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Il paziente del dottor Sclerozzi
di Luca Palumbo
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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

Totonno Sclerozzi, medico e carissimo amico di famiglia da circa vent'anni, mi ha detto che sono pazzo. No, non l'ha detto sfacciatamente, ma l’ha lasciato trapelare chiaramente attraverso metafore e strane allegorie. Per carità, non mi sono offeso. Sono soltanto un po’ preoccupato. Insomma, sono turbato; le giornate scorrono come fossero pervase da un alone di perenne malessere e gli ameni avvenimenti sono soltanto il sogno di notti febbrili. Il motivo della mia presunta follia? Il dottor Sclerozzi sostiene che avverto dei suoni che però non sento. Cioè, voglio dire che il mio cervello percepisce dei suoni immaginari che le mie orecchie, nella realtà, non sentono. E, naturalmente e soprattutto, non odono nemmeno quelle di chi mi sta sfortunatamente accanto.

- Credi che sia grave? - ho chiesto a Sclerozzi quando ormai ero sicuro di quello che stesse dicendo.

- No, non devi preoccuparti. Solo, dovrai fare attenzione. Devi essere più calmo, altrimenti le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Però direi che non hai motivo di preoccuparti.

- Sta' tranquillo dottore mio, non mi preoccupo. Ma quali sono le cause di questi disturbi?

- Stress, semplicemente.

Ha vinto molti premi il mio dottore.

Nonostante non mi abbia detto niente di significativo, lo Sclerozzi mi ha messo addosso un'angoscia e un'agitazione quotidiana da brividi.

Il principio del mio tormento risale a tre mesi fa, quando ancora potevo definirmi, seppur con una punta di sana ironia, un essere umano decente e dignitoso.

Era notte, l'inizio della primavera più triste e grigia che io abbia mai visto. Tra la veglia ed il sonno udii raschiare, con non so cosa, la porta di casa. Accanto a me mia moglie: dormiva e ronfava serenamente. Era una casa a due piani e noi eravamo situati a quello superiore. Non avevamo figli, ringraziando il padreterno. Poi capirete voi stessi perché.

A quel raccapricciante suono ovviamente rabbrividii, con tutte le parti del corpo. Praticamente un gesto inconsulto mi fece balzare dal letto, e mi ritrovai direttamente sulla soglia della camera. Sapete, m'hanno sempre terrorizzato i rumori di notte, sin da fanciullo. Purtroppo non potei fare a meno di svegliare Carolina, mia moglie. Le misi a mia volta paura e rinvenne immediatamente dal sonno profondo e dal dolce ronfare in cui era immersa poco prima.

- Che succede? - mi chiese con voce impastata.

- Hai sentito?

- Cosa?

- Raschiare la porta.

- Ma è aperta.

- Non questa della camera, cristo! Parlo di quella di casa!

Mia moglie si stropicciò gli occhi indiscutibilmente assonnati e provò a drizzarsi sul letto. Ci riuscì.

- E chi ha raschiato la porta? - chiese.

Anche mia moglie ha vinto molti premi.

- E che minchia ne so!

- Sarebbe meglio andare a dare un'occhiata giù.

- Sì, sarebbe decisamente meglio.

- Vai tesoro.

- Vado? E tu?

- E a cosa ti servo io? Va' a vedere, su!

Il panico incominciò a fumare dal mio cervello. Sudavo freddo, copiosamente. Guardavo Carolina quasi con le lacrime agli occhi.

- Lo sai benissimo che ho il terrore dei rumori di notte, cara. E' quello che si può definire il mio complesso d'infanzia. Me l'ha detto Sclerozzi. Dai, su, vieni con me.

L'afferrai per un braccio e la condussi fuori dalla stanza.

- Copriti, la notte è gelida - dissi.

Mia moglie mi offrì il suo scialle.

Poi ci apprestammo a scendere lentamente gli scalini di legno massiccio, tenendoci reciprocamente le braccia.

- Attenta a non cascare, cara. Non senti come scricchiolano questi scalini?

Mia moglie si fermò di colpo per guardarmi meglio in faccia. Pareva sgomenta.

- Io non sento niente tesoro. E poi gli scalini non hanno mai ceduto; mai uno scricchiolio.

Non mi degnai neppure di ricambiarle lo sguardo, avevo la pelle tesa dal terrore. Di nuovo mi parve di udire raschiare la porta.

- Hai sentito, ora? Stavolta è stato molto chiaro. C'è qualcuno che si diverte a raschiare la porta con qualcosa.

- Ne sei proprio sicuro?

- Perché me lo chiedi?

- Io continuo a non sentire niente, mi dispiace.

Scossi violentemente la testa, stavo quasi per staccarmela.

- Cristo, è impossibile! Mi vuoi sfottere? E' inconcepibile che tu non senta un cazzaccio di niente! Come puoi! Come osi!

Il mio tono doveva avere un che di minaccioso in quanto mia moglie fece un gesto come per coprirsi il volto. Povera donna.

- Io…Io non so… - sussurrò timidamente.

- Tu stai ancora dormendo! - urlai ancora.

- Può darsi.

- Comunque c'è qualcuno, ne sono sicuro.

- Forse è solo un cane, ce ne sono molti qui intorno che girano liberamente.

- No, non ci credo, avrebbe abbaiato.

- Non è detto che debba per forza abbaiare.

- Certo che si!

Mia moglie tentò di accarezzarmi una spalla per calmarmi. Ci riuscì solo in parte. Discendemmo con molta cautela l'intera scalinata, tra lo stupore di Carolina e l'ardua impresa. L'ossessionante scricchiolio degli scalini era da paragonarsi a una tortura infernale. Per un attimo mi apparve il volto tormentato dalla masturbazione mentale di Edgar Allan Poe sollazzarsi al cospetto della mia ridicola tremarella, da racconto di serie-B. Si intromise anche l'ululato dell'egregio signor Vento ad incutermi impietosamente timore.

- Lo senti almeno il vento che soffia forte?

- No, tesoro, non lo sento. Sono mortificata.

Cominciai seriamente a pensare che quella donna stesse prendendomi indegnamente in giro. Lo ammetto, avrei voluto strangolarla, ma mi tremavano troppo le mani.

- E no, cara, questa no! Il vento lo devi sentire! Io lo sento!

Poi nuovamente il raccapricciante suono proveniente dalla porta mi portò all'accenno di un infarto.

- Sarà un ladro, caro.

- Mi auguro di no!

- Hai paura? Non c'è problema, abbiamo due televisori, gliene diamo una. Magari pure qualche bomboniera, ce ne sono fin troppe in casa.

Ebbene sì, crepavo dalla paura e non me ne vergognavo affatto. Inoltre, non avevo mai udito rumori così agghiaccianti prima d'ora, non ero abituato a questo tipo di cose.

- E se fosse solo quel barbone che ogni tanto si fa vedere al mercato? Forse avrà freddo.

Mia moglie, in quelle occasioni particolari, era una maestra nello sparare a raffica miliardi di ipotesi nel giro di pochi minuti.

- Lo credi davvero? - chiesi speranzoso.

- Non lo so, può darsi. Va' a vedere.

- Forse ha paura di questo vento così violento. Che cazzo, è primavera!

- Quale vento?

Ma non ebbi il tempo di schiaffeggiare mia moglie. Qualcuno continuava imperterrito a raschiare la porta.

- Senti che veemenza? Ma dico: solitamente un essere umano suona il campanello. Possibile che questo rumore non ti dica niente?

- Ma io non sento niente! Niente! Niente!

Carolina era sul punto di versare lacrime. Povera donna.

Mi avvicinai finalmente e coraggiosamente alla porta e accostai con prudenza un orecchio a essa. Un attimo di silenzio, poi il cervello mi parve fosse sul punto di andare in fuga dalla mia testa per le dolci colline del mio paese, dove si fa il vino buono.

Stavolta ero riuscito a distinguere il suono di un arnese affilato.

Anch'io avevo vinto dei premi.

Sospirai, mi feci coraggio, mi vidi eroe domestico, partigiano di casa Malamente, il mio cognome. Spalancai la porta e uscii fuori correndo. Udii chiaramente dei passi e dei colpi contro la mia casa. Il vento mi urlava contro, ma non secondo mia moglie. Il cuore ballava sballato ritmi ossessivi e io potevo sentire la baraonda nel mio petto. Poi rientrai a casa agitatissimo.

- Va' di sopra! - urlai a Carolina, non accorgendomi di averla violentemente urtata con una forza che ancora oggi stento a credere di aver avuto. Finalmente arrestai la mia folle corsa, ma fu troppo tardi, o meglio, successe tutto troppo in fretta. Dio mio, che spettacolo pietoso! Che scena! Povera donna! Il suo piccolo cervello era spiaccicato sul pavimento. Mi venne subito da vomitare e, inspiegabilmente, le lacrime non vollero sgorgare dagli occhi.

D'improvviso, ovviamente, tutto sembrò calmarsi, tranne l'ululato del vento che mia moglie mai ammise di aver udito. Ah, povera donna!

Corsi di sopra e mi rimisi a letto acciambellandomi su me stesso.

Chiamai la polizia soltanto il giorno dopo.

 

Questo è quanto è accaduto esattamente tre mesi fa. Era stata una disgrazia, ma il dottor Sclerozzi, medico e amico di famiglia, anche in questo caso è stato abbastanza chiaro nel dirmi che ho avuto almeno il 75% delle responsabilità sulla morte di mia moglie. Questo secondo i suoi studi psico-statistici. Naturalmente non gli credo, ma le sue parole, come sempre, hanno seriamente influito sulla mia integrità mentale. Alterno momenti di perfetta lucidità in cui sono consapevole dei miei assurdi disturbi, a momenti invece di devastante crisi: i suoni e i rumori che assorbe l'immaginazione della mia mente sembra che io li ascolti realmente, sembra che davvero passino per le mie orecchie.

Spesso, durante le lunghe notti insonni, scorgo l'immagine goffa di Sclerozzi che mi punta un dito contro, come per dirmi che sono uno spietato omicida di questo inizio secolo, nonché pazzo.

Credo che il dottor Sclerozzi, ormai ex medico ed ex amico di famiglia, sia la causa di un mio secondo malessere, ossia la voglia irrefrenabile di prendere a calci nel culo gli esseri umani. Mi ha fatto intendere di essere un demente, e lo sono parzialmente diventato. Mi ha fatto capire di aver assassinato mia moglie, ed ora, quando la porta viene raschiata da qualcuno, vedo Carolina che accosta un orecchio alla mia testa e poi mi dice "caro, perché mi hai ammazzato?".

Purtroppo quello di tre mesi fa non è stato l'unico evento drammatico ed assurdo dovuto alla mia allucinante malattia. Altri ne sono accaduti, più drammatici e meno drammatici, più assurdi e meno assurdi.

Due mesi or sono è avvenuto un episodio che l'assennato lettore potrà forse trovare alquanto paradossale.

Lavoro, pardon, lavoravo per una società finanziaria la cui sede principale è situata all'ultimo piano di un enorme edificio nel centro direzionale della città.

Quel giorno, una volta entrato nell'edificio, mi apprestai a fare ciò che puntualmente facevo da dieci anni tutte le santissime mattine: prendere semplicemente e innocentemente l'ascensore. Con me salì a bordo una vecchia signora pesantemente truccata.

- A che piano va, signora? - le chiesi con cortesia.

- Al quindicesimo.

Bene, anch'io dovevo salire al quindicesimo.

- Mi scusi signore, lei lavora qui?

La sua voce era fastidiosamente acuta.

- Sì, nella società finanziaria.

- Nella T.E.B.?

- Sì.

Mi sforzai di sorriderle.

- E lei dove va? - le chiesi.

- Proprio nel suo ufficio.

- Magnifico!

Non gliel'avessi mai chiesto dove stesse andando! La vecchia mi pose una raffica di domande astratte sulla società, mentre io scalpitavo nella speranza che l'ascensore giungesse presto a destinazione dopodiché l'avrei lanciata nella rete di certi miei sadici colleghi. Ma un modo avvenne per interrompere bruscamente le sue domande: si bloccò l'ascensore. Accadeva raramente ed io comunque sapevo sempre come comportarmi. Ma, per nostra tremenda sfiga e come è naturale che fosse in un racconto del genere, proprio in quel momento i disturbi del mio male si riacutizzarono spietatamente. La vecchia si fece subito giallastra in volto e il trucco cominciò a dileguarsi.

- Oh mio dio, e che si fa?

In un momento di lucidità avrei senz'altro saputo come agire, ma ora ero in balia della mia folle malattia.

- Non si preoccupi signora. Non si agiti, eh?

Ma la vecchia dovette accorgersi delle mie mascelle sotto l'estasi di un ballo sudamericano.

- Anche lei è spaventato, vero?

Non seppi negarlo e la vecchia si prodigò in innumerevoli versioni del segno della croce.

Udii, anzi, oramai è il caso di dire che il mio cervello percepì un suono metallico che raggelò quel poco di sangue che ancora scorrazzava nelle mie vene.

- Ha sentito anche lei questo rumore agghiacciante?

- Che rumore? Oh sant'Antonio, cos'è? Io non sento nulla!

Il suono mi trapanava la scatola cranica e lo sentiva solo la mia mente.

- Ho paura che sia accaduto qualcosa di spiacevole all'ascensore.

- La prego, non lo dica. Stia zitto!

Tremavo, e le ginocchia mi si piegavano. La vecchia tentò di sostenermi.

- Stia su, per l'amor di santa Chiara!

Mi parve di sentire la rottura di un cavo e mi accovacciai al suolo coprendomi le orecchie.

- Cosa le prende?

- Credo che si sia rotto un cavo. Non ha sentito?

Fece cenno di no con la testa. Non riusciva più a parlare, e sentii nostalgia delle sue domande sulla società per cui lavoravo. La vidi boccheggiare e tentare di strapparsi il cuore.

- Cristo, si sente male?

S'accasciò a terra, appesantita dal suo trucco, e crepò, senza nemmeno dire amen.

Poi, come prevedevo, non udii più nulla, silenzio assoluto. L'ascensore venne sbloccata e mi dissero, naturalmente, che nessun cavo s'era rotto. Avevano sentito le preghiere della vecchia ed erano accorsi.

Povera vecchia con la passione del meraviglioso mondo della finanza, ancora oggi ho impressa la sua immagine boccheggiante. Povera donna, come mia moglie. Povere donne.

 

Un mese fa, poco prima di essere gentilmente sbattuto fuori dalla società, avvenne l'ennesimo caso.

Mi trovavo nel mio studio. Ero tranquillo: un tè indiano fumante sulla scrivania e musica da camera ad allietarmi. Poi successe qualcosa. Sollevai la punta della penna verso l'alto.

- Mi sembra di aver sentito un leggero boato sotto i miei piedi. Ecco, ora lo sento più vicino, ora più forte.

Il mio capo ufficio, buon per lui, non mi ascoltò. La segretaria sì, invece.

- Sta dicendo che ha sentito una scossa di terremoto? - chiese lei istericamente.

- Madonna, sente? Sarà crollato un palazzo! Si tappi le orecchie!

Mi misi sotto il tavolo per ripararmi da non so che cosa. La ragazza tentò il suicidio, considerandosi già vittima di calamità naturale. Si tuffò contro i vetri del finestrone panoramico. Allora, in ufficio, ci fu il vero terremoto.

Per fortuna la ragazza si era procurata solamente un leggero trauma cranico, rimanendo col sorriso ebete sulle labbra per tutto il resto della sua vita.

Povera donna, come la vecchia, come mia moglie. Povere donne.

 

Questi sono solo alcuni casi avvenuti a causa della mia malattia.

Ora sono qui (che vi frega dove?) a scrivere per voi, rendendo testimonianza del mio male attraverso i fatti che più ricordo nitidamente.

Il commissario Pummarola, che si interessò e tuttora si interessa a questi casi, al momento non ha riscontrato in me alcuna responsabilità, oggettiva o che altro, sulle vittime del mio delirio. Quindi sono libero, al contrario di come vorrebbe il carissimo dottor Sclerozzi, il quale va ad abbuffarsi nei salottini della città indicandomi come il peggior assassino degli ultimi trent'anni, gravemente malato di mente.

Sono un omicida. Sono un pazzo. Il dottor Sclerozzi ha giudicato, ha sentenziato.

Scrivo queste pagine tra il fragore di una violenta tempesta e la convinzione di aver sfracellato la testa di mia moglie. Grazie, esimio dottor Sclerozzi.

Scrivo tra le grida di donne terrorizzate per l'invasione dei topi di cimitero nella loro quotidianità e il suono degli arnesi del meccanico sotto casa mia che tenta di rimettere a posto la macchina del dottor Sclerozzi.

Scrivo nel bel mezzo di una festa di suoni e rumori: si balla, si ride, si canta, si suona, si gridacchia.

Ho accanto a me una magnifica mazza di legno. Mi ha telefonato il dottor Sclerozzi comunicandomi che tra non molto passerà a casa mia per riprendersi le lettere che scriveva a mia moglie.

Appena s'avvicinerà a questa scrivania gli spaccherò quella gran bella testa di cazzo che si ritrova. Tanto, con tutti i rumori che ci saranno, chi minchia ci sentirà?

Ssst! Ho appena sentito il campanello della porta.

Voi lo avete sentito?

© Luca Palumbo





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