva quasi pianto, ma non si era opposta.

Mentre ora osservava guardinga la freccia intermittente della vettura davanti che stava per precederla nel sorpasso di altre automobili, si ricordò della fretta con cui stivò la macchina delle sue cose, aggiungendo i pochi ricordi di Olga. Poi accelerò per impedire al mezzo davanti di precederla nel sorpasso. Il carattere ostinato non le permise di scappare le prime notti dalla sua villa, quando una sottile angosciante paura s'impadroniva del suo essere, prima di addormentarsi. In un ricorrente obnubilato dormiveglia più volte le appariva la madre brandire un coltello, sorridente eppure gelida, con un pallore di morte. Una larva orribile.

"Il nero manto della notte steso

sulla terra accende un angelo rosso,

un canto intona musica arcana.

Scende una pace e tutto il nero invade.

Dormi piccola in quest'oasi di quiete."

Che strana nenia le cantava Olga, e quell'"angelo rosso", quasi da paura.

Era giunta intanto a destinazione. Trovando il cancello aperto, entrò nel parcheggio della ditta Plurivetro senza esitare. Fermò ed uscì dalla macchina, lasciandovi in sospeso i ricordi, entrò negli uffici, a piano terra, situati al fianco sinistro del capannone dove gli operai lavoravano su lastre di vetro.

"Buon giorno, sono la signorina Nasi, delle Assicurazioni Corona".

"Ah, chiamo subito il dottor Ostillio!" Rispose la ragazza. Il principale giunse dopo qualche minuto ed invitò Liliana in una vano arredato con poltrone di pelle d'un vago color rossiccio, negli angoli piante di anthurium dalle infiorescenze erette e rosate, alle pareti anonime riproduzioni. A fianco della porta un piccolo frigo bar.

L'imprenditore Ostillio, giovane trentenne alto, nero di capelli un po' arruffati, viso ovale chiaro, fisico allenato, chiese alla donna cosa volesse bere, Liliana rispose di non aver sete ed attaccò l'interlocutore con la sua solita abilità professionale. L'imprenditore si arrese subito al fascino della donna accettandone proposte e consigli. Anzi le chiese di assicurare anche l'abitazione privata e tutto quanto ci fosse dentro, per la verità quasi tutti oggetti di valore.

Al che Liliana replicò che per questo altro progetto sarebbe stato necessario un sopralluogo nell'abitazione: "Se mi dice quando posso trovarla a casa, verrò a farle visita e formuleremo insieme una polizza a misura delle sue esigenze."

"Direi che per me andrebbe bene anche questa sera, dalle ventuno in poi. Abito in via Ariosto, al numero 28." Rispose il giovane imprenditore.

"E io non ho impegni per quell'ora! Allora arrivederci a stasera" gli disse, esibendo il sorriso di circostanza.

Ritornando in ufficio, fermò prima la macchina davanti alla sua villa. Parcheggiò sulla strada e percorse a piedi il viale che conduceva alla palazzina. Vi entrò e si diresse al bagno per rinfrescarsi il viso e ravvivarsi appena quel velo di trucco che era solita usare. Allo specchio si guardò negli occhi. Subito distolse lo sguardo dalla sua immagine, poco soddisfacente. Andò in cucina, aprì la ghiacciaia, scoprendola vuota e nello stesso attimo ebbe una strana visione, della durata di un lampo, un bagliore in cui le parve di vedere nel bianco glaciale del frigorifero una indistinta forma color rosso sangue.

"Che diavolo mi succede! forse farei bene a rivolgermi ad un medico", disse, preoccupata. Chiuse porte ed imposte, rimise tutto in ordine ed uscì. Passando davanti al tiglio sentì come il cigolio di una altalena, così reale da costringersi a guardare sotto i rami. "E sono due!" esclamò, non vedendo nulla di strano. "Forse mi sono confusa con il rumore delle macchine. La strada, infondo, è vicina." Pensò subito dopo, per tranquillizzarsi.

Rientrata in ufficio trovò Rodolfo ancora seduto alla scrivania, con gli occhi fissi sullo schermo del calcolatore. Girò intorno all'uomo per osservarlo e farsi osservare. Infatti egli girò la testa verso il corpo di lei e rimase immobile ad ammirarla.

"Mi studi come fossi un computer!" disse lei,maliziosa.

"Figurati" balbettò il giovane, "è che sei ricomparsa all'improvviso. Il mio sguardo può sembrare freddo, in realtà bolle di passione."

"Si, bolle di sapone!" replicò Liliana, continuando a istigarlo con le movenze delle natiche, sapendo che il giovane era molto sensibile a quella parte del corpo femminile. Un attimo dopo andò a sedersi al suo tavolo: gli sguardi dei colleghi scrutavano curiosi mentre si alzava un pettegolo mormorio. Quella curiosità morbosa dei colleghi la eccitava. Guardava le spalle del giovane che aveva davanti, provando il desiderio di stringerle in un abbraccio, incurante degli sguardi di quei guardoni, muoveva le mani sul piano plasticato del tavolo, batteva l'indice destro sulle lettere della tastiera, senza mai accendere il computer. Sentiva in corpo ben altre voglie che quella di lavorare. Eppure quell'accensione dei sensi, così intensa, non l'aveva mai sentita, era la prima volta che le bruciava così il sangue nel corpo.

Si alzò con un attimo di esitazione, poggiando il palmo delle mani sulla superficie della scrivania, su cui impresse due orme sudaticce, poi decisa s'avvicinò a Rodolfo.

"Tu non avevi l'appuntamento con quel Mastrazzi.?" disse ad alta voce, fissando con tutta la forza della sua eccitazione gli occhi del giovane. Questi, dopo un attimo di smarrimento in cui sospettò di essere preso in giro dalla donna, afferrò il vero senso della domanda e diventò rosso, ma felice.

"Certo, che smemorato! me n'ero proprio dimenticato. Grazie, Liliana, corro, forse faccio ancora in tempo."

"Vengo anch'io, ti accompagno, devo fare quella strada."

Il dialogo s'era svolto a voce sostenuta, come tra sordi. Tutti i colleghi e le colleghe avevano sentito distintamente ogni parola. Ci fu un lancio di sguardi vividi. Sulla bocca di due impiegate apparvero brevi sorrisi maligni.

I due giovani in fretta per non perdere il finto appuntamento si avviarono all'uscita.

"Scusa, sei andata poi dal vetraio?" chiese Rodolfo con tono ironico, appena giunti in strada.

"Certo."

"E come è andata?"

"Dovrò tornare stasera a casa sua. Sono sicura di fare un ottimo contratto."

"Eh, certo, se vai a casa sua!" Rodolfo disse stizzito da quella prestazione straordinaria. Non succedeva spesso essere invitati dai clienti nelle ore serali. "Ma se c'era di mezzo una bella donna..." pensava.

"Calma la fantasia caro, ci vado solo per lavoro" replicò offesa Liliana. "Devo passare da casa, mi accompagni?" la voce della donna era diventata improvvisamente morbida e calda, ricordava al giovane la dolcezza tiepida della crema mangiata la mattina al bar, la risentiva in bocca, ravvivata dal suono di quelle parole. Eppure, stranamente, nelle articolazioni sonore dell'invito percepiva un che di aggressivo.

"Va bene, ti accompagno con piacere." Rodolfo simulava una pacatezza ch'era l'esatto contrario del fuoco che gli bruciava dentro.

"Se ti disturba vado da sola, non sei costretto a seguirmi." Liliana lo disse ironicamente. A stento riusciva ancora a nascondere il reale motivo di quell'invito. E al giovane, già cotto dal desiderio, arrivava ardente l'istintivo ansito della ragazza.

La donna guidò veloce, come in fuga, arrivò davanti alla villa e parcheggiò in malo modo la macchina. Rodolfo le corse dietro pensando di avvisarla, ma lasciò perdere, dissuaso dalla foga della donna che già apriva il cancello. I corpi si sfiorarono e ne vibrarono. Liliana aprì la porta di casa tremante, il giovane le cingeva la vita e le mormorava all'orecchio "amore, sapessi quanto ho desiderato..."

"Ssst, non servono parole" disse lei, sorridendo, "ma fatti" e gli impresse un bacio sulle labbra. Volò al primo piano trascinandosi l'uomo dietro ed entrò nella camera dove il fratellino era stato soffocato dalla madre assassina. Prese Rodolfo dai fianchi e lo spinse supino su quel letto rifatto ma identico, lì lo possedette con furia feroce. All'apice del godimento la ragazza pensò con un disprezzo che le acuiva il piacere: "Tu non sei proprio Adamo!" Si ricordò di Lilith, la demone,in un attimo. Lanciò un urlo e si buttò sul letto, scavalcando l'uomo che giaceva stordito.

Si vestirono ed andarono al ristorante pizzeria vicino. Durante il pranzo, Rodolfo guardava la donna mangiare in silenzio. Ora gli appariva fredda, inespressiva, lontana e irritabile.

"Torniamo insieme in ufficio?" le chiese, quando finì di mangiare la frutta, guardandola negli occhi neri.

"Si, è ovvio." Rispose lei come risvegliata.

"Lo chiedevo per te, sai come sono pettegoli i colleghi."

"Quello che pensano loro non mi riguarda. E' sicuro che i maschietti ti invidieranno!"

"Lo credo bene. Soprattutto se sapessero... Ma come mai... si, scusa, come mai eri..."

"Vergine?" lo interruppe Liliana, "ne sei sicuro? Ed anche se lo fossi stata che differenza fa? Ti è piaciuto? Hai goduto? Ora vuoi sapere se sei stato il primo? Il primo fu Adamo!" Rispose Liliana, sghignazzando con sarcasmo.

"Chi è Adamo, scusa?" chiese come inebetito Rodolfo. La ragazza scoppiò in una risata così fragorosa, da richiamare l'attenzione degli altri clienti.

"Ma è tuo padre!" esclamò. "Ora sbrigati che è tempo di tornare in ufficio."

Rodolfo pensò che la donna si prendesse gioco di lui, forse per vendicarsi di sé stessa per essersi lasciata andare così facilmente: non era stata dolce, ma impetuosa e soprattutto conduttrice. "Eppure era vergine!" si diceva in uno stupore infinito.

"Hai finito di pensare ai fatti tuoi?" lo richiamò Liliana.

"Vorrei tanto sapere chi sei veramente!" esclamò Rodolfo continuando a seguire il corso dei suoi pensieri ad alta voce.

"Stiamo insieme al lavoro da due anni, mi sono innamorato di te, senza mai capirti fino in fondo. E' assurdo ma è così, ancora oggi posso affermare con certezza di non conoscerti e in più devo dire che qualche volta mi fai paura."

"Esagerato. E' la tua fantasia morbosa, io sono una donna normale, libera ed emancipata."

"Forse. Ma non mi convinci con le parole. C'è buona parte di te che non affiora, come chiusa dietro una paratia di metallo, e che forse neanche tu conosci."

"Basta, fai male ad indagare. Ti devi accontentare di quello che hai, anche perché hai ed hai avuto molto. Stai buono e non chiedere troppo alla vita. Su, paga il conto e andiamo. E' tardi e ci aspetta molto lavoro."

Erano le due del pomeriggio. Fuori del ristorante l'aria era tiepida e luminosa. Il traffico però non faceva eccezioni, intenso e convulso. Liliana s'aggiustò i capelli portando le ciocche che le annerivano il seno dietro le spalle e consegnò le chiavi della macchina al giovane.

"Guida tu per favore, io devo pensare."

"A me?" Chiese Rodolfo con un ghigno ironico.

"Non ho tempo da perdere", esclamò la donna seccamente, con passo nervoso si diresse dall'altro lato della macchina e vi salì sbattendo la portiera.

Il giovane condusse la vettura con calma, attento alla guida, lasciando la donna in pace. Supponeva che avesse bisogno di un breve sonnellino prima di riprendere l'attività pomeridiana.

Liliana, al contrario, era sveglia, si rivedeva sopra l'uomo, folle ed enfia di sensualità aggressiva. Sentiva d'aver avuto prepotente l'impulso di distruggere l'uomo che le ansimava sotto, il folle desiderio di introdurlo in lei e digerirlo, come se il suo corpo fosse diventato tutto una rossa cavità infernale. Solo l'orgasmo esploso in ripetute sequenze riuscì a distorcerle la coscienza da quei cruenti propositi. Ella aveva ben in mente tutte le fasi del rapporto e se le ripassava lentamente per analizzarle. Non capiva da dove le fosse venuta quella ferocia distruttiva che nulla aveva in comune con il sesso. Col passare degli anni s'era convinta che i nefasti avvenimenti dell'infanzia si erano eclissati nelle nebbie del tempo, rimossi e tacitati in un angolo remoto e oscuro della coscienza dove avrebbero dormito per sempre. Perché invece ora sembrava che emergessero da quegli orrendi abissi e si mettessero in agguato, come belve pronte a mordere il suo comportamento?

Il giovane pensava anche lui al trascorso inaspettato piacere, quando colto prima da incredula meraviglia, poi l'aveva tenuta nuda tra le mani, invaso dalla cieca foga per quel freddo muro che s'era sbriciolato in un attimo. Liliana intuiva i pensieri di lui, li sentiva scorrere come un rivolo d'acqua vicino alla mente. Si rivedeva nuovamente nella stanza del fratello, sul suo letto. In quell'alcova pregna di un sentore di morte ostinato, il suo desiderio era diventato spasmo doloroso. Ora, ripensandoci, era certa d'aver sentito un grido durante lo scatenarsi dell'orgasmo: l' invocazione infantile di terrore emessa dal fratellino che la madre sopra di lui soffocava. Il suo orgasmo in quel momento era diventato un parto, un fiotto di sangue che le usciva dal ventre come una maledizione.

Si allungò sul sedile come una gatta, per abbandonarsi ai viluppi di quello strano destino, ma non ebbe il tempo di rilassarsi, perché la macchina s'era già fermata davanti al portone degli uffici.

"Stavi dormendo?" le chiese Rodolfo.

"No, andiamo!" gli rispose, risoluta, quasi sprezzante.

Intorno alle diciotto, Rodolfo si alzò stiracchiandosi e avvicinandosi a lei, che alla luce bianca e fredda dei neon sembrava avesse maggior fascino.

"Ci mangiamo una pizza?" le chiese stringendole lievemente un braccio. La ragazza, a quel contatto, ebbe uno scatto involontario come di repulsione, poi subito smorzato da una controllata condiscendenza. Sorrise appena.

"No!" Gli fissò gli occhi in faccia. "Stasera ti posso far compagnia soltanto per un aperitivo. Alle ventuno ho l'appuntamento di lavoro, a quell'ora potrei essere invitata a cena: voglio essere sveglia e pronta a tutto."

"Va bene. Mi accontento di un aperitivo."

"A casa mia!" Disse Liliana sempre fissandolo.

"Mi vuoi mettere alla prova?" Sorrise Rodolfo, sorpreso da quella proposta.

"No, è che non ho voglia di andare in giro." Ora la donna era diventata meno fredda, ma seria; pensava all'impegno d'ufficio che avrebbe dovuto affrontare.

"Va bene, amore mio, un bacio, una bevuta e via."

Uscirono dall'ufficio e questa volta si sedette lei alla guida macchina. C'era ancora tempo per l'appuntamento. "In via Ariosto 28" si ripeté mentalmente l'indirizzo Liliana. La sera era calma e tiepida, una lunga fila di macchine si snodava lungo le strette strade del centro, i conducenti, ora liberi dell'assillo da lavoro, indugiavano per strada a guardare pedoni e vetrine.

Rodolfo parlottava allegro, raccontando qualche sua avventura a Liliana, la quale scuoteva talvolta la testa, dimostrando di seguire il racconto, pensando invece al suo compagno: "Questo è stato il mio primo uomo!" Con amarezza: "Non lo amo, proprio per niente, e qualche volta mi fa schifo! sembra esagerato a me stessa, ma è così, non posso farci niente: Odio questo suo parlare continuo e di cose insulse. Il corpo mi attrae, ma non sempre, qualche volta, quando si muove in certa maniera mi eccita, poi l'eccitazione improvvisamente si smorza e la sostituisce un senso di repulsione che non so spiegare."

"Amore ci sei? Non dovevamo andare a casa tua per un aperitivo?" A Rodolfo era improvvisamente venuto il dubbio che la donna non lo stesse ascoltando.

Liliana fermò la macchina davanti al bar centrale: "No," disse "scusami, ho cambiato idea, preferisco qui: è accogliente e con qualche tentazione in meno." Riguardo alla tentazione non c'era da preoccuparsi, Rodolfo aveva dato troppo a mezzogiorno e il recupero non era ancora avvenuto.

Durante la consumazione il giovane prese la mano di Liliana per stringerla in una carezza e la sentì inerte. In quella sensazione avvertì l'indifferenza di lei ed ebbe la certezza di non essere amato. Anzi fu certo di percepire sentimenti ostili, inspiegabili.

La donna si alzò di scatto, Il giovane, turbato, andò alla cassa per pagare il conto.

Si rimisero in macchina e Liliana partì a razzo. Si portò sulla strada che saliva per la collina, stretta e piena di curve. Giù c'era il mare. La costa cadeva verticalmente sull'acqua nera. La donna guidava in silenzio e senza cautele nell'affrontare le strette curve. Si sentiva lo stridere delle ruote. Il pericolo mortale che li lambiva suscitò in Liliana pensieri estremi che non rivelò al compagno.

Arrivarono in cima alla collina ad un'ora in cui sarebbe stato opportuno avviarsi per giungere in orario all'appuntamento di lavoro. Liliana si riafferrò alla realtà: "Andiamo caro, che è tardi. Guida tu per il ritorno."

"Posso venire conte? spesso si va in due dai clienti."

"Non ora, il dottor Ostillio aspetta solo me" rispose subito lei, preoccupata dell'offerta indesiderata del compagno. Rodolfo era ostinato, avrebbe voluto trascorrere la notte insieme a lei: "Possiamo allora fare un'altra cosa, ti vengo a prendere quando avrai finito, mi fai uno squillo e arrivo," aggiunse dopo una attimo di riflessione.

"Questa potrebbe essere un'idea sensata, ma non mi piace lo stesso: il saperti in mia attesa mi farebbe sentire vincolata. Rassegnati. Vai a letto. Ci rivedremo domani in ufficio." La donna gli diede il consiglio con un sorriso sornione. Rodolfo replicò con un mugugno. Rientrati in città il giovane non intese contraddire oltre la ragazza, fermò la macchina nel luogo a lui comodo e scese dopo averle dato un bacio, corrisposto con malcelata indifferenza; il giovane lo intuì dallo sguardo distratto di lei. Lui si allontanò con amarezza, lei partì.

Via Ariosto era una strada corta e larga, alberata da giovani aceri che alzavano diritti come aste i rami nel nero della sera. Il traffico scarso. Non essendovi negozi o uffici, la strada era deserta, infondo si intravedevano appena due ombre: il padrone e il cane, questo ben grosso. Su entrambi i lati erano state edificate delle palazzine, castelli urbani in miniatura, che solo parte delle loro strutture mostravano ai passanti, coperti dalla folta vegetazione, un rigoglio di foglie e rami di olmi, ontani, lecci e siepi profumate. Liliana parcheggiò davanti al cancello di ferro contrassegnato dal numero 28. Lo scatto che ne segnalò l'apertura elettrica fu secco e nitido. Percorse un lungo viale. Per arrivare alla porta di ingresso, in solido legno massello, bisognava salire sette scalini di pietra bianca. Entrò in un vasto salone con pavimento di marmo rosa. Verso la parete di fondo s'imponeva una scala pure di marmo ma bianco, che portava all'unico piano superiore. Pochi mobili d'antiquariato collocati con gusto in vari punti. Appeso alla parte di destra, tra due porte di mogano, un gigantesco televisore a cristalli liquidi. A semicerchio quattro divani rosa, ognuno a due posti erano collocati davanti al televisore.

L'imprenditore stava in piedi, davanti al divano centrale; su quello di fianco, seduta, c'era una giovane donna dai capelli castani lisci che le scivolavano sulle spalle e sul petto, dove coprivano in parte il seno che invece lasciava scoperto l'ampia scollatura del vestito. Liliana sembrò riconoscere quel volto bianco pallido e quello sguardo marrone, ma non riuscì in un primo momento a ricordare dove fosse avvenuto quel possibile primo incontro.

"Buona sera" disse intanto, senza smettere di scandagliare la memoria.

"Buona sera" rispose Ostillio, indicando all'ospite l'altro divano libero.

"Ha avuto difficoltà a trovare la casa?"

"Un po' si, per l'ubicazione della via. E' una zona molto tranquilla questa." Eppure, almeno in linea d'aria, non era molto lontana dalla sua villa, pensò Liliana. Infondo, se non fosse stato per una fila di grandi palazzi e per un lungo viale alberato che li separava, sembrava che abitassero di fronte e la distanza fra loro dipendeva dalla mancanza di strade trasversali.

"Ecco dove l'ho vista!" pensò subito dopo: "Al supermercato!...e i gemelli?" Liliana ricordò che la donna spingeva una carrozzella con due bambini dentro, di cui uno, nel vederla, s'era spaventato, scoppiando in un pianto sfrenato.

"Ah è la più tranquilla della città! Ci sembra di abitare in campagna per il silenzio e il verde che c'è intorno." Disse intanto Ostillio. "Le presento la mia compagna, Ivana."

Liliana salutò la donna che, mostrandole simpatia con un sorriso illuminato da splendidi denti, le offrì la mano bianca e minuscola; la sentì, Liliana,la mano più che morbida, molle e tiepida; provò uno strano piacere nel tenerla stretta nella sua più di un attimo. Poi scelse di sedere al fianco di lei, in mezzo ai due, contrariamente a quanto le aveva indicato l'uomo, rivolta al quale, aggrottando le sopracciglia, chiese: "Non siete sposati?"

"Non ancora!" Rispose lui, senza imbarazzo, "probabilmente lo faremo nel prossimo autunno. Abbiamo due gemelli per i quali è bene legalizzare la nostra convivenza, che durante questi cinque anni non ha mai avuto bisogno di atti burocratici". Alla parola "gemelli" Liliana era appena sobbalzata sul divano, riuscendo tuttavia a controllarsi ed esprimendosi in una breve e mormorata esclamazione di sorpresa. La sua supposizione aveva avuto conferma, quella era la donna del supermercato.

"E dove sono ora questi meravigliosi gemelli?" chiese con una leggera affettazione.

"Dormono finalmente, nella nostra camera da letto" disse Ivana senza dar segni di ricordarsi di lei.

"Si, poi le mostreremo tutta la casa" disse Ostillio.

"Devo vederla, anzi la devo avvisare che lo stato di convivenza crea qualche problema: la sua compagna non sarebbe erede di niente, lei mi capisce, signor Ostillio, facendo i debiti scongiuri, in caso di morte. Certo, aggiungendo qualche clausola ed alzando il premio si può aggiustare tutto.

Ostillio avvicinò la testa a quella di Liliana quasi a sfiorarla con le labbra e dicendole con tono morbido:

"Il discorso è chiaro e mi piace. Comunque, quando lei assume un atteggiamento professionale è ancora più seducente."

"Ostillio!" emise un grido, soffocato a stento, di rimprovero, Ivana, "è vero che la signorina è bella, ma farle la corte in mia presenza è il colmo!" Risero.

Il dialogo continuò fra l'imprenditore e l'assicuratrice.

"Bene. Ora se mi fa vedere il resto della casa potrò farmi un'idea più precisa del suo valore."

Ivana s'era già alzata, stirandosi sulle anche il vestito di lino celeste che a star seduta s'era ritirato facendo apparire due gambe ben rotonde, bianche e rosee.

"Venga, Liliana, la guido io, prima le mostro la cucina."

Entrarono in un breve corridoio soffusamente illuminato e dall'aria fresca e pulita.

Ostillio, che seguiva le donne, ci tenne a precisare che la cucina si trovava tra il soggiorno e l'esterno. Elegante fin troppo, illuminata da una infinità di punti luce, aveva al centro un ampio tavolo di marmo bianco con lunghissime venature di grigio e il bordo fatto d' una fascia di piccole screziature nere, come una larga cornice di suggestivo contrasto. Ostillio notò la meraviglia di Liliana e spiegò:

"Bello vero? E' l'opera unica mia. Il grosso tronco e i rami che sostengono il tavolo sono invece di cristallo.

"Allora deve essere fragile!" esclamò Liliana.

"Assolutamente no!"

"Forse non le piace." Insinuò Ivana che stava ancheggiando verso i pensili, straordinari per la luminosità che emanavano. Liliana ne sfiorò le superfici.

"Lisce eh! Vetro temperato, con le sagome floreali incise, funzionale, resistente, ma soprattutto luminoso.

"Si, veramente tutto molto bello e funzionale" ammise Liliana, che intanto s'era fermata ad osservare una vetrata che pigliava circa i tre quarti della parete di fondo. Il vetro era opacizzato e decorato con figure stilizzate.

"Presumo che dia sul giardino", disse Liliana indicandola con la mano.

Ivana, premendo leggermente su di una piccola leva fece scorrere quel pesante vetro e un quarto di esso sparì nella restante muro di destra. Apparve il giardino infatti, grande, diviso in ordinate aiuole e viali di ghiaia, che davano l'idea di un labirinto. Infondo si alzava il muro di cinta fatto di mattoni rossi, nel cui angolo sinistro era posto un altro cancello, due compatte e pesanti lastre di ferro, nere appena decorate con figure geometriche che portavano sul bordo superiore una fila di punte acuminate e minacciose. Anche il muro per tutta la lunghezza era sormontato da una fila di punte lanceolate in ferro.

"E' una fortezza!" esclamò Liliana

"E' per sentirmi le spalle al sicuro" affermò Ostillio.

Stavano fermi sulla soglia e Liliana respirava con voluttà l'aria fresca e profumata che veniva dal giardino; al suo fianco, Ivana indugiava a chiudere la vetrata.

Sul margine destro e a metà del largo viale che univa la cucina al cancello si ergeva un'ombra gigantesca e frastagliata, animata da un alito di vento che a tratti correva per l'aria, emettendo in quell'ombra un mormorio denso e cupo, intermittente. Liliana si fermò incantata a guardare quell'enorme massa nera, mentre soffi più forti di vento vi aprivano ferite di luce, guizzi che parevano occhi di fantasmi.

"E' il noce." La voce di Ivana era calda e dolce, pacata.

"Ed ha una triste storia" aggiunse Ostillio.

"Si? e perché?" chiese Liliana, sedotta da quei toni misteriosi.

"Quell'albero fu sradicato da una villa non lontana da qui, perché inerte testimone di una tragedia orribile."

Ostillio ignaro raccontò allora quegli eventi tanto familiari a Liliana che, pur annichilita dalla sorpresa, cercò con uno sforzo sovrumano di apparire indifferente.

"In quella villa viveva una famiglia di tre persone...anzi quattro, perché vi era nata anche una bambina di cui non si è saputo più nulla. La donna, madre anche di un bambino, afflitta da una terribile follia, andava sempre su quel noce, dove si dice che vedesse un mondo strano popolato da diavoli. Naturalmente queste sono dicerie, forse propalate dalla cameriera, sta di fatto che dopo aver ucciso il figlio di appena otto anni si impiccò a quell'albero." Liliana pensò alla povera Olga che non aveva mai parlato della assurdità dei diavoli. Ostillio intanto continuava:

"Il lutto non finì con la morte del bambino e della madre. Poco dopo anche il marito, che era architetto, morì in uno strano incidente automobilistico. Prima che quest'ultimo tragico fatto avvenisse, quel pover uomo ebbe l'intenzione di distruggere il noce, vedendovi appesa la moglie ogni volta che lo guardava. Ebbi da lui questa confidenza, durante uno dei frequenti incontri che avevamo in quel tempo. Io non ho credenze o fisime e quando vidi il noce pensai che sarebbe stato un altro crimine distruggerlo. Chiesi pertanto a quell'uomo, Francesco si chiamava, di poter traslocare la pianta nel mio giardino." Liliana fremeva all'unisono con l'albero, che ora il vento leggero agitava di continuo, con un rumore simile al lamento appena udibile di una lugubre e sommessa sinfonia. Ostillio riprese a parlare, dopo una breve pausa:

"L'idea di traslocare un albero maturo fu davvero strana, ma alla fine riuscimmo a caricarlo sul mezzo di trasporto. La chioma sovrastava la cabina del mezzo che appena si intravedeva tra i rami, le giovani foglie e i piccoli fiori penduli, lunghi e contorti, a guisa di corna di diavolo. Finalmente giunse in questo giardino che allora avevo incominciato a coltivare, e reimpiantato con tutte le cautele, come quelle che si usano con i bambini. Ora è lì che sembra vivo. Lo sente? Ha nella sua linfa una musica dolce che mi invita alla calma, che mi ispira pace..."

"Solo a lui ispira pace!" Ivana interruppe Ostillio, esprimendo subito il suo parere opposto: "Se ci fossi stato io in quel periodo sicuramente gli avrei impedito di fare una tale scempiaggine. E' un albero sinistro. Nella sua ombra sembrano adunarsi elementi negativi, nel suo tronco enorme sembrano dimorare spiriti sghignazzanti malignamente . Se gli si sta vicino si sentono spesso scricchiolii provenire dall'interno dei rami, come se vi abitassero folletti sempre in lite fra loro. E poi non posso guardarlo, per il pensiero che mi va ogni volta a quella donna che lo scelse per teatro della sua follia."

"In effetti ha un'aria minacciosa" balbettò finalmente Liliana, che fino ad allora non aveva trovato la forza di dire una parola; ora le sembrava di scorgere in quell'ombra il corpo oscillante della madre.

"Ha ragione Ivana" le disse Ostillio, "lei non c'era, non la conoscevo quando traslocai l'albero, ma ora dopo tutto il lavoro fatto, i soldi spesi e l'acqua per innaffiarlo non posso certo abbatterlo, proprio io che l'ho salvato!" E il tono dell'uomo era deciso. Ivana, senza far commenti, fece scivolare la porta di vetro chiudendo la vista del giardino, poi prese la mano della ragazza ch'era sempre immobile al suo fianco, la sentì fredda e rigida, ma ne attribuì la causa all'aria fresca della notte.

"Venga, Liliana, venga a rilassarsi un po' in soggiorno, beviamo qualcosa per rianimarci. Più tardi le mostrerò il piano di sopra." Ostillio rise, ironizzando sulla paura della compagna, ma seguì le donne. Liliana e l'imprenditore si accomodarono sui divani, la ragazza pallida e silenziosa ma apparentemente tranquilla. Ivana intanto versava nei bicchieri un liquore denso e marrone. Porgendo il bicchiere all'ospite le chiese con esitazione:

"Liliana, conosce la leggenda del noce di Benevento?"

"Ma dài, cosa vuoi raccontare!" Esclamò furibondo l'uomo che aveva appena incominciato a sorseggiare il liquore.

"Lui non crede a queste cose" Lo rimproverò tranquilla Ivana, "eppure inizia nel Medioevo, continua per secoli e arriva fino a noi, sempre identica, anzi più ricca di testimonianze e riscontri, la storia di quell'albero."

"Ecco, appunto nel Medioevo!" Su quell'epoca calcò la voce Ostillio, sempre irato.

"Anzi, per essere precisi, prima del Medioevo, verso la fine dell'impero romano." Aggiunse Ivana, convinta di dare più credibilità alla storia, adducendo a conforto lo scetticismo pragmatico dei latini."

Liliana, in mezzo ai due, non parlava, ancora sconvolta dalla visione dell'albero materno. Ascoltava distrattamente e con poco interesse la donna, anche perché, alla pari di Ostillio, non condivideva affatto quella fiducia nella tradizione esoterica, né mai aveva creduto nella presenza di forze occulte. Olga stessa, la nutrice, non le aveva mai parlato del noce come di un albero sinistro; il padre, inoltre, se n'era liberato solo per evitare alla propria immaginazione di vedere ogni volta il corpo della moglie pendere da quei rami.

Ivana al contrario, attratta dalle storie di streghe, aveva sempre letto avidamente libri sull'argomento e, in particolare, aveva approfondito la storia del noce di Benevento, paese il cui nome originario era Malevento, e ci doveva pur essere una ragione, pensava, per portare quel nome fino a quando i Romani lo mutarono in quello buono. E se nella voce del popolo c'è un fondamento di verità, anche in quelle storie, doveva esserci qualcosa..."parecchio di vero."

"Mi ascolti," disse la donna infervorata a Liliana: "si dice che il tronco del noce, quello di Benevento, fosse abitato da diavoli e che le streghe, di notte, andassero sulla collina dove cresceva, per adorare quegli esseri ed averne in cambio il dono della forza sovrumana. C'era tra le altre una strega, chiamata Matteuccia, che dall'Umbria, in volo, andava a Benevento per prendere parte al sabba, organizzato dalle sue colleghe..."

"Si, con il manico della scopa in mezzo alle gambe!" Esclamò a quel punto Ostillio ridendo grassamente.

"Zitto, miscredente!" Replicò Ivana, stizzita dal comportamento sarcastico del compagno, "ma stai attento, non si scherza con quelle forze. Deve sapere, Liliana, che nel tronco del noce, quello di Malevento, quando fu abbattuto, scoprirono una grande cavità, in cui trovarono numerose ossa di bambini e giovanotti. Il che mi fa pensare con orrore che quelle entità diaboliche chiedessero ed ottenessero sacrifici di giovani vite, in cambio dei loro straordinari servizi."

Fu a quel punto che nella mente di Liliana, per un'automatica associazione di ricordi più o meno analoghi, si affacciò l'immagine di Lilith trovata nella Bibbia della madre. "Forse la sua mente offuscata vedeva il corpo del figlio abitato da una entità diabolica che era sicura di abbattere con le forbici." Pensò la ragazza, cercando di trovare una giustificazione a quel terrificante omicidio: "Tutto il resto, il noce, il buio, il sabba, i diavoli, Lilith, non potevano essere altro che nozioni, veli culturali che adombrano la ragione, avvolgendola in un torpore sciagurato dal quale le fissazioni erompono con terribile violenza."

Liliana abbandonò quei pensieri e si preoccupò di risolvere il problema ora causato proprio dal noce. Ostillio conosceva il nome di suo padre. Ricordava tutta la storia, inclusa la presenza di una bambina svanita poi nel nulla. Sicuramente non gli sarebbe stato difficile collegarla a quelle vicende nonostante il differente cognome. Diffidava. Lei non aveva nessuna intenzione di rivelarsi, le ripugnava dire di essere la bambina sopravvissuta a quella tragedia familiare, e del resto questa rivelazione fatta dopo tanti anni avrebbe sicuramente fatto nascere il sospetto che anche la sua mente fosse malata.

"Per tornare tra persone normali, sulla polizza ci sarà anche la sua firma?" chiese Ostillio alla ragazza, che sul momento se ne uscì non senza paura.

"Nei giorni prossimi si studieranno le varie opzioni, poi il tutto sarà firmato dal nostro amministratore responsabile." Liliana pensò a Rodolfo e alla sua firma di agente. Certo, così a lui sarebbe andato anche il merito del contratto, ma non c'erano altre soluzioni.

Ivana si alzo, stirandosi ancora una volta il vestito sul corpo: "Andiamo in cucina per mangiare qualcosa?" chiese a Liliana e al compagno.

"Ho un po' di fame, ma non vorrei disturbare" rispose subito la ragazza.

"Beh! Non sperare in qualcosa di raffinato, posso offrire focacce, tramezzini, birra o vino, frutta e una crostata con marmellata di frutti di bosco. Le piace la lista?"

"Anche troppo! "

Tornarono quindi in cucina, dove Ivana pose sul grande tavolo di marmo tre tovagliette di plastica colorata, bicchieri e piatti di carta, nel forno a microonde le vivande da scaldare.

"Le focacce sono per il mio amore." Affermò la donna circondando l'uomo con un abbraccio.

"Venga, Liliana, un momento, le faccio vedere una meraviglia."

Si avvicinarono entrambe alla parete di destra della cucina, nell'angolo c'era una porta di vetro temperato come i mobili, e una maniglia robusta di acciaio satinato, che Ivana tirò aprendo quella porta. Apparve una enorme ghiacciaia con pareti ad altezza d'uomo, alle quali erano appoggiati scaffali coperti da candido ghiaccio e pieni di viveri di cui appena si riusciva ad individuare le sagome. La luce cadente dal soffitto riflessa da tutto quel bianco emanava un bagliore accecante

"Ci si può ibernare una intera famiglia e numerosa!" esclamò Liliana stupita dalle dimensioni di quel surgelatore.

"Confesso: è stato un mio stravagante desiderio. Mio padre era un macellaio all'ingrosso e aveva un frigorifero molto più grande."

In quel momento la chiamò Ostillio: "Ivana, forse si sono svegliati i bambini, li sento piangere."

"Ostillio pensa tu alla cena, io vado a vedere i tesorini." Se ne andò, chiudendo quel moderno igloo.

L'uomo aveva appena estratto dal forno gli alimenti, quando riapparve Ivana con i piccolo sistemati nella carrozzella. I due gemelli apparivano rosei, vispi e sorridenti. Poco dopo stranamente si ripeté la scena del supermercato: uno dei due piccoli statte immobile a fissarla, come immerso in una strana e impossibile riflessione, agitò quindi le manine e si esibì in un frenetico pianto. "Scommetto che è lo stesso dell'altra volta" pensò la ragazza.

La cena fu breve, altrettanto la visita al piano superiore, diviso in tre camere, uno studio e un altro bagno. Dopo gli ultimi convenevoli, Liliana uscì da quella casa. Fuori notò che le telecamere inquadravano il cancello, i viali d'accesso e quelli che giravano intorno al muro di cinta, ma non vedevano la porta d'ingresso. Era una lacuna pericolosa che occorreva far corregere al proprietario. Si sentiva stanca, salì in macchina e si avviò senza fretta verso casa. Cedette al flusso di depressione, scivolando come in un tiepido liquido, abbandonato il sempre vigile autocontrollo. L'immaginazione, ora senza freni, le riportò la sagoma del noce con la chioma rotonda e vasta, il grosso tronco; ne percepiva ancora il sommesso dialogo delle foglie, come di pettegole. Poi, gli occhi feriti dai bagliori dei fari delle macchine che incrociava, si riprese, pensò che l'indomani avrebbe definito i dettagli del contratto e che l'avrebbe quindi passato a Rodolfo affinché fosse questi a proseguire il rapporto col principale della ditta Plurivetro. Lei non poteva più continuare a svolgere quel compito: con radici tentacolari i fatti dolorosi dell'infanzia erano penetrati nella sua vita attuale, nonostante avesse sempre nascosto con ferrea ostinazione le sue origini. Si sentiva vinta e frustata.

Arrivò alla sua villa e fu subito presa da un piacevole stupore, misto a contrarietà. La macchina ferma davanti al cancello e che le impediva di entrare era quella di Rodolfo. Il giovane l'aveva aspettata fino a quell'ora. Liliana gli segnalò con i fari l'arrivo ed aprì il cancello col telecomando. Entrarono insieme e parcheggiarono davanti alla porta a vetri.

"Adesso mi dirai tutto su come e dove sei stata finora" chiese Rodolfo appena sceso dalla vettura, senza nascondere il tono scherzoso, consapevole di non aver ancora titoli per esigere qualcosa di serio dalla donna.

"Ma se ti dico la verità, mi crederai?"

"Certo, ho cieca fiducia in te."

"Sono stata finora dai Plurivetro."

"Cioè con quel principale giovane e avvenente?" Rodolfo stava quasi per tremare.

"Si, e con la sua compagna che sicuramente è più avvenente di lui ed ha un carattere molto più interessante. Verso la fine della serata ho poi avuto il piacere di conoscere i loro due gemelli e allora ho scoperto di essere antipatica ad uno dei due, quale non so: sono troppo somiglianti."

"Comunque è quello più intelligente, perché ti ha subito riconosciuta per una donna cattiva."

Liliana lasciò cadere nel silenzio l'accusa scherzosa di Rodolfo. Nel frattempo erano entrati nel soggiorno e Liliana già si organizzava per andare a dormire. Aveva infatti con poche mosse trasformato il divano in un ampio letto, e aveva chiesto a Rodolfo quando si sarebbe deciso a liberarle la casa. Il giovane le si avvicinò, divenuto dolce e caldo, le accarezzo i capelli. Morbidi se li avvolse intorno alla mano e la strinse a sé, mormorando: "Perché credi sia stato al buio finora? Non merito un premio?" Liliana non rifiutò il bacio e neppure il resto, di cui quello era solo l'esplicito inizio.

L'amore, questa volta, fu meno tempestoso, sembrava essere stato preparato dal primo. Eppure, durante l'amplesso, la mente di Liliana sembrava illuminata da fiamme guizzanti e il loro frastagliato apice era come se emettesse suoni articolati in strane parole o lamenti o singhiozzi imploranti aiuto; verso la fine udì distintamente quelle invocazioni trasformarsi in una voce fanciullesca. Doveva essere quella di Roberto, il fratellino, che la chiamava, la supplicava di aiutarlo, ma che lei era troppo piccola, era appena arrivata dal nulla, proprio in quel nulla dove lui ora aveva il terrore di andare. Non riuscì ad avere l'orgasmo. Lo finse per liberarsi di Rodolfo, di cui e del cui atto ora sentiva nausea. Si alzò e si andò a lavare. Tornata a letto si coricò su un fianco volgendo le spalle all'uomo e in silenzio cercò di dormire, riuscendoci. Rodolfo nuotava in un piacere morbido e caldo. Era così convinto che quel suo piacere fosse condiviso da non avvertire affatto la freddezza di lei. Stette lungo tempo così rilassato nel letto, lasciandosi cullare dal respiro regolare di Liliana, godendo di sentirla così raccolta al suo fianco. Era convinto che non sarebbe stato sempre felice con lei, per quei caratteri che avevano diversi, sempre in conflitto, con la personalità di lei contraddittoria, spesso falsa. Nonostante tutto questo l'amava.

Si alzò lentamente in pigiama per andare in cucina, a bere. Nel frigorifero trovò una bottiglia d'aranciata, quella di vetro col tappo a corona. Cercò il cavatappi, aprendo cassetti e pensili. Alla fine forzò anche l'unico cassetto chiuso a chiave. Ficcando le mani in cerca dell'utensile trovò la busta azzurra che Liliana vi aveva nascosta quasi con angosciante paura . Sopraffatto da una inspiegabile curiosità la aprì e gli apparve subito la fotografia della donna pendente dal ramo del noce. Il suo sguardo indugiò su quell'immagine attratto da qualcosa di familiare. Si concentrò sui dettagli, fino a scoprire l'elemento che lo aveva colpito, lo spigolo destro della costruzione, appena nascosto dal tiglio, era uguale a quello della casa in cui si trovava. C'era la stessa sbrecciatura sul filo del muro. Si accese nella sua mente il sospetto: avvicinò agli occhi il giornale per decifrare la didascalia. La stampa era ormai quasi illeggibile, ma lentamente il giovane riuscì a decifrarla mentre l'orrore gli cresceva dentro. Poi lesse gli altri articoli. Alla fine la certezza lo fulminò: la bambina di pochi mesi chiamata Liliana, abbandonata dalla madre che s'era impiccata dopo aver ucciso il figlio, era la donna che stava di là sul letto e che lui amava.

Un lungo e largo coltello gli penetrò dalla spalla sinistra sino al cuore. Ebbe alcuni attimi per l'ultima sorpresa, poi cadde, morto.

Liliana, ora che guardava l'uomo steso a terra e il suo sangue che si slargava, si sentì tranquilla. Non provava nessuna particolare emozione, l'assassinio le era stato semplice e normale, l'istintiva rimozione di un ostacolo, come una pietra, dal proprio cammino. Restò ancora qualche momento a guardare il cadavere, poi si mosse, prese dal mobile fogli di carta assorbente ed incominciò ad asciugare il sangue versato sul pavimento, quindi tamponò la ferita di Rodolfo con altra carta, prese il corpo dai piedi e lo trascinò fino alla sua macchina, puntellò il torace contro il paraurti e catapultò il giovane nel bagagliaio. Chiuse la macchina, pulì tutto, risistemò la ghiaia del viale eliminando la traccia del trascinamento, pulì il pavimento, sempre concentrata su ogni più piccolo dettaglio; si fece la doccia, indossò una bianca camicia da notte e si sedette su una poltrona davanti alla vetrata. Da lì, ora pensava, avrebbe potuto guardare il noce, se ci fosse stato ancora. Forse su quella sedia stava seduta Olga, quando guardava il corpo penzolante della madre.

Trascorse senza altri cambiamenti il resto della notte.

A mattino inoltrato, Liliana smise di guardare il giardino, si alzò e si vestì per uscire. Prima nascose la macchina di Rodolfo sul retro della casa, tra il folto di cespugli e siepi, poi entrò nella sua e andò in ufficio senza pensare al carico che portava. Altri pensieri ora occupavano la sua mente. Arrivata in azienda, attraversò gli spazi fra i tavoli incurante degli sguardi curiosi del colleghi. Si tolse il giubbino nero e si sedette alla sua scrivania. Stette un tempo indefinibile a guardare in una cartella, poi fissò a lungo il telefono, infine ne prese la cornetta, chiamando la ditta Plurivetro. Le risposero che il principale non era ancora arrivato, chiamò allora subito a casa ed ebbe in risposta la voce di Ivana.

"Forse la disturbo a quest'ora" attaccò subito Liliana, "ma il nostro amministratore deve partire oggi per una conferenza in America, dove si fermerà per più di una settimana. Per chiudere il contratto è indispensabile che veniate subito, lei e il signor Ostillio, per la firma. Io vi consiglio di fare questo piccolo sacrificio, perché le condizioni economiche fra una settimana saranno sicuramente diverse, purtroppo."

"Ma signorina Liliana, ho i piccoli che dormono, mi dispiace svegliarli."

"Mi offro io, se lei ha fiducia, io vengo lì e la sostituisco per tutto il tempo che rimarrà fuori. Non si preoccupi, per me sarà un grande piacere. Spero solo che durante la sua assenza non si svegli proprio il piccolo a cui sono antipatica, dato che appena mi ha vista si è messo a piangere."

 

 

 

"Ma non scherzi, Liliana, pensi che quasi è più buono dell'altro. Un momento che chiedo ad Ostillio se è d'accordo." Si sentì un parlottìo, breve perché Ivana rispose subito, dicendo alla ragazza che l'avrebbero aspettata. Chiese solo per precauzione: "Ma dovremo fermarci per molto tempo lì da voi?"

"Assolutamente no, è questione solo di mettere un po' di firme!" poi aggiunse: "Dovrei arrivare da voi fra una mezz'ora." E ripose il telefono. Lo sguardo di lei andò alla scrivania davanti, vuota e pulita. Rodolfo azzerava sempre il lavoro e puliva il tavolo prima di andar via; gli piaceva l'ordine e la pulizia. La sua assenza non destava curiosità perché anche lui a volte era in visita ai clienti più importanti. Liliana lo immaginò improvvisamente davanti, le spalle curve sul tavolo, la nuca robusta e rossa; gli vide girare la testa e guardarla con i grandi occhi, sorridente.

"Che diavolo vuole questo qui!" si disse e si alzò, i clienti l'aspettavano, non poteva tardare.

Quando arrivò a casa dell'imprenditore, trovò la coppia già pronta. Infatti Ivana le diede solo poche informazioni su come comportarsi se i bambini si fossero svegliati e partirono.

Liliana appena rimasta sola, percorrendo i larghi viali di ghiaia, portò la macchina sul retro della casa e manovrò in modo da avvicinarla il più possibile a quella porta di vetro che aveva visto la sera precedente. A piedi ritornò sul davanti e dopo essersi pulite le scarpe entrò, andando in cucina. Qui l'assalì un forte odore di caffè che svegliò in lei l'acuto desiderio di berne, ma si frenò. Aprì la porta e si avvicinò al bagagliaio della macchina, ne tirò fuori, ancora con più fatica, il cadavere di Rodolfo. Con gli occhi ancora aperti sembrava che la osservasse e deridesse. Caduto finalmente a terra il cadavere, la ragazza lo trascinò in cucina fino davanti alla porta della ghiacciaia. Aprì la porta e vi entrò fremendo al freddo secco e tagliente. Con un ultimo sforzo portò Rodolfo nel fondo, lasciandolo steso fra due scaffali. Presto il ghiaccio l'avrebbe coperto d'un bianco involucro, sarebbe diventato irriconoscibile.

La ragazza riportò la macchina dove l'aveva parcheggiata all'arrivo, poi stanca e tremante, tornò nel soggiorno e s'era appena sistemata sul divano in attesa dei padroni di casa, quando udì un lamento provenire dal piano di sopra. Le parve di sentire un suono strano, anzi una voce, poi un singhiozzo, e di nuovo una voce indecifrabile, quasi una invocazione piagnocolosa. Liliana si diresse verso la scala di marmo e salì. Percorse il corridoio illuminato dalla luce del giorno velata da bianche tende alle finestre che oscillavano come fantasmi. La voce ora era distinta, dolce e sorridente. Proveniva dalla camera la cui porta aperta era proprio davanti a lei; vi entrò, si avvicinò ad un lettino bordato di vivaci colori, si piegò su di esso e si sentì improvvisamente osservata da due grandi occhi rossi. Due braccine si tesero, supplichevoli. Lei prese delicatamente quel caldo corpo e se lo strinse al seno.

"Come sei calda, mamma!" Liliana sentì chiaramente queste parole e si commosse. Scese di sotto, attraversò la cucina e si diresse in giardino. Andò a sedersi sul muricciolo che si trovava sotto la chioma del noce e iniziò a mormorare una nenia, accompagnata dall'ondeggiare delle ginocchia con cui cullava il piccolo corpo.

Così la trovarono Ivana ed Ostillio al loro rientro, offesi ed irati per l'inutile viaggio.

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