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La ragazza del mercato
di Luigi Panzardi
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Da corso Matteotti, elegante, con le vetrine scintillanti e l'aria addolcita dai profumi dei caffé, si può accedere, volendo, ad una traversa, la via del mercato. Dentro di questa la prima sensazione che ci afferra è di stupore, assalita subito da un profondo ribrezzo. Non si capisce come sia possibile che una simile fetida e bizzarra esposizione di mercanzia possa allignare nei pressi dell'aristocratico centro cittadino. Sconnesse bancarelle in doppia fila ondeggiano e costringono una folla che al novello malcapitato appare corrucciata e minacciosa. Gli odori diffusi nell'aria sono sgradevoli, di sporcizia corporale, sudore, flatulenza e muffa pervasa d'intingoli indefinibili. Astrusi schiamazzi viaggiano per l'aria insieme a quei sentori, s'imbevono di essi e si fissano nella memoria come incubi persistenti. Dal vociare indistinto emergono con prepotenza e si accavallano ordini diretti alla folla di fermarsi per annusare, toccare ed acquistare la merce. Quell'umanità sembra un fiume sordo, da cui spesso si staccano rivoli che si fermano e cedono agli inviti urlati, acquistano e rientrano a fatica e spintoni nel grasso alveo.

Federica ha quindici anni ed è bionda, ha i capelli corti. Non è molto bella, è bassa di statura e soffre di pinguedine. Sicuramente ha dei graziosi taralli di grasso intorno alla vita, s'intravedono sotto la maglietta celeste tempestata di scritte inglesi. Il sedere pare sodo e grosso sotto i pantaloni jeans scoloriti e stretti. Anche il suo volto, bianco e roseo, è accigliato, ma si dilata in sorrisi furbeschi quando saluta i mercanti come se fossero suoi vecchi amici. Passa da una bancarella all'altra fendendo la folla, quasi volando, finché si ferma davanti ad un altro vicolo, più stretto, trasversale, da formare un angolo retto con la via del mercato; si trattiene con la mano sinistra alla fune che tende il telo sovrastante la bancarella, scruta nel vicolo per pochi secondi, poi vi entra.

Dalla fila opposta di quei negozi traballanti si muove un uomo. E' basso e tozzo, la barba nera di molti giorni gli fa irsuto il volto, i cespugli di peli intorno agli occhi e i capelli ricci e neri sulla bassa fronte gli attribuiscono già al primo sguardo il marchio del malvivente. Si muove a scatti. Come se i muscoli in attrito delle cosce gli impedissero di muovere le gambe.

Il vicolo è cieco. Infondo, a chiudere due brevi file di case decrepite, c'è una enorme facciata scura d'un antico palazzo nobiliare, ora fatiscente. Due finestre dell'ala sinisra sono murate, orbe. Il portone è sbarrato da marce tavole di legno, delle quali due sono messe in croce con l'incarico di tener unite e ferme le altre. Nell'angolo inferiore destro di quella croce c'è un varco nero. Federica lo attraversa ed entra in un buio denso di umido e muffa. A destra e a sinistra si distinguono a malapena le sagome di due immensi archi ai cui piedi c'è l'accenno di altrettante marmoree scalinate.

Vien voglia di pensare alle antiche famiglie che vi abitarono, ai servi in rosse livree con i candelabri ad illuminare le volte stuccate nei giorni di festa, ai nobili arroganti ed incipriati che posavano i preziosi piedi sui gradini di lucido marmo.

In quel posto entra anche l'uomo dalla barba incolta, a tastoni preleva da una buca nel muro delle bustine bianche, si avvicina a Federica che spiega una sacca di tela, l'allarga e la tende all'uomo.

“Una, due, tre...” La voce di lui dolce e paterna stride col corpo:

“Fede, alle prime tre bancarelle, dieci a testa, poi vieni per un altro giro...Come sta?” Insieme alla domanda gira la testa verso il fondo del portone, buio come se fosse il principio del nulla.

“Come sempre.” Risponde la ragazza con un gesto di gratitudine e di rassegnazione.

“Vai ora, ti aspetto!” E l'uomo dà un buffetto affettuoso alla guancia della ragazza che torna nella via del mercato.

Quando Federica arriva alle prime tre bancarelle, c'è già la fila. Le donne, in attesa della polvere bianca, sono inconfondibili per il trucco vistoso, le labbra rosso smagliante, i capelli ben curati da abili parrucchieri.

La ragazza si ferma, aspetta il segnale dall'ambulante, quindi insieme si appartano dietro ai furgoni e lì avviene la reciproca consegna della merce e del denaro. Nessun controllo: tutti sanno la crudeltà con cui viene punito lo sgarro e nessuno quindi osa rubare al ladro.

Altri quattro giri compie la ragazza, tutti uguali, con una esecuzione meccanica, salvo il solito scambio di sorrisi caldo e sincero.

L'uomo che intanto rimane solo nel buio ad aspettarla, fissa il fondo, scuote la testa, ma non si muove.

Al ritorno dall'ultimo giro, Federica, oltre al denaro, porta tanti sacchetti della spesa che a stento sostiene con entrambe le mani. L'uomo le chiede:

“Ti aiuto?”

“No! Sai che è vietato.”

Federica, sola, quasi piegata dal peso delle borse, s'inoltra nel buio di un enorme diaframma. Nell'attraversarlo, ogni volta ha paura, le si stringe la gola, come se un palpabile ignoto la soffocasse. Il groppo si dissolve quando il suo corpo urta il solido di un muro e di una porta, contro cui sbatte il piede tre volte e che finalmente si apre. Il volto rugoso e serio della madre Zita le placa le ultime palpitazioni.

“E' arrivata Federica, barone Alfonso!” Grida la donna, volgendosi indietro, verso chi dell'uomo conserva ancora una figura incerta.

 

Il barone Alfonso, così lo chiamano tutti i familiari, s'era sempre detto che discendesse da una nobile famiglia, che suo nonno fosse stato adottato addirittura dal conte di Bari, Pasquale dei Borbone di Spagna, adozione forse veramente avvenuta, anche se poi annullata, il che aveva fatto rientrare l'avolo tra i ranghi dei comuni mortali.

Fatto sta che il comunemente detto barone Alfonso si era in breve tempo misteriosamente arricchito e tanto da fare invidia ai veri aristocratici. I denari carpiti convertiti in immobili intestati a famigli. Purtroppo, nonostante le sue fortune, a cinquant'anni fu colpito da un ictus che gli devastò il fisico. Gli rimase paralizzata l'intera parte sinistra del corpo, ch'era già magro più di un filo. Altre dolorose e grottesche conseguenze di quel colpo furono la bocca perennemente aperta, ma senza un grido, così, aperta col buio dentro e basta, e gli occhi fissi e senza espressione, come quelli di un barbagianni, alla cui testa ormai somigliava molto la sua. Così da un decennio se ne stava seduto su una sedia a rotelle, pelle ed ossa, pronto a morire ma finora vivo, nel suo ultimo disperato rifugio.

Zita era stata la sua amante. Ora l'accudiva con devozione. Il barone Alfonso s'era fin da ragazzo dedicato con testardaggine, spesso crudele e sanguinaria, alla organizzazione di una numerosa e fedelissima famiglia, con la quale spremeva, simile a ruote di frantoio, gli abitanti del grande e vecchio centro cittadino.

Da quell'antro oltre ogni mondo, inflessibile feudatario, regnava sul quartiere. Le sue leggi assolute erano accettate da tutti gli sgherri, rispettate e soprattutto fatte rispettare: aveva costruito una meravigliosa macchina produttrice d'ingenti ricchezze, che ora funzionava autonomamente. Ogni parte di questa macchina aveva notizie, per trasmissione orale, dell'esistenza e delle volontà del barone Alfonso, il capo, intangibile ed invisibile, del quale nessuno più sapeva dove si nascondesse. Persino all'unico uomo, quell'irsuto cui era permesso entrare nel portone, non era concesso violare il diaframma oscuro, l'antinferno, una sorta di spazio nero immisurabile, dopo il quale, separato da un ruvido compatto muro, che il buio perfetto rendeva al tatto infinito, si apriva l'aldilà nel quale il barone e Zita vivevano la loro straordinaria vita.

 

Federica era figlia di Zita e del primo marito di costei, morto poco dopo la nascita della bambina durante una feroce sparatoria contro la polizia. Era cresciuta tra il silenzio melmoso di quel limbo e il frastuono caotico del mercato, adottata virtualmente dal barone, coccolata da tutti i familiari. Da un mese circa aveva conosciuto Rosario che s'era innamorato di lei appena l'aveva vista: le era caduto un giorno un pugno di quelle bustine bianche e Rosario, che le si trovava per caso dietro e la stava ammirando, fu lesto a raccoglierle ed a restituirgliele, senza capire sul momento perchè la ragazza l'avesse guardato con occhi atterriti, anziché di gratitudine. Un attimo, poi il viso ingenuo e bello del ragazzo, bruno, sorridente, sciolsero nella ragazza la diffidenza e fecero amicizia. Restarano insieme quel giorno alcune ore, nonostante i tanti sguardi contrariati che da dentro la folla li osservavano con attenta diffidenza.

Presto Federica fu contagiata dall'amore di Rosario e il desiderio di incontrarlo, di parlargli e di sentire il caldo contatto del suo corpo diventò irresistibile. Lo introdusse nel vuoto buio il pomeriggio, quando le bancarelle lungo la via del mercato erano solo mucchi di legna accatastata in una desolata solitudine. Rosario muovendosi furtivamente tra quel nudo grigio di stanghe arrivava al portone del vicolo, vi entrava attraverso il varco e sbatteva contro Federica che se lo trascinava come in un abisso. Il nero denso del buio aveva uno strano potere, scioglieva nei due ragazzi ogni freno, solleticava e accendeva i loro sensi e li gettava in una bramosia frenetica, infuocata, senza che una parola emergesse da quella brace; c'erano solo carezze ardenti come tizzoni che frusciavano dolcemente sulla pelle soda e giovane.

Zita li scoprì.

Il sospetto le era venuto dall'osservare l'aria che l'amore diffondeva per il volto della ragazza, che ora spesso s'arrossiva, come per un segreto inviolabile che le scaldava il cuore.

Fu un momento, un sospiro. In un attimo dal buio vuoto le fu sottratto Rosario, come improvvisamente una raffica di vento disperde poche foglie. Federica si sentì spinta nell'antro, si trovò al cospetto del barone che teneva il volto terribile diritto verso di lei. Nel torbido silenzio della figura mostruosa lesse il rimprovero e la minaccia. La ragazza lo guardò terrorizzata, sciolta d'ogni forza.

Zita le si accostò dicendo:

“Va! Alfio ti aspetta nel portone.”

Federica uscì quasi sollevata, forse la famiglia l'avrebbe perdonata. Per la prima volta sorrise all'uomo irsuto, poi riprese ad ancheggiare tra le bancarelle del mercato.

Di Rosario nessuno più ebbe notizie.

© Luigi Panzardi





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