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Accelerazione dei tempi
di Fabio Martello
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Ora che non so più bene chi io sia – e voi, chi dite chi io sia?, il figlio vero, il figlio apocrifo, un suo mandante o mandatario folle od invasato, un istrione fallito e dimenticato, un povero mentecatto, tutte queste ed altre cose insieme? -, anche se, per vero, un poco posso, un poco posso immaginarlo, ora che mi vedo costretto a dubitare di tutto e di tutti, di me, di voi, di lui (di Lui?), e a non dover più fingere un’eroica umanità che giustifichi o camuffi questi miei dolori – più tardi, lo so, lo sappiamo, lancinanti ferite mortali – chiedo a tutti voi di aiutarmi, di venirmi incontro; se potete, se volete. Di prestarmi il dovuto soccorso morale con il vostro indiviso pensiero, con il vostro echeggiante ed indiscusso grido di condanna, dal quale, ne sono certo, nessun equivoco può di sicuro venire. Chiedo alla vostra assordante acclamazione, che mi giunge ormai come una filmica ed incantata ripetizione (un timbro sonoro d’altri tempi, il vostro, e con un’estetica, posso finalmente dirlo?, decisamente de-mo-dè), di finire qui il suo fin troppo indugiante e prodromico ruolo, di abbreviare i tempi, di arrivare ordunque al dunque, di farla finita. Sono divorato dalla fretta, per non dire ansia, per non dire angoscia: vi invito, vi esorto a bruciare le tappe del mio destino (del vostro, destino), ma vorrei dire a bruciare il mio e vostro destino, ad accelerare i sanguigni empiti del vostro contagio mimetico. Se il vostro problema è la timidezza, o se più tecnicamente il punto di esplosione della canettiana massa che inconsapevolmente rappresentate – sì, che vi piaccia o meno, voi siete una massa - è ancora di là da venire, rivolgetevi pure ad altri, all’autorità, per dire, chè non si sbaglia mai con l’autorità, statene pur certi, intercedete presso l’autorità affinchè non la tiri per le lunghe, essa stessa autorità, affinchè prevenga o tronchi sul nascere ogni aspettativa teatraleggiante che sento ormai nell’aria, irreparabilmente, pregate l’autorità di prevenire o troncare  sul nascere le vetuste cerimonie di un addio o di un arrivederci schernevole e melodrammatico, i doverosi ed impiegatizi omaggi al Risibile Martirizzato: non credo, e del resto non lo voglio proprio, di meritare tutto questo. Lo dico per vostra opportuna conoscenza antropologica: ogni ritualità della crocifissione, alla fine, dopo un tempo tecnico di maturazione sociale letterario religioso ed insomma culturale che non è dato sul momento di sapere, non porta, alla fine, che alla glorificazione del crocifisso. Ve lo posso quasi garantire. Almeno su questo datemi retta. No, vedo che non mi ascoltate, le vostre sono le grida del pubblico che ha ormai pagato il biglietto e che farebbe un pandemonio se gli si negasse la visione dello spettacolo. E va bene, non vi rivolgete alle autorità, allora, continuate a fare di testa vostra. Ritiro tranquillamente il mio consiglio, mi rimangio la parola, quantunque della parola dovrei avere il massimo rispetto, poiché alla parola pare mi leghi un vincolo piuttosto impegnativo, un contratto non più rescindibile: lasciate perdere ogni verdetto, allora, il plateale ed accidioso ingresso della legge – davvero vi aspettereste dalla legge un responso che non sia il cavilloso compromesso tra le ragioni del bene e le ragioni del male? Davvero? Fatevela da voi, la legge. Smettetela di gridare, di invocare l’agognato martirio sul monte, e passate subito al dunque, non ponete altro tempo in mezzo: riempite quelle mani così vuote, raccattate qualsiasi cosa da terra e lanciatemela, anzi scagliatemela, con tutto l’astio di cui vi so e vi vedo capaci, riesco a vedere io delle pietre, da qui, sassi, o quelli che sono, come potete non vederli, voi, da lì, devo additarveli io i provvidenziali oggetti contundenti? Non fate complimenti, guardatevi attorno e qualcosa di buono lo troverete, va bene tutto, purchè pesante, naturalmente, e puntiforme, e fatale. Naturalmente. E non temiate le reazioni dei vigilanti, delle statuarie guardie appostate alle mie spalle: sotto le armature non ci sono che poveri cristi al lavoro, tragici e meschini padri di famiglia costretti a questa farsa soltanto per danaro, naturalmente, molto più simili a voi, questi poveri uomini, che all’autorità che devono loro malgrado rappresentare. E non crediate all’inappellabile  destinalità del potere, il potere spesso non aspetta che un cenno della folla, una sua inerziale scoreggia per legittimare decisioni difficili, coraggiose, per nulla ortodosse, più irrituali che rituali. Credetemi, se avete fede, o cuore, o meglio ancora avventatezza, una fideistica avventatezza, oggi siete voi il governo cieco e totalitario di questa piazza, e non solo di questa piazza, ma di questa regione, e non solo di questa regione, ma di questo mondo, e non solo di questo mondo, ma di un altro mondo, oggi siete voi i tutori di questo tempo, e non solo di questo tempo, ma di tutti i tempi, oggi potreste qualsiasi cosa sugli uomini schiavi del loro proprio potere temporale, non aspettano, costoro, non aspettano altro che il verdetto dei vostri più insani ed urgenti umori. Non fate complimenti, salite pure sul palco. Aggreditemi. Picchiatemi. Flagellatemi. Ma qui, qui ed ora, senza aspettare oltre. Sono, come potrei dirvi, stanco, molto stanco, ed estenuato, logorato. So che non ce la farei a prolungare oltre l’attesa, che la salita con la croce sulle spalle dura fatica, sfinisce, che è già essa stessa l’iniquo ed interminabile anticipo della morte – una morte che sento non potrà mai essere, almeno per me, veramente tale, ma il perpetuo ed allucinato ricordo della morte, magari di tante, di altre, innumeri  morti. Fatemi morire qui, come un uomo; senza tante sfilate e spettacolini circensi. Datemi questa possibilità, fatela finita adesso – a-des-so -, prima che si attivino le scenografiche regìe di serie B, ma che dico di serie B, di serie Z, le rutilanti messe in scena che, lo so, lo presumo (lo ricordo), mi futteranno alla fine (alla fine?) la non richiesta medaglia del vincitore, del liberatore, del salvatore. Del mondo. Posso oltretutto accampare un’argomentazione di ordine estetico o filologico, se volete, non credo che risulterei granchè credibile in questa discinta veste del redentore, ogni redentore che si dica tale deve reggere la parte, teatralmente parlando deve aggredire il pubblico, soggiogarlo, tenerlo in pugno, sempre teatralmente parlando farne strame, del pubblico, mentre io quale aggressione volete che vi perpetri, a quale giogo volete che vi stringa, non ho come potete notare alcun carisma, divento rosso facilmente, la balbuzie in questi casi si impadronisce della mia fluente ma timorosa favella, affiora definitivamente la mia inconsistenza recitativa, un cane, potrei e dovrei finanche dire, uno squallido cane da paesana compagnia amatoriale, la più caustica ed irriverente critica dapprima mi stroncherebbe e poi mi ignorerebbe, definitivamente, dovevo dedicarmi ad altro, mi dice, la critica, la terra, ad esempio, vai a zappare la terra, in giro ce n’è tanta. Uccidetemi a freddo, come il ladro più efferato uccide il viandante per strada. Vi ricordo che anche voi siete dei ladri, del resto, ladri di giustizia, di pace, di divino, tant’è che se sono qui è perché mi hanno mandato a recuperarvi la giustizia, la pace, il divino: per voi, certo, poiché non eravate in grado, voi, da soli, di rubarle, tutte queste cose. Avevate, almeno così mi è stato notarilmente riferito, bisogno di una mano esperta in queste cose. E più di una mano una parola, un verbo.  Per inciso puntualizzo che non mi ha mai appassionato granchè questo nobile furto, questo incarico di portata epocale. Me ne sarei stato, io per me, ben volentieri dov’ero, posto che io fossi per davvero in un qualche dove, in un qualche tempo, posto che per davvero io fossi io, e non qualcuno o qualcos’altro, oppure nessuno. Abbreviate quest’attesa non foss’altro perché ogni attesa alimenta le fantasticherie più suggestive, ma anche le più cupe, le più realistiche, tanto che alla fine la fantasticheria più fantastica diventa realtà, una realtà percorsa da dolori che non possiamo più distinguere dai dolori nominalmente reali. Aiutatemi a prevenire questa transizione dandomi il brivido, finchè potrà durare,  di una fine brutale ed improvvisa, un colpo che si scaglia e zacchete, nel-corso-di-un’acclamazione-all’improvviso-silenzio-e-qualcuno-(il-sottoscritto)-muore-senza-appello-stop-fine-e-così-sia. Amen. Non temo affatto la morte improvvisa, se è questo a farvi indugiare. Ho già provato, ve lo voglio confessare, a morire subitaneamente, d’amblai, senza tanti preamboli, ho fatto le prove, sapete, ve lo giuro, a casa mia, da piccolo, per gioco, mimando credibili trafitture ad opera degli attrezzi di lavoro che rubavo ad un altro mio padre, un padre decisamente più secolare dell’altro, ma decisamente meno pretenzioso, od ambizioso, i quali attrezzi divenivano a poco a poco armi letali, le armi del delitto non dirò del secolo, ma dei secoli dei secoli. Alla fine morivo, e con me il mondo, irrimediabilmente. A volte sospetto che quei giochi non fossero del tutto giochi, a volte sospetto che quelli costituissero piuttosto le mie prime seriose morti, le prime di una lunga serie che la storia, quando sincera quando fedifraga, si incaricherà di attribuirmi nel tempo. Ma non vedo nessuna di quelle mie suggestive e realistiche armi d’infanzia, qui con voi, adesso, e non capisco, sinceramente, non capisco sinceramente perché. Mentre acclamate a tutta forza il nome  del premiato della lotteria pilatesca, acclamazione che rende sempre più improbabile l’esaudimento del mio disperato desiderio, io tuttavia non demordo, non intendo cedere affatto, e vi ribadisco che sarei pronto a schiattare, a voi piacendo, qui ed ora, su questo memorabile proscenio, una pugnalata e via, oppure una sassata in volto, o l’audace strangolamento ad opera di un qualche esibizionista che voglia salire sul palco per torcermi il collo con scientifici tempi  tragicomici, prego signori, salgano, salgano pure su codesto palco, senza complimenti, prego, lorsignori, venghino signori venghino. Uccidetemi, adesso, subito, altrimenti sarò io a farlo, a togliermi di torno, a buttarmi giù da questo palco, a contraffare la missione suprema, a tradire il grande ed ineguagliato proposito. Potrei farlo, sapete, e come no, un tuffo, proprio in mezzo a voi, tra la folla urlante e terribile, oplà, un salto tra mani braccia muscoli che si contorcono facendosi sorprendere, giacchè quel salto improvviso non doveva prodursi, non era previsto, tant’è che non ci si crede ancora, il condannato doveva rimanere lì, inerte, sul palco, a rimuginare l’irrevocabile giudizio del popolo: e a prepararsi per la laboriosa e melodrammatica salita al Golgota. Cosa ci farebbe mai sopra le nostre teste questo condannato, questo destinato alla croce, cosa ci fa, qui, così immobile, così remissivamente abbandonato ai suoi popolari giudici, così parassitario, cosa ci farebbe qui?, e perché, perché nemmeno una reazione, la più blanda, in quel corpo come morto anzitempo, un corpo che si lascia andare di braccio in braccio, di collo in collo, come un rullo di carne smagrita, uccidiamolo, uccidiamolo adesso, visto che ce l’abbiamo qui, sopra le nostre teste, facciamolo fuori adesso, così da sgravarci di un peso, e non solo fisico, finiamolo senza attivare  l’oneroso iter della processione, procedura giuridica gratuitamente  macchinosa, va da sè; avanti, finchè ce l’abbiamo sopra le nostre teste (ma cosa sta facendo, dorme? sta russando? si bea? quale piacere sta traendo dal rotolarsi tra tutti questi corpi?), avanti, finiamolo subito.  Non sarebbe, questo, ve lo posso garantire, un guaio così grosso, così irreparabile, tutt’altro, ve lo giuro, ve lo posso giurare, tutt’altro, questa morte concordata, questa uccisione unanime, questo, dettagli tecnici a parte, questo suicidio, potrebbe riservare qualcosa di salutare, sapete, qualcosa di estremamente benefico alla vostra salute non solo psicofisica – il capro espiatorio non è in fondo l’atto catartico che riconcilia la comunità tutta? – ma anche e soprattutto spirituale, laddove lo spirituale non sarebbe, credetemi, uno spirituale mondano, ma, cercate di credermi, ultra, ultramondano. Potrebbe cambiare le sorti della vostra morte, della vostra eternità, questa morte che vi sto scongiurando di praticarmi. Qui, ed ora. Ma le vostre sono facce sgomente, i vostri sono sguardi smarriti, non mi seguite, lo vedo, e me ne dispiaccio, me ne dispiaccio davvero, ma vi chiederei di farlo, signori, di seguirmi, di ascoltarmi, di immaginare per un solo attimo lo scenario che si verrebbe a creare con un dio che si suicida (che viene aiutato a suicidarsi), quale umanità potrebbe discenderne, quale uomo potrebbe venire da un uomo-dio (più uomo o più dio?) che sceglie di farla finita, subito, che si getta in pasto ai suoi stessi carnefici prima che questi gli ammaniscano la recita della sua stessa morte, un dio suicida e timido, che rigetta ogni festeggiamento, ogni riflettore, ogni mania di protagonismo scenico - quale umanità potrebbe venirne. Ve lo dico io, miei esitanti ed increduli spettatori, o meglio provo a supporlo (non fraintendetemi, non sminuite il grado profetico insito nelle mie supposizioni; nessuno se ne abbia a male, ma ogni mia supposizione supera per attendibilità ogni vostra più granitica certezza),  cosa succederebbe con un dio suicida: l’umanità, nei secoli, nei secoli a venire, non potrebbe che risultare disorientata, naturalmente, non avere alcun riferimento, evidentemente, sprovvista del benché minimo appiglio divino, teologico, non saprebbe dove sbattere fideisticamente la testa, dio c’è o non c’è? si chiederebbe di continuo l’umanità, e si risponderebbe, ma potrebbe anche non farlo, non rispondersi affatto, che dio c’era, ad un dato momento, nella storia, c’era, altro che se c’era, e chi dice il contrario, e non un dio qualunque, oltretutto, c’era, ma un dio a tal segno grande ed onnipotente da concepire un’altrettanto grande ed onnipotente idea, l’idea del secolo, no, dei secoli dei secoli, l’idea di un figlio che non fosse integralmente divino ma avesse in sé, ad un tempo, una parte di umano, sì, avete capito bene, che fosse, al tempo stesso, uomo. Non male come idea, davvero non male, e non senza un quid di democrazia avanti lettera, non male, si direbbe nei secoli a venire l’umanità, un’umanità trasognata, non male, sennonché, proseguirebbe la medesima umanità un po’ meno trasognata, ora,  sennonché la componente umana del figlio ha avuto, in barba al programma iniziale, il sopravvento su quella divina, una componente wertheriana umana autodistruttiva narcisa irresponsabile ed ignava ha voluto disattendere il dettato istituzionale del dio padre e si è così cancellata, annullata (uccisa), dando, sentiamo, quale esempio all’umanità che sarebbe da lì in avanti venuta?, offrendo, sentiamo, quali modelli di pensiero, di morale (di religione) all’umanità?, cosa, sentiamo, cosa avrebbe dovuto pensare, come avrebbe dovuto agire una siffatta umanità con un esempio così innegabilmente originale ma non meno (incontestabilmente) tragico od assurdo od istrionico o semplicemente umano? Sentiamo. Così l’umanità potrebbe reagire, nei secoli, di fronte ad un dio (a un figlio di dio) suicida. E purtuttavia starebbe proprio qui la vostra salvezza, credetemi, proprio in questo mio suicidio che tardate ad accordarmi, che non vi decidete a concedermi, originerebbe proprio qui, credetemi, se soltanto lo voleste, la vostra terra felice, una terra sostanziata di niente, o di nulla, se volete, e d’altro canto (d’altro canto), quale paradiso inferno o purgatorio potrebbero mai sussistere con un dio (con un figlio di dio) che si suicida, quale paradiso inferno o purgatorio? Un paradiso od inferno o purgatorio, per lo più, come teologiche cattedrali nel deserto, per lo più, palcoscenici costruiti con tutti i teleologici crismi del caso, indubbiamente, ma, causa questo increscioso incidente di percorso, mai utilizzati nè utilizzabili, e lasciati perciò stesso degradare a ruderi, eternamente lì, o qui, o quale che sia il luogo o non luogo reale, od irreale, in cui sono dislocati, lasciati perciò stesso a se stessi, questi palcoscenici fantasma. Sarebbe questa la vostra salvezza, credetemi, se mi volete credere, ma credetemi in un senso umano, ve ne prego, più che divino, ve ne prego, sono io a pregare (a pregarvi), questa volta, ve ne prego, sarebbe questa la vostra unica àncora, credetemi, questi prosceni paradisiaci o infernali o purgatoriali mai utilizzati ed utilizzabili e lasciati decadere nel tempo a ruderi, entrereste lì, una volta, come si dice, e me ne scuso, me ne scuso davvero, morti, ed una volta lì non sareste che silenziosi ed immobili manichini, se la figurazione non è troppo banale, e sicuramente lo è, o se non lo è adesso, per questi contemporanei stilemi dell’immaginoso, lo sarà di certo tra un po’, tra qualche anno, tra duemila anni, diciamo, lo scenario, ve lo posso già anticipare in via confidenziale, lo scenario tra un paio di millenni presenterà inequivocabili risonanze beckettiane, sebbene non dobbiate sforzarvi di capire cosa sia, poi, questo beckettiano, annotatelo così come ve lo passo, senza alcun impegno, nessuno vi chiederà nulla, al termine di questo mio discorso, non preoccupatevi, nessuno vi chiamerà alla lavagna a chiedervene conto, ma dicevo, una volta entrati in questo paradiso od inferno o purgatorio fossilizzati non sareste che manichini in luoghi creati da un dio un tempo potente ma in seguito ucciso dal suo stesso figlio, avendo questo stesso figlio, sia uomo sia dio, ucciso se stesso. Ebbene, una volta entrati in questi luoghi echeggianti di un mai stato futuro redentivo o punitivo o sonnolento, non provereste, semplicemente, straordinariamente, che un sentimento sostanziato di nulla, di niente, se volete, sareste, in quanto manichini o fantasmi o simulacri, né più nè meno che larve che si muovono senza coscienza, la quale coscienza a cosa mai servirebbe, d’altra parte, in assenza di un reale inferno o paradiso o purgatorio, a cosa mai servirebbe? Ci sarebbe, per la verità (per la verità?) un gesto, un solo, unico, ultimo gesto che in questi luoghi-non luoghi fareste, voi, io dico voi anche se in realtà non sareste più voi, naturalmente, ma degli ex voi, presumibilmente, sarebbe, questo gesto, quello di perpetuare, in segno di postuma e deferente riconoscenza, il gesto del figlio di dio che si suicida gettandosi sulla folla. Una robotica e perpetua imitazione del suicidio originario, detto altrimenti. Un suicidio, con altre parole ancora, che si ripete all’infinito, una coazione a ripetere della scena madre, nella quale scena madre sono previsti e il suicida e la folla, naturalmente, una scena che tutti gli eterni ospiti di questi pseudo paradiso o inferno o purgatorio tentano di riprodurre con commovente automatismo teatrale, sebbene, certo, al momento ci siano delle criticità tecniche ancora da superare in detta riproduzione, in detto esperimento pilota, certo, ancora sono allo studio le migliori ed ottimali soluzioni, certo, bisogna assolutamente uscire dall’impasse del contemporaneo tuffo dei contemporanei suicidi, quanto a dire l’inghippo principale, per il che non si dà ancora, come nella scena madre, un suicida ed una folla, ma tanti, troppi suicidi, tutti che si suicidano, anzi, tutti che si buttano, si gettano in pasto ad una folla che non c’è, essendo la folla unanimemente composta da suicidi, per l’appunto, od aspiranti tali, naturalmente, tutti che si gettano su tutti, il suicida che si getta su tutti gli altri suicidi, l’insieme dei quali difficilmente può meritare il nome di folla, a meno di un’accezione molto poco canonica di folla, c’è da ritenere, per la quale saremmo di fronte ad una folla non statica ma dinamica, decisamente dinamica, autodistruttivamente, potremmo addirittura dire, dinamica, tesi comunque a mio dire discutibile, per non dire confutabile, poiché, come da sempre accade, e come sempre accadrà, ogni folla, per accogliere su se stessa un solo ed unico suicida, deve essere, sempre e soltanto, e sia pur moderatamente, statica. Ma Tutto questo  non è affatto un problema, naturalmente, tutte queste disfunzioni tecniche prima o poi andranno risolte, e quand’anche non andassero risolte il problema non sussisterebbe comunque, tutto questo incrocio di perpetui suicidi in ogni caso non sarebbe altro che una sonnambolica e ripetuta messinscena in aeternum, voi vi suicidereste sugli altri che a loro volta si suiciderebbero su di voi, ma parliamo di suicidi virtuali, naturalmente, in certo qual modo finti, se così potessimo dire, tutti questi incrociati suicidi accadrebbero, se del caso, tanto in paradiso che all’inferno che in purgatorio, naturalmente, e sarebbero il solo vostro esercizio vitale, naturalmente, perché per tutta l’eternità voi non sareste altro che degli inconsapevoli ed eterei fantocci animati da uno slancio fittizio, vi chiedo soltanto di pensarci, un’ultima volta, un pensiero solamente, niente più, ora che il verdetto è già stato pronunciato, ora che tutto è compiuto, ora che sento muoversi le guardie alle mie spalle, gli onesti ed indefessi lavoratori di cui sopra, ora che li sento afferrarmi le braccia, con una virile e paterna violenza, ora che li vedo anche, questi due uomini, le cui vesti non mi riportano per la verità ai canoni di quello che dovrebbe essere il loro tempo estetico, ed anche il mio, il mio tempo mondano, naturalmente, questi due uomini indossano una bizzarra veste nera nient’affatto togata, ed un non meno bizzarro elmo in panno nero, bom-bet-ta, sento suggerire da qualcuno in platea, bom-bet-ta, grazie del suggerimento, non c’è di che, ma ogni divagazione sull’abbigliamento non deve essere così impellente o necessaria, suppongo, giacchè l’attenzione credo vada ora spostata sulla direzione che io e i due uomini che mi tengono sottobraccio stiamo prendendo, dopo che siamo discesi dal palco, una direzione che non porta affatto, mi pare di capire (di ricordare), alle fantasmagoriche e melodrammatiche quattordici stazioni, ma, lo capisco a poco a poco, lo capisco adesso, in un posto che potrei tranquillamente assimilare ad una cava di pietra, una cava di pietra al centro della quale è deposto una sorta di cippo, sì, di cippo, sopra il quale i due uomini adagiano con benevola cura la mia testa, testa che ha così modo di riposarsi, finalmente, come d’altro canto anche tutto il mio corpo, in queste ultime ore notevolmente provato, eccezionalmente messo alla prova.

© Fabio Martello





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