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Atterraggio d'emergenza per l'astronave Olimpo
di Silvano MAINO
Pubblicato su SITO


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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

 

I

Lo schianto era stato tremendo. All'improvviso l'astronave aveva perso  quota,  si era avvitata due o tre volte su  se  stessa  ed infine  era  precipitata al suolo. Il sistema  di autoprotezione aveva  impedito  che  andasse in pezzi, ma  nella  collisione la maggior  parte dei passeggeri e dei membri dell'equipaggio  erano morti  sul  colpo. Hefe il meccanico si era rotto  un  piede  ed urlava  di dolore, mentre il suo amico e collega Prom cercava  di aiutarlo.  Afro,  la  bellissima Afro,  vincitrice  assoluta  del concorso  di  bellezza  più importante del mondo,  che  prima  di allora  non  era mai uscita dal suo pianeta natìo e  che  si  era convinta  a  mettere piede su di un'astronave solo  perché  aveva vinto un viaggio premio, in preda ad una crisi isterica  scuoteva i suoi  riccioli  biondi ed urlava come  una  pazza  maledicendo questo viaggio allucinante.

"Voglio tornare a casa... a casa!"

Pal,  con tutta la grinta ed il self control acquisiti  in  tanti anni passati in cattedra, si mise a strapazzarla con parole dure, cercando di riportarla alla realtà.

"Calmati, cerca di calmarti, non è il momento di fare la scema".

All'improvviso  si udì una voce stentorea ed ogni  rumore  tacque per qualche minuto.

"Signori,  è il comandante Ze che vi parla. Proclamo lo stato  di emergenza assoluta. Non c'è bisogno che vi dica quanto sia  grave la situazione. Siamo precipitati su un pianeta che non conosciamo e a quanto mi pare di vedere, i motori dell'astronave sono  fuori uso. Ho bisogno di sapere immediatamente quanti sono i superstiti e di costoro quanti conoscono la strumentazione di bordo,  quanti sono  i  feriti, di quali e quanti viveri ed  armi  disponiamo  e infine quale sia la composizione chimica dell'atmosfera di questo pianeta, ammesso che ne abbia una, anche perché penso sia chiaro per tutti che prima o poi dovremo uscire da questo veicolo".

"Uscire?" Feb, il medico di bordo, sgranò i suoi occhi azzurri  e fissò Herm il marconista.

"Non  vedo alternative, dottore. Di ripartire per il momento  non se ne parla e qui dentro l'ossigeno sta per finire”.

"Erano  secoli  che  non cadeva  un'astronave"  piagnucolò  Afro, mentre  Pal  le assestava un calcio negli stinchi. Afro  capì  al volo e si morse le labbra. Guardò di sfuggita il volto del medico e  si  accorse  che  anche a lui la  sua  uscita infelice aveva ricordato quello a cui tutti in questo momento stavano  pensando.

Sul volto del medico era comparsa una lacrima.

Se ne era parlato a lungo due anni prima: Fet, il figlio di  Feb, un ragazzone di diciassette anni, una mattina aveva sottratto  la piccola astronave del padre e si era messo a scorazzare nel cielo all'impazzata, finché poi aveva perso il controllo del mezzo. La polizia non potendo fare altro aveva lanciato contro l’astronave un missile per rimetterlo in orbita; la piccola astronave, centrata in pieno, si era schiantata al suolo, fortunatamente in riva ad un fiume, e Fet era morto sul colpo. La cosa  aveva  fatto scalpore   perché il ragazzo, pur preavvisato dell’arrivo del missile non aveva attivato   il   sistema   di autoprotezione e neppure il pilota automatico.

La  situazione  si stava facendo  imbarazzante,  ma  l'improvvisa apparizione  di  Ze nel vano della porta attirò  l'attenzione  di tutti.

"Mi pareva di avere dato disposizioni, signori. Non mi sembra  il momento di perdersi in chiacchiere"

"Me  ne  occupo io, comandante" disse Pose, un  vecchio  marinaio passato nell'aviazione  astronautica  quasi  al  termine   della carriera  giusto per avere una pensione più ricca, dopo una  vita trascorsa in marina.

"Vengo con te" gli fece eco Herm, togliendosi dalle orecchie  una cuffia  sorda  e muta e lanciando un'ultima  occhiata  piena  di rammarico  alla  strumentazione di bordo  ormai   completamente inutilizzabile.

Ze  osservò  i  finestroni  dell'astronave  che  il  sistema   di autoprotezione aveva coperto con pesanti lamine di piombo.

"Chissà  se riusciamo ad aprirli... dottore, mi dia una mano  per favore".

Feb  cominciò  ad  armeggiare attorno al primo  finestrone  e  si accorse  che  il sistema  manuale  non  era  stato   danneggiato nell'impatto.  Fece  girare  la manovella e poco  alla  volta  la pesante saracinesca cominciò lentamente a salire. Tutti gli occhi erano puntati sul finestrone, nella certezza  di vedere  il solito pianeta senza vita, rosso e polveroso  come  ne incontravano  i  pazzi che si spingevano  fuori dai  quattordici pianeti  del loro sistema, ma appena la saracinesca si fu  alzata Ze  e Feb si lasciarono sfuggire all'unisono  un'esclamazione  di stupore: il pianeta su cui erano caduti somigliava moltissimo  al loro: cielo azzurro, prati, ulivi a perdita d'occhio e, in  fondo una catena di montagne azzurrine su cui ne spiccava una maestosa e tutta coperta di nubi.

"C'è vita, comandante!"

"Sì dottore, quantomeno una vita vegetale, identica a quella  che c'è da noi su Ghe".

"Mi  scusi, comandante, ma se c'è vegetazione ci  possono  essere animali... uomini..."

"Non corra dottore, le ricordo che da questa parte  dell'Universo non abbiamo mai ricevuto segnali radio".

Intanto  Pose  e  Prom erano ritornati nella  sala  e  guardavano estasiati lo stupendo paesaggio.

Poi Pose si riscosse, si avvicinò a Ze e gli disse:

"Sono morti quasi tutti, comandante, siamo rimasti in dodici, io, lei, la sua signora, il dottore e sua sorella, il marconista, due meccanici,   e  quattro  passeggeri:  la signorina  Afro  e   la professoressa  Pal qui presenti, quel militare... Are, credo  che

si chiami, e poi il signor Dyon, quel mercante di vini con cui lei ha avuto a che dire l'altra sera. Gli strumenti di bordo sono inutilizzabili, ma con l'aiuto di Prom conto di rimetterli a posto in una ventina di giorni.  Certo  se Hefe potesse darci una mano potremmo  fare di meglio,  ma  il  povero Hefe si è rotto un piede,  lo  ha  appena medicato  il  dottor Feb. Il settore delle armi e dei  viveri  ha preso  fuoco,  c'è rimasta solo qualche scatoletta di amb, otto bottiglie di nect, e una decina di confezioni di gallette e un  paio  di pistole laser. Si è salvato un solo computer che sta analizzando l'atmosfera  del  pianeta.  Se  non è  andato  in  tilt  ci  sta comunicando che l'atmosfera ha la stessa composizione chimica  di quella di Ghe, solo che questo posto non è per niente  inquinato.

Ah, stavo per dimenticarmene, sono sopravvissuti anche quattro... quattro..."   Pose non riusciva neppure a pronunciare la  parola, tanto quelle creature lo mettevano a disagio.

"Mutanti"  concluse  Ze  con un sospiro.  "Posso  sapere  quali?" aggiunse con una certa apprensione.

"Una kim, un ken, un mino e una sfinx"

 

II

L'astronave  Olimpo,  nove  uomini di equipaggio,  in  grado  di portare   fino  a quaranta  passeggeri,  non  era   un   modello recentissimo, ma non era neppure una carretta; diciamo che faceva decorosamente  la  spola tra i quattordici  pianeti del sistema solare  Hel,  situato nella costellazione di Orione. Ghe  era,  o almeno così si pensava, l'unico pianeta dell'Universo su cui  si era  sviluppata una forma di vita superiore, sugli altri  tredici pianeti  totalmente  privi di atmosfera c'erano solo le colonie gheiane,  sistemate sotto enormi campane di plexiglas e vetro; vita dura,  da pionieri, ma resa  inevitabile  dalla  sovrappopolazione  del pianeta;  oltre  il  sistema heliano  si stendeva  la  Galassia: milioni  di  stelle,  miliardi  di  pianeti,  ma gli intrepidi astronauti del pianeta Ghe che per duemila anni avevano esplorato gran parte dell'Universo avevano trovato solo  qualche  traccia primordiale  di  vita: batteri in due o  tre  pianeti  vicino  a Vega... licheni sui quattro pianeti attorno ad Alpha Centauri... una volta, in un piccolo asteroide dalle parti di Sirio, un  lago pullulante di amebe...  ma nulla di più,  tanto  che  i  viaggi interstellari  erano  stati  sospesi da più di  trecento  anni  e l'attenzione dei gheiani si rivolgeva ormai solo al loro  sistema heliano.  Tanto  più  che i problemi  non  mancavano:  grazie  ai progressi della medicina la popolazione era aumentata a dismisura e  rischiava  di esaurire le risorse alimentari di Ghe  (ed  ecco allora la necessità di colonizzare gli altri inospitali pianeti), inoltre un genetista manipolando il DNA dei gheiani aveva  creato mostruose creature chiamate mutanti che seminavano il terrore tra gli  abitanti  di Ghe. Quasi tutti erano stati eliminati,  ma  da Brax,  l'ultimo  dei pianeti del sistema heliano  uno  scienziato aveva  annunciato di essere in grado di guarirli e di  riportarli

all'originaria  natura umana, così la maggior parte  dei  mutanti presenti  su  Ghe era stata caricata  sull'Olimpo,  astronave  di solito  usata dai gheiani per viaggi di piacere o di  studio  nei pianeti  colonia e dagli abitanti delle colonie per  rivedere  la madrepatria. Avrebbe   dovuto   essere  un  viaggio  di   routine, senonché all'improvviso,  proprio  mentre  il  comandante  Ze  stava   per iniziare la manovra di atterraggio sul pianeta Brax,  l'astronave si era infilata in un cunicolo spazio-temporale e si era  trovata nel  giro di pochi minuti catapultata in una  zona dell'Universo pressoché  inesplorata, neppure segnata sulle mappe astrali:  uno strano  sistema composto da una sola stella a  bassa  luminosità attorno  a cui ruotavano nove pianeti. Ze aveva evitato i  primi due,  ma  non era riuscito a impedire alla forza di  gravità  del terzo  pianeta  di  attirare  l'Olimpo,  che  era   rovinosamente precipitato.


III

I  dodici superstiti sedevano all'ombra di un ulivo.  Mangiavano di  gusto  le loro gallette stantie che acquistavano  un  sapore incredibile accompagnate dalle olive di questo pianeta alieno. Un ruscello  scorreva  nelle  vicinanze ed  i  gheiani  ne bevevano voluttuosamente  l'acqua  freschissima.  Accanto a  loro  il  ken (l'unico dei mutanti  di carattere  docile  e  non  aggressivo) fiutava  l'aria  col suo naso umano e scalpitava  con  i  quattro zoccoli sull'erba fresca.

Due ore prima avevano incenerito con i laser i resti dei cadaveri, persone conosciute da poco, ma che su questo pianeta a milioni di anni luce da casa sembravano essere diventati loro amici: le nove componenti del complesso Mu, donne straordinarie sia come compositrici (autentiche poetesse, specie la giovanissima Tal) sia come cantanti, capaci persino di cantare a nove voci, Dem la contadina taciturna e tenace e la giovanissima figlia Perse, studentessa dell’ultimo anno di agraria. Il vecchio Plu, uno degli uomini più ricchi di Ghe, bizzarro ed originale al punto che si era comperato un mutante, un ker, orribile cane a tre teste, lo aveva addomesticato, unico caso di mutante addomesticato da un umano, e lo teneva sempre con sé. Tutti ricordavano la situazione imbarazzante che si era venuta a creare sull’astronave quando Plu, invaghitosi della giovanissima Perse l’aveva trascinata di forza nella sua cabina ed aveva messo davanti alla porta il ker, di modo che nessuno osava entrare… poi Dem aveva fatto una scenata al comandante Ze e questi era riuscito con l’aiuto di tre uomini dell’equipaggio a bloccare il mutante e a penetrare nella stanza.

Ora erano morti tutti… uomini, donne e mutanti ed erano stati disintegrati. Il comandante Ze prima di far partire il raggio inceneritore aveva messo le Mu una accanto all’altra, Perse tra le braccia di Dem e il ker accucciato ai piedi del vecchio Plu. Poi avevano cantato un’orazione funebre ed avevano pianto.

I sopravvissuti rimasero a lungo silenziosi, ciascuno immerso nei suoi pensieri.

Arte, la sorella del dottor Feb ruppe il silenzio.

"Comandante,  se  lei è d'accordo io salirei in groppa al  ken  e andrei a fare un giro qui attorno. Sono troppo curiosa, e..."

"Non se ne parla nemmeno, ragazzina" la interruppe il  comandante Ze. "Dobbiamo essere prudenti. Inoltre ti ricordo che non abbiamo armi, salvo queste due pistole laser."

"Io  ho il mio arco e le mie frecce, quelli con cui ho  vinto  il campionato  mondiale"  ribatté calma Arte. Feb la guardò  con  un misto di ironia ed ammirazione. Ci voleva proprio la testa di sua sorella  a  pensare  di  affrontare  le  insidie  di  un  pianeta sconosciuto  con arco e frecce, cara, piccola Arte, così  fissata con  le  sue  gare sportive...col  suo  vezzo  di  non   volersi assolutamente abbronzare... ancora vergine a diciassette anni.

Intanto   Arte   si  era  alzata  di  scatto   ed   era   entrata nell'astronave.  Ne era uscita armata di arco e frecce e  si  era messa  davanti  a  Ze con aria imbronciata. Her,  la  moglie  del comandante Ze, temendo che Arte ammiccasse al marito (a suo dire era   l'unica   che   finora  non   ci   aveva   ancora   provato sull'astronave) la guardò torva incrociando le braccia.

In   quel   momento  si   verificarono   contemporaneamente   due avvenimenti imprevisti: un grosso uccello cominciò a roteare  nel cielo, mentre un cinghiale usciva grufolando dal bosco. Arte fece scoccare  due frecce in successione rapidissima e  sia  l'uccello sia il cinghiale caddero fulminati.

Undici persone applaudirono, ma l'applauso si troncò a mezz'aria e tutti ammutolirono. Dal bosco dove era  uscito  il  cinghiale erano  sbucati  dieci  o dodici uomini, la  barba  ed  i  capelli incolti,  vestiti  di pelli di animali, con clave e sassi  nelle mani.  I primitivi guardarono estatici la scena:  dodici  persone sedute  in cerchio, vestite in modo bizzarro... un  mostro  mezzo uomo   e  mezzo  cavallo,  ma, soprattutto,  un  enorme   mostro metallico, qualcosa che neppure sarebbero riusciti ad immaginare.

Guardarono  per qualche secondo, poi cominciarono ad urlare e  si rifugiarono nel bosco.


IV

Il sole cominciava a scendere dietro la maestosa montagna coperta di nubi, quando, come d’accordo, le persone che erano uscite in esplorazione si ritrovarono ai piedi dell’astronave. Ormai, dopo lo spiacevole episodio di qualche giorno prima, non c’era pericolo che gli indigeni si avvicinassero troppo all’”Olimpo”. Tre o quatto di loro lo avevano fatto, anzi, avevano cominciato a lanciare sassi e lance dalla punta in pietra, tanto che il comandante Ze aveva estratto la pistola laser e ne aveva fulminato uno. Gli altri erano fuggiti in preda al terrore. Da allora solo qualche vecchio aveva osato puntare verso l’astronave. Si avvicinavano, sia pure a distanza di sicurezza, si inginocchiavano, lasciavano per terra fiori, animali uccisi, frutti, raccoglievano qualcosa che gli strani visitatori avevano gettato (un fazzoletto, una scatoletta di carne vuota, una collanina che Afro aveva perso…) e poi se ne andavano borbottando qualcosa che sembrava una preghiera.

I Gheiani avevano discusso a lungo su cosa fare, in particolare il capitano Are, militare di carriera, aveva esposto un suo piano per sterminarne un gran numero e dare così un esempio agli altri, ma il comandante Ze aveva respinto l’idea, poi, visto che ormai si sentivano più adorati e temuti che minacciati, avevano deciso di esplorare il pianeta che li ospitava, cercando se possibile un contatto con gli indigeni. Dyon, il mercante di vini aveva detto, un po’ sul serio e un po’ per ridere che, dato che il territorio era ricchissimo di viti, avrebbe insegnato loro a fare il vino, la professoressa Pal aveva ribattuto che forse a gente così primitiva sarebbe stato più opportuno insegnare a ricavare olio dalle splendide olive di cui gli alberi erano ricchissimi. Il comandante Ze aveva detto che ognuno avrebbe potuto agire come voleva nei confronti degli indigeni, ma aveva raccomandato la massima prudenza e aveva ricordato che, per ovvie ragioni, si sarebbe dovuto evitare di fornire loro manufatti ad alta tecnologia e soprattutto armi. Tutti avevano assentito col capo, senza parlare, finché il meccanico Prom aveva rotto il silenzio.

“E il fuoco glielo facciamo conoscere?”

“Assolutamente no” aveva ribattuto il comandante Ze “sono all’età della pietra, ne farebbero un uso disastroso e devastante”

“Comandante, questo è paternalismo vecchia maniera” era sbottato Prom. “ Se noi diamo il fuoco a questi esseri li trasformiamo in persone… senza fuoco la civiltà non esiste… si rende conto della responsabilità che ci prendiamo?”

“Prom –aveva ribattuto Ze con tono deciso- l’unica cosa di cui mi rendo conto è che questi selvaggi all’inizio non avevano paura di noi ed hanno tentato di assaltare l’astronave, come se fosse un orso o un leone. Solo la mia pisola laser ci ha salvati ed ora ci temono. Insegnar loro ad usare il fuoco sarebbe pericolosissimo”

“Questo lo dice lei” aveva insistito Prom.

Tutti (Hefe a dire il vero con qualche esitazione) avevano approvato le parole del comandante.

“Io farò conoscere il fuoco agli indigeni” aveva insistito Prom.

“E io come comandante dell’astronave te lo proibisco. Anzi in virtù dei poteri conferitimi dalle leggi di Ghe dichiaro che chiunque insegni agli indigeni l’uso del fuoco o delle armi sarà messo a morte senza processo” aveva alzato la voce il comandante Ze.

“Obbedisco alle leggi di Ghe, ma voglio sottolinearne ancora una volta, come ho già fatto in passato, che sono leggi arcaiche e classiste, del tutto aliene dagli interessi dei lavoratori” aveva concluso Prom.

 

Seduto su una pelle di leone, sorseggiando una ciotola di acqua fresca, il comandante Ze guardava gli uomini man mano che tornavano dalle loro esplorazioni.

Li contò e li ricontò: erano nove. Tenendo conto che Hefe, incurante del dolore alla gamba che ormai sarebbe rimasta zoppa, era rimasto a riparare l’astronave sotto la sua guida, mancava una persona. Li ricontò una terza volta e dovette rendersi conto che il meccanico Prom non era tornato alla base.

Ma, dovendo già dare una notizia veramente drammatica, preferì per il momento non comunicare l’assenza di Prom, sperando che gli altri non la notassero.

“Signori –disse con voce ferma- oggi è successa una cosa gravissima. I mutanti sono fuggiti. Non ho potuto farci niente, è stato un attimo… stavo dicendo ad Hefe di rimontare una turbina, quando ho sentito uno schianto: hanno rotto una parete e se la sono data a gambe.”.

Herm imprecò tra i denti e non poté fare a meno di dire a voce alta:

“Ma per la miseria!!! tutti… tranne il ken… tutti … sono…”

“Antropofagi” concluse Ze. Ma il mino con la sua testa di toro non può andare lontano, prima o poi lo abbatteranno, mi preoccupano la kim, e la sfinx…”

Il dottor Feb corrugò le ciglia:

“Sono vulnerabili, non hanno la possibilità di riprodursi, non sanno usare le armi… un giorno o l’altro gli indigeni le staneranno e le faranno fuori”.

Ed ora, concluse Ze carezzandosi la barba, ognuno mi dica cosa ha fatto e dove è stato.

Are, Pal ed Her avevano vagato per la campagna. Erano stati accolti da un gruppo di indigeni che alla loro vista si erano inginocchiati. I tre si erano seduti, cercando di darsi un contegno e di non ridere ed avevano fatto gesti concilianti. La piccola tribù di indigeni aveva offerto loro diversi doni tra cui una pecora, delle olive e un’ascia formata da una selce acuminata infilata in un bastone. Her si era avvicinata alla pecora e con un paio di forbici l’aveva tosata, intrecciando con le dita una specie di cuscinetto di lana che poi aveva a sua volta offerto agli indigeni; Pal aveva raccolto le olive, le aveva schiacciate con un sasso e aveva invitato alcuni degli indigeni a leccare la densa pasta giallognola, però ne aveva tenuto un po’ e l’aveva spalmata sulle spalle di un ragazzino che presentava un’ustione da raggi solari abbastanza accentuata. Are (ma si era ben guardato dal raccontarlo all’assemblea) dopo aver cercato invano il suo coltello, aveva estratto dalla tasca due oggetti, uno di rame ed uno di stagno, li aveva fusi con la pistola laser e ne aveva fatto una punta che aveva incastrato nel bastone dopo aver gettato via la punta in selce. A questo punto i tre si erano alzati e stavano per andarsene, quando dal piccolo gruppo estatico ed acclamante si era staccato un vecchio e si era avvicinato agli astronauti. Si era messo una mano sul cuore ed aveva esclamato a voce alta:

“Io Argos, e tu?” E con un ampio gesto aveva indicato Pal.

La professoressa aveva capito al volo che il vecchio stava chiedendo il suo nome ed aveva risposto “Pal ash” (in lingua gheiana: “mi chiamo Pal”). Il vecchio aveva ripetuto “Pallas” e tutti gli uomini e le donne della tribù a salmodiare in coro “Pallas!, Pallas!” Poi il vecchio aveva ripetuto lo stesso gesto verso Her e la moglie del comandante aveva risposto “Her ha” (Sono Her) e tutti a ripetere “Hera!, Hera”. Anche Are aveva compreso la situazione ed una volta che il vecchio si fu rivolto al lui aveva risposto con piglio militaresco “Are hess” (“capitano Are”) ed il solito coro aveva semplificato “Ares! Ares!”. Stavano ancora inneggiando a Pallas, Hera ed Ares quando i tre avevano svoltato l’angolo della collina, scomparendo alla vista degli indigeni.

Afro e Dyon erano andati verso sud, erano saliti su per una verde collinetta ed anche loro erano stati circondati da un gruppo di persone che –così almeno avevano riferito- sembrava che li aspettassero. Dai gesti che facevano credettero di capire che li avevano scambiati per divinità scese dal cielo. Dyon si era industriato a far capire loro come si poteva fare il vino. Aveva scoperto che con le sue mediocri capacità telepatiche era possibile, sia pure in maniera limitata, entrare in contatto con la mente degli indigeni. Ne ebbe la prova quando vide che alcuni avevano raccolto il succo dell’uva ed invece di berlo lo portavano all’interno della caverna.

Afro aveva visto per terra dell’ocra e, quasi per gioco se l’era spalmata sulle palpebre e sulle labbra come faceva da ragazzina al mare e la stessa cosa aveva fatto con alcune delle donne che le si erano avvicinate incuriosite. Aveva riso a crepapelle vedendo come gli uomini della tribù dapprima avevano osservato estatici le donne “truccate”, poi si erano avvicinati loro e le avevano baciate con voluttà, suscitando amarezza e rimpianto in quelle che non avevano osato avvicinarsi ai due.

Il marinaio Pose era molto a disagio quando prese la parola:

“Sono uscito dall’astronave con Prom, abbiamo camminato verso est per un’oretta senza parlare, poi Prom ha allungato il passo, si è messo a correre e non l’ho più visto. Ho attraversato un bosco di ulivi, sono uscito in una radura ed ho visto un ragazzo che inseguiva un’anitra. L’anitra si è tuffata in un fiume ed il ragazzo è rimasto sulla riva in silenzio, poi è scoppiato a piangere. Io ho preso alcuni grossi rami, li ho legati con dei giunchi ed ho costruito una rudimentale zattera come facciamo fare ai ragazzini dell’Accademia e gli ho mostrato come utilizzarla. Non so se lo abbia fatto o no, in quanto in quel momento mi è parso di sentire la voce di Prom e mi sono allontanato di corsa, ma Prom non c’era. Temendo che venisse buio (non ho ancora capito i tempi di rotazione di questo dannato pianeta, al punto che ogni giorno mi sembra più corto dei precedenti) sono tornato all’astronave”.

Herm fino a questo momento era rimasto in silenzio. Vide che il comandante Ze lo fissava e capì che toccava a lui raccontare qualcosa della sua giornata.

“Mi sono avviato verso sud, seguendo il greto del torrente, poi ho camminato per i boschi, per vedere se trovavo tracce di indigeni, ma… niente. Ad un tratto ho visto una grotta nella quale stavano due vecchi, un uomo ed una donna. Si chiamano Filemone e Bauci”.

“Le hanno detto i loro nomi? si informò incredulo il comandante Ze.

“Lo sa comandante che al corso di comunicazioni si studia ancora telepatia”

Pal digrignò i denti “Fottuti reazionari”.

Per secoli nelle scuole del pianeta Ghe si erano insegnate, fin dai primi anni delle elementari, tecniche avanzate di telepatia, finché un giorno i politici, ma soprattutto i presidi, presi dall’ansia dell’innovazione e della sperimentazione (su Ghe nella scuola non è importante ciò che serve all’alunno, ma ciò che è nuovo, alternativo, mai provato prima) decisero che la telepatia si insegnava da troppo tempo, che la scuola non poteva rimanere uguale a se stessa, che doveva essere dinamica e non statica, che i piani di studio, i piani di offerta formativa e la carta dei servizi dovevano evolversi con l’evoluzione della società, per cui lo studio delle tecniche telepatiche, venne abolito e sostituito con lo studio delle conchiglie fossili. Si formò immediatamente un comitato per la difesa dello studio della telepatia, subito bollato dai progressisti come reazionario, ma alla fin fine gli innovatori, finanziati sottobanco dai fabbricanti di telefonini, l’ebbero vinta e i gheiani (a parte quelli che frequentavano corsi di telecomunicazione o i pochi che si potevano permettere costosissimi corsi privati a pagamento) smisero di comunicare telepaticamente.

Herm ricominciò a parlare.

“Sono entrato nella grotta –dicevo- ed ho visto questi due vecchi, molto malati; ho appoggiato sulle loro fronti il microscannerizzatore ed ho visto subito che l’uomo era affetto da un tumore alla prostata allo stadio terminale, mentre lei era devastata da un’artrosi che le impediva di stare in posizione eretta. Mi sono messo in comunicazione telepatica con loro e dopo avermi detto i loro nomi hanno cominciato a prepararmi una cena: carne cruda, bacche, olive, mandorle… mi hanno detto che tenevano tutto pronto caso mai fosse passato qualcuno che aveva bisogno di cibo.

‘Finora –aveva detto Filemone e pur comunicando telepaticamente mi pareva di sentire il poco fiato che aveva in corpo- molte persone ci hanno aiutato, ora vogliamo essere noi ad aiutare gli altri e siamo contenti che tu, divino straniero, sia passato di qui. Stasera è la più bella sera della nostra vita, ci hai ridato un momento di gioia, una gioia che non conosciamo più da quando i nostri figli sono morti durante la caccia al cinghiale e noi siamo invecchiati in maniera così indecorosa. Pensa, divino straniero, che abbiamo cinquantaquattro anni. Nessuno ha mai raggiunto questa età’.

Mi sono rammaricato di non aver con me nessun medicinale, ma credo che neanche il dottor Feb avrebbe potuto fare qualcosa per loro su questo pianeta. Ho mangiato tutto ciò che mi hanno offerto, poi ho chiesto loro se avevano bisogno di qualcosa e se potevo fare qualcosa per loro e Bauci con un rantolo ha risposto ‘Sì, divino straniero, ti chiediamo che tu ci aiuti a morire. Non ce la facciamo più a vivere in questo modo e non abbiamo nemmeno la forza di aiutarci vicendevolmente. Ha parlato usando la voce, nel suo linguaggio primordiale, solo in un secondo tempo sono riuscito a captare telepaticamente il suo pensiero Li ho portati fuori dalla grotta ed ho fatto loro un’iniezione di gsol. (1) Ora sono due ulivi. Vivranno mille anni e non soffriranno più”.

A sentire nominare lo gsol il dottor Feb sospirò profondamente.

“A me è capitata un’avventura poco piacevole. Ho fatto una cosa di cui mi vergogno come uomo e come medico, ma, credetemi, non avevo alternative. Ci siamo dati la nostra parola che ci saremmo detti tutto ed è quello che intendo fare”

Afro strizzò l’occhio al capitano Are, che non aveva raccontato di aver dato agli uomini un’arma di bronzo ed Are rispose inviandole un bacio con le dita.

Feb intanto continuava il suo racconto

“Mi sono incamminato verso nord con mia sorella Arte. Io non avevo armi, mia sorella si è portata arco e frecce, con cui ha ucciso un gran numero di animali che poi, come dirò abbiamo dovuto abbandonare. Ci siamo inoltrati in una boscaglia abbastanza fitta, poi abbiamo trovato un grande prato e ci siamo incamminati seguendo una specie di piccolo sentiero. Ho trovato per terra una carcassa di tartaruga, guscio e tendini e mi sono divertito a farne un piccolo strumento musicale, che poi ho accordato con l’accordatore che, proprio prima dell’incidente mi era stato regalato dalla signorina Tal.”

A sentire nominare Tal, la più giovane e carina delle nove componenti il complesso Mu un brivido percorse tutti gli ascoltatori. Era la prima volta, a parte il giorno dell’improvvisato funerale che qualcuno nominava una persona morta nell’impatto dell’astronave, ma Feb parve non accorgersene e proseguì. Alla luce del tramonto sembrava improvvisamente invecchiato.

Ad un certo punto ci siamo fermati a bere ad un ruscello freschissimo… poi Arte si è allontanata seguendo le tracce di una volpe ed io mi sono fermato a riposare. All’improvviso mi sono visto davanti una ragazza bellissima…bionda… non ho mai visto qui su questo pianeta una ragazza bionda… somigliava a quell’attrice famosa… non mi viene il nome…

“Daf” suggerì qualcuno e Feb approvò.

“Daf, appunto. E’ stato più forte di me, mi sono avvicinato e lei è scappata via, io ho perso la testa e l’ho inseguita, l’ho raggiunta, ho cominciato a stringerla tra le braccia, la ragazza urlava… urlava… ho avuto paura, ero disarmato… beh ho preso dalla tasca una fiala di gsol e gliel’ho iniettata. Ora è un alloro”

“Andiamo ad iniettarle il bagsol” propose Hefe, ma Feb scosse la testa. No, sono passate più di sei ore, mentre la ragazza si vegetalizzava sono arrivati alcuni uomini armati di lance ed io ho chiamato Arte che con una freccia ne ha stesi un paio, poi ce la siamo data a gambe abbandonando tutti gli animali.”

“Amici sta scendendo la notte –disse il comandante Ze- ci conviene entrare nell’astronave. Tra un po’ qui sarà tutto buio.”

“No –esclamò Arte con aria impertinente- la notte su questo pianeta non è buia. C’è un enorme satellite che lo illumina”

“E tu cosa ne sai?” disse il comandante Ze

“Io… una notte sono uscita… e ho fatto quatto passi… e c’era un ragazzo che dormiva… poi si è svegliato… poi… poi…” Arte non riusciva a parlare, non per la vergogna, ma per l’emozione, tanto era forte il ricordo di quell’esperienza.

“Mi ha fatto capire che si chiama Endimione e mi ha detto… o almeno io ho capito… cioè mi è parso di capire che io sono bella come quella bellissima stella enorme che illumina la notte… e…”

Feb guardò la sorella. Per la prima volta non riconobbe la bambina capricciosa, la sua sorellina, ma lesse nei suoi occhi uno sguardo da donna.

Due o tre voci si intrecciarono, ma un urlo di Afro le sovrastò:

“Per la miseria! guardate da quella parte!”

Un grande bosco di ulivi crepitava sotto le fiamme di un incendio di proporzioni gigantesche.

 

V

Il comandante Ze sorrise alle quattro donne sedute sul divanetto.

“Ancora qualche ora e ce l’abbiamo fatta. Tra poco si parte”.

“Davvero?” Afro batté le mani come una ragazzina e scoppiò in una risata argentina. “Che bello, si torna a casa…”

Her guardò con disprezzo la donna e scosse il capo.

Non disse nulla, ma pensò “Così almeno la pianti di fare la civetta con mio marito”. In realtà non aveva le prove di quanto sospettava, ma… intanto conosceva il marito, poi Afro si era data molto da fare in quei tre mesi: l’avevano scoperta mentre amoreggiava col capitano Are, col signor Dyon, persino con Hefe…

Il comandante sorrise con galanteria ad Afro, Her si accigliò ancora di più ma egli finse di non accorgersene e rimase immobile a guardare per l’ultima volta lo splendido paesaggio boscoso che dopo novantadue giorni gli era diventato familiare.

“Sapete, signore? Ho deciso di dare un nome ai pianeti di questo sistema e di comunicarlo agli indigeni: al primo ho dato il nome di Herm, perché con la telepatia ci ha molto aiutati in questo periodo… al secondo, omaggio alla bellezza… darò il nome della bellissima Afro…”

Her lo interruppe: “il mio non lo dài a nessuno, hai capito?”

“E nemmeno il mio, disse decisa la professoressa Pal che odiava la telepatia.

Ze annuì e continuò: al terzo, quello che ci ospita, non darò un nome, è giusto che gli abitanti del pianeta lo chiamino come vogliono… al quarto daremo il nome del capitano Are, al quinto, il maggiore, se me lo consentite, quello del maggiore in grado sull’astronave, cioè il mio ed al sesto quello di mio padre. Ci sono poi tre pianeti invisibili ad occhio nudo, quindi gli indigeni non li vedranno mai, comunque ho pensato a mio nonno… al signor Pose ed al signor Dyon.”

Per puro caso il mercante di vini era entrato ed aveva ascoltato l’ultima parte del discorso.

“La ringrazio, comandante Ze, lei è molto gentile, ma mi piacerebbe che almeno un pianeta portasse il nome di uno dei tanti che sono morti nel naufragio, uno per tutti…Dem, o Perse per esempio”

“Scegliere una delle due donne sarebbe fare un torto all’altra disse Ze. Lo chiameremo Plu, in ricordo di uno degli uomini più significativi del nostro mondo”.

Qualcuno sorrise all’idea di dare il nome di un vecchio magnate plurimiliardario ad uno scoglietto ghiacciato ed isolato, ma Ze non ci fece caso.

“Quanto alla stella attorno a cui ruota questo pianeta ho pensato al dottor Feb e per il satellite che gli ruota attorno, visto che un indigeno ha detto che la nostra piccola Arte è bella come lui… beh lo chiamerei Arte.

La ragazzina arrossì fino alla radice dei capelli.

“Senta comandante Ze, potremmo dargli il nome del mio gattino, morto nell’impatto?”

“Va bene, lo chiameremo…”

“Sel hel hen” (Sel bel micetto in lingua gheiana) rispose Arte tutta contenta.

Il comandante pensò a come a volte siano strani i giovani: aveva visto Arte durante il viaggio socializzare con Perse, con le ragazze del complesso Mu, con qualche giovane steward… ed ora aveva in mente il suo gatto…

“Comandante Ze siamo pronti a partire”.

La voce di Hefe riscosse il comandante dai suoi pensieri.

Finalmente la strumentazione di bordo era stata riparata, grazie all’impegno di Pose, di Are e di Hefe, non completamente, ma quel poco che bastava per permettere all’Olimpo di affrontare il cunicolo spazio-temporale e di tornare in una zona in cui avrebbe potuto lanciare una richiesta di aiuto. Ze ripercorse col pensiero gli ultimi tre mesi… il naufragio… la disperazione di non poter più rivedere il proprio mondo, poi la scoperta di questo pianeta affascinante, primitivo, con gli indigeni che li consideravano divinità… indigeni a cui avevano insegnato tante cose… Peccato non aver potuto insegnare loro la tecnica dell’allevamento degli animali e della semina… almeno fossero rimaste vive Dem e Perse… ma forse gli indigeni prima o poi ci sarebbero arrivati da soli… peccato anche che tutto il pianeta o almeno la piccola porzione da loro visitata, fosse completamente priva di ferro… beh, mica potevano fare miracoli… l’idea lo divertì: “siamo dèi per questa gente e non possiamo fare miracoli…” Poi si riscosse.

“Mi chiami il marconista” disse ed Hefe si allontanò zoppicando.

Herm si presentò immediatamente.

“Agli ordini, comandante”.

Prima di partire voglio tenere un discorso alla gente di questo pianeta e lei lo trasmetterà telepaticamente”.

“D’accordo, comandante”.

Ze si allungò sulla poltrona in pelle, bevve un sorso dall’ultimo flacone di nect, e cominciò a stilare una serie di appunti.

Più o meno sapeva cosa avrebbe detto, ma… c’era un argomento che non sapeva come trattare. Non riusciva a dimenticare la scena tremenda a cui aveva assistito pochi giorni prima: Prom che correva disperatamente inseguito da un gruppo di primitivi inferociti… all’improvviso gli indigeni si erano fermati, non osando avvicinarsi troppo all’astronave, Prom invece era entrato con un balzo; il comandante Ze lo aveva raggiunto, gli aveva puntato contro il raggio laser ed aveva pronunciato la sentenza di morte, dopo di che aveva premuto il grilletto. Era il caso di dirlo agli indigeni? La cosa li avrebbe impressionati? Sarebbe servito a spaventarli e ad insegnare loro un uso meno distruttivo del fuoco?

Intanto tutti si davano un gran daffare a raccogliere acqua, olive, animali e ad ammassarli nell’astronave. Gli indigeni che osservavano tutto a rispettosa distanza compresero che gli dèi stavano per lasciarli. Una piccola folla silenziosa: davanti a tutti gli anziani, poi i cacciatori ed infine donne e bambini si radunò in silenzio proprio davanti al mostro metallico.

Il comandante Ze prese la parola ed Herm trasmetteva telepaticamente le sue parole.


VI

“Uomini del pianeta Ghe –il comandante si accorse subito della sciocchezza che aveva detto, ma ormai Herm aveva trasmesso… Ze strizzò l’occhio ad Herm, alzò le spalle e continuò- gli dèi che vi hanno visitato lasciano il vostro mondo… ritornano nella loro casa… “

Un mormorio si alzò dalla folla. Qualcuno piangeva.

“Ma non vi lasciano soli… la loro casa si trova là, davanti a voi, sulla cima di quella splendida montagna… voi non la vedete perché è sempre coperta di nubi, là sul monte… (in quel momento lo sguardo del comandante si posò sulla scritta in oro sulla fiancata del veicolo)… sul monte Olimpo.

Vi abbiamo insegnato tante cose che vi saranno utili nello sviluppo della vostra civiltà ed altre ve ne insegneremo in futuro, perché, vi ripeto, voi non ci vedrete, ma saremo sempre accanto a voi…”

Un indigeno diede un urlo e tutti acclamarono.

Herm si rivolse a Ze:

“Vogliono l’infame che ha dato ai loro nemici l’acqua che brucia… vogliono ucciderlo”

Ze riprese la parola.

“L’infame che vi ha dato il fuoco non è qui. Lo abbiamo fatto portare lontano, nella catena del Kau, sul monte Ere, e là lo abbiamo incatenato ad una roccia ed un’aquila gli divora il fegato giorno e notte… ma non è solo male il fuoco: provate a metterci sopra le carni e vi accorgerete che diventano molto più gustose e facili da digerire.

Ora il dio Herm vi dirà i nomi delle stelle che ruotano attorno alla grande stella, poi partiremo e torneremo sul monte Olimpo. Vogliamo che questo luogo in cui è avvenuto l’incontro tra noi e voi sia da voi considerato sacro.

Addio uomini del pianeta Ghe. Siate sempre degni dell’amore che gli dèi hanno per voi.

L’astronave decollò lasciando una scia di fumi e di vapori, poi, in pochi secondi, svanì nel cielo. Al suo posto rimase una enorme voragine.

Barcollando si fece avanti Pythia, la donna più anziana della tribù, sciamana, strega e sacerdotessa della Gran Madre Terra. Si calò nella voragine ed immediatamente i vapori del combustibile la stordirono. La donna cadde in trance e cominciò a pronunciare parole sconnesse.

“Un dio ci parla! Un dio ci parla attraverso Pythia” gridò un cacciatore e subito la voce venne raccolta, ripetuta, amplificata. Due sacerdoti accorsero e cercarono di interpretare le parole senza senso che la donna continuava ad emettere.

“Ha detto che questo luogo è il più sacro di tutti… che lo dovremo sempre onorare… che lo dovremo chiamare Delfi… che ciò che lei dice è ispirato dagli dèi… che da stasera il fuoco rallegrerà le nostre notti e servirà per cucinare meglio, ma guai a chi lo utilizzerà per fare del male ad altri uomini…”

Altre cose disse il dio alla Pythia e i sacerdoti le trasmisero agli uomini, mentre il sole scendeva dietro i boschi maestosi dell’Ellade.

 

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(1) Dal Grande Dizionario Scientifico dell’Accademia di Ghe: Gsol composto chimico inventato nel secolo scorso dall’omonimo scienziato. Iniettato in una persona o in un animale agisce sulle cellule trasformando l’animale in vegetale. Tale processo diventa irreversibile dopo sei ore. Nelle sei ore è invece possibile far tornare il vegetale allo stato animale iniettandogli una dose di Bagsol (vedi). Il processo irreversibile è vietato su tutto il pianeta ed utilizzato solo nel distretto di Xuls come alternativa alla pena di morte; il processo reversibile è usatissimo in medicina in caso di operazione o amputazione. Si vegetalizza il paziente, si opera sulla pianta, poi lo si rianimalizza.

 

© Silvano MAINO





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