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Universitario
di Attilio Scatamacchia
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Prologo
Entri nell’ambito ovattato della 4.1, l’aula enorme dell’ultimo piano della facoltà dove si tengono tutte le lezioni di Analisi I, Fisica I e le altre materie del primo anno, che è quasi l’alba; ti guardi intorno stando al centro dell’aula e quello che vedi è una distesa di banchi e sedie vuote identiche a quelle su cui sedevi nelle aule del liceo scientifico della tua scuola solo tre mesi prima, ed istantaneamente pensi, come fai sempre da alcuni giorni, che la tua carriera di matricola di ingegneria è cominciata con il piede sbagliato. Dai lunghi finestroni che si spalmano su tre dei quattro lati dell’aula, vedi sulla sinistra il Gran Sasso; pensi che non ci sei ancora stato sul Corno Grande e muori dalla voglia di andarci, di tramortirti sotto il peso dello zaino, mentre cammini e massaggi i tuoi pensieri con il vento della piana di Campo Imperatore. Invece sei qui, e visto che ci sei ti siedi sopra un banco, facendo ciondolare una gamba come fai di solito, mentre l’altra la tieni facendo in modo di poggiare il piede a terra; sei in montagna, sfiori quota mille metri se magari saltelli un po’ e sei costretto a stare fermo sulle tue gambe ed onestamente pensi che ci sia qualcosa di sbagliato, se di anni non ne hai neanche venti, hai il nomadismo nelle gambe e sei il rover di un clan. La tua mente ciondola ancora tumefatta dal sonno insieme alla tua gamba destra, ma visto che non hai niente da fare ed hai poca voglia di mettere in cantiere un pensiero nuovo di concessionaria, di quelli con ancora la plastica sui sedili, sorridi nel guardare Carlo, il tuo compagno di stanza e di sventure, mentre appoggia una quantità di quadernoni stimabile attorno alla trentina su tutti i banchi delle prime file, senza saltarne neanche uno. Senti pronunciare il tuo nome mentre il tuo amico ti da ancora le spalle, “Tu dove ti metti?” ti chiede atono. “Dove ti pare” gli dici, mentre pensi che sei sempre apatico di prima mattina. “Allora ci sediamo in prima fila: destra o sinistra?”, ride ed anche tu ti fai allegro: “Sempre a sinistra!” dici, ma aggiungi serio che è l’ultima volta che ti siedi così avanti, perché finisci col vedere alla perfezione solo le scarpe del professore di Analisi, visto che il palco è quasi alla stessa altezza del banco; per guardare la lavagna per intero sei costretto a girare la testa a destra e a sinistra e magari il professore pensa che fai il lecchino per raccattare uno o due punti in più nel parziale della settimana prossima. Poi sdrammatizzi: “A meno che non venga a farci l’esercitazione la nuova assistente di Ambrosio, come si chiama quella?”. Carlo ride nel suo modo contagioso esponendo i denti bianchissimi e nel dire il cognome aggiunge: “Quella sa fare bene un solo tipo di esercitazione, secondo me”.
“A me andrebbe di lusso” argomenti ridendo a tua volta. Per alcuni attimi torna a regnare nella 4.1 il silenzio ovattato che ti aveva risucchiato appena avevi tirato verso di te la porta pesante e a tuo giudizio fatiscente, che immette in un ambito che ti ricorda più un magazzino usato per il vettovagliamento di una caserma, che un luogo di divulgazione di complicate teorie matematiche o dei migliori metodi per il calcolo di un limite, che era l’argomento dell’ultima esercitazione dell’assistente. Poi dal fondo dell’aula dove ora tu e Carlo vi trovate, guardi la lavagna e la giudichi lontanissima e pensi che se dovessi seguire una lezione da dove stai ora, dopo dieci minuti ti lacrimerebbero gli occhi e decideresti di farti una partita a briscola col tuo vicino di banco, immancabilmente Carlo, oppure se ti stancassi delle carte dopo un po’, fisseresti la tua attenzione, e stavolta per tutto il tempo che rimane fino allo spegnimento del microfono da parte del professore di turno, sui riccioli di quella brunetta che ti piace e che da quando l’hai notata si siede sempre a metà aula, sulla destra. Ti riprometti di venire a sapere entro oggi almeno come si chiama e lo giudichi un buon motivo almeno questo, per esserti alzato alle sei e un quarto che non era nemmeno giorno, anche se non lo dici a Carlo. Invece punti l’indice contro le file dei banchi contrassegnati dai quadernoni, rompi il silenzio e lasci che la tua voce inondi materica gli spazi vuoti della 4.1 con lo stesso effetto di uno scroscio d’acqua su un pavimento di piastrelle: “Per chi sono tutti quei posti che abbiamo occupato? Non sono troppi?”
“La maggior parte per i soliti. Una decina sono per alcuni ragazzi che ho conosciuto dopo l’ora di Disegno. Ci sono anche due ragazze; una delle due è carina”.
Quando il tuo amico termina la frase realizzi con una certa rassegnazione quello che tu e lui avevate già imparato sin dal primo giorno in cui varcaste l’ingresso della Facoltà a facciata color terra di Siena e che ti faceva pentire quasi amaramente di non aver preso Lettere Moderne, o Biologia;
Uno - in questo posto il rapporto ragazze/ragazzi è esattamente due a dieci.
Due - tutte le ragazze deambulano a coppie e mai da sole, forse per paura di aggressioni da parte di qualche sconsiderato particolarmente in vena di scherzi.
Tre – matematicamente se una delle due ragazze è piuttosto carina, l’altra è immancabilmente un cesso (forse perché quella carina ha paura che le rubino la piazza).
Quattro – quelle carine, tranne rare eccezioni, si diradano progressivamente con il procedere delle settimane, a mio avviso o perché hanno trovato il futuro sposo o perché ripiegano su Biologia, covando comunque le stesse speranze di matrimonio delle loro colleghe di cui sopra.
Di modo che quando il tuo amico ti guarda con fare interrogativo, tu non hai sul volto nemmeno i segni dello stupore e non fai nemmeno in tempo ad articolare la frase trasmessa in differita rispetto al pensiero spiritoso che ti è venuto in mente, perché senti il vociare disorganizzato di là dalla porta e vedi la maniglia antipanico abbassarsi ed entrare alcune matricole come te, ma che tu non conosci; alcune hanno accento locale, altre nettamente pugliese, allora guardi l’orologio, leggi le otto meno un quarto e pensi che il silenzio ovattato dell’inizio quasi ti manca quando sai che fra poco il vociare si farà così assordante che i tuoi stessi pensieri si dovranno accordare con quella confusione se vogliono rimanere a galla, così te ne rimani in silenzio per un po’, mentre Carlo saluta i suoi amici del corso di disegno e predispone i posti a sedere, come un cameriere in un ristorante di lusso, mentre osservi quel mare di volti giovani come il tuo, che non avrai mai tempo di conoscere tutti, mentre tu getti un ultimo sguardo verso le montagne e consideri che ci vorrà del tempo, prima di uscire di qua, dall’ambito ovattato della 4.1.

Mese uno
Scendi dall’autobus e subito ti investe un vento freddo a cui non sei preparato, che hai conosciuto solo camminando in route fra i sentieri della Maiella; ti ricordi di quella volta nella Valle dell’Orfento in cui inizia a nevicare anche se è la metà di aprile e a te, dopo un po’ si congelano le mani: le vedi sbiancare di colpo e dopo alcuni minuti non senti più le dita. Carlo si chiude a riccio nella sua giacca a vento, mentre tu muovi incerto i primi passi sull’asfalto di Piazza Fontana Luminosa come se fossi il primo uomo sulla Luna, ma al freddo almeno ti sei già abituato. Aspetti che il tuo compagno di stanza e di sventure ti raggiunga, coprendo la piccola distanza che vi separa, mentre due passanti discutono di un argomento che tu non capisci ed a un tratto pensi di stare fra i boschi della Gallura e non ai piedi dell’Appennino centrale: “Li scì vista la quatrana quanno sci iuto loco?”, “No non ci sò iuto, perché me sò messo subito a iu letto”. Carlo che sente anche lui quel dialogo e intanto ti raggiunge, scoppia a ridere nel suo modo contagioso, e tu sorridi, mentre ricominci a camminare con il borsone da viaggio nella mano destra, “Dobbiamo prendere l’undici per arrivare su” dici e intanto paragoni te stesso più ad un esiliato per crimini politici con effetto immediato, piuttosto che ad uno studente universitario, se sei costretto a viaggiare di domenica pomeriggio prendendo la corriera dell’una da Pescara, per arrivare a destinazione con la desolazione delle tre. Non ti va di parlare e percorri in silenzio la strada principale fino ai Quattro Cantoni, di modo che hai tempo di confezionare un pensiero fresco di tipografia, che ha lo stesso profumo di inchiostro dei libri nuovi che tu hai sempre desiderato leggere. Confronti così la tua condizione di solo un mese e mezzo fa con quella attuale e ricordi distintamente come eri diverso. Guardi mentalmente la foto tessera che è stata scattata ad agosto, quando ti sei immatricolato, che ora campeggia nel risvolto interno del tuo libretto degli esami ancora vuoto e consideri con una certa soddisfazione i tuoi lineamenti abbronzati ed i capelli ordinatamente riavviati all’indietro. Sei semi-cosciente di quello che ti aspetta, così passi l’estate raggiungendo il massimo della tua estroversione con i tuoi amici migliori; rimani al mare quasi tutta la giornata, che regoli giocando a beach volley a partire dalle undici del mattino, mentre nell’intervallo fra una partita e l’altra, ti fermi a parlare con quella ragazza che ti piace, che è stata lasciata da poco dal tuo migliore amico, e che una sera in cui siete rimasti voi due soli di fronte a quel falò quando gli altri vanno a farsi il bagno, tu baci sfuggente, dopo averla guardata alcuni minuti negli occhi, mentre lento le parli. Oppure inanelli una serie di serate assurde con i tuoi amici, ed in particolare ne ricordi una in cui avete bevuto una cosa di troppo e tu canti Alive dei Pearl Jam a tutta gola, mentre uno dei vostri si stende sulla linea di mezzeria della lingua d’asfalto del lungomare di Francavilla alle tre di notte. Ed anche se non hai la macchina e non hai nemmeno la patente o i soldi dei tuoi amici, tu ti senti bene lo stesso e neanche ci pensi che l’esame di Stato ti è andato male perché alla professoressa di italiano dici apertamente che non ti piace D’Annunzio e quella non fa mancare nulla alla sua vendetta.
Carlo è uno che si stanca dei silenzi troppo lunghi molto prima di te, così riprende la parola dopo essere riemerso da pensieri diversi dai tuoi e mentre scansa in slalom una o due coppie anziane a spasso per la città, troppo lente per le vostre giovani gambe, ti dice: “Appena arriviamo a casa faccio una telefonata a Stefania. Mica ti ricordi se c’è una cabina telefonica da qualche parte?”
“Si che c’è, sta in piazza” e aggiungi “non ti ricordi? O l’amore comincia a farti brutti scherzi?”,
“No non è quello” ribatte lui “Volevo vedere se stavi attento tu, che stai sempre con la testa fra le nuvole”. Consideri con una smorfia che il tuo amico ha ragione e mentre cammini, alzi lo sguardo verso l’ultimo tratto di strada che vi separa dal palo arancione della fermata dell’undici, mentre pensi che se Carlo ti ha parlato della sua nuova ragazza per quasi tutto il tempo del viaggio, questo non fa di te una persona migliore. Solo perché tu sei libero da legami e non sei capace di averne di duraturi; solo perché tu non riesci a tenerti una ragazza per più di un mese ed in qualche modo te ne vanti, almeno davanti allo specchio; solo perché lui è innamorato e tu non lo sei mai stato.
L’autobus vi culla bruscamente nel percorrere le curve, come se vostra madre vi allattasse e contemporaneamente corresse ad una maratona, o preparasse il sugo per l’ora di pranzo.
Per forza centrifuga tu dondoli la testa a destra e a sinistra e dici a Carlo:
“Domani che ci tocca seguire?”
“Domani ci sono due ore di Analisi e tre di Geometria”
“Dobbiamo occupare i posti?”
“Lo sai che lunedì mattina tocca a noi”
“Conti di farli i parziali?” divaghi ” Dicono che convenga”
“Si certo, e tu?”
“Sicuro”, dici e intanto ripassi mentalmente il tragitto che farai domani per andare in facoltà, osservi il paesaggio bagnato che filtra dal finestrino opaco dell’undici e consideri che le pozzanghere saranno ghiacciate alle sette meno un quarto di mattina.
Non ne sei troppo sicuro, ma inizi a pensare che Carlo non regga bene i ritmi delle vostre giornate passate per lo più ad ascoltare lezioni su lezioni, su lezioni oppure, il che è peggio, a dare retta a certe matricole istituzionalizzate ancor prima che l’anno accademico sia iniziato ufficialmente, con le loro stupide barzellette matematiche o i loro discorsi irripetibili circa gli aneddoti simpatici che circolano sui professori. La verità è che la vita universitaria non ti piace un gran ché ed anche la voglia di studiare è una eventualità tutt’altro che banale. Carlo non segue più tutti i corsi e tu vorresti seguirlo a ruota, ma ti tappi il naso e quando entri in un’aula non dai retta a nessuno, seguitando a prendere appunti, stoico e impermeabile. Quando torni a casa lo vedi ciondolare per casa con il walkman in mano, mentre ascolta Venditti quasi alla noia; butti lo zainetto Invicta sul letto ed apri il libro di Chimica, l’unica materia che studi volentieri, anche se spesso sciogli i tuoi pomeriggi pensando che la tua vita si stia diroccando come quel castello che vedi ogni fine settimana, lungo la piana di Navelli, che annaspa sul costone della collina che sovrasta il paese. Forse dovresti tornare a camminare, durante l’estate che verrà, e levigare le asprezze che nascono colonnari dalla cima dei tuoi pensieri ed andare a vederlo con i tuoi occhi, quel castello, anche se in fondo tu sai già che la valanga degli appelli della sessione estiva, farà di tutto per impedirtelo e ti sommergerà completamente, senza respiro. Oltre il rettangolo della finestra distingui nettamente uno scorcio della città ormai coperta dall’ombra della montagna, mentre il sole trasversale del tramonto lascia che tutte le cose intorno vengano investite da una luce benevola, come se Dio stesso, nell’ora dei Vespri, si prendesse la briga di fermarsi un attimo ad appianare lento i lembi sgualciti della Creazione. Quando vedi l’ultimo cristallo di malessere sciogliersi dentro la vastità oleosa del tramonto, ad un tratto la tua mente si fa sgombra e la trasparenza acquatica dei tuoi pensieri ti spinge alla serenità ed alla benevolenza, e tutti i malumori accumulati nel pomeriggio, tutte le miserie della giornata si dileguano di colpo: “Oggi ho incontrato quella ragazza di cui ti parlavo l’altra sera”, dici mentre ti stendi sul letto e guardi la superficie neutra del soffitto, “E di cosa avete parlato?” si incuriosisce Carlo sorridendo nel suo modo sincero, “Dell’unica cosa che mi poteva venire in mente: delle dispense nuove di Geometria, degli esercizi svolti e del voto che aveva preso lei nel primo parziale”. Il tuo amico ti guarda in modo vago, si rimette sulle orecchie le cuffie del walkman, forse vorrebbe dirti qualcosa di serio, ma Carlo intreccia semplicemente le mani dietro la nuca guardando anche lui il soffitto e dice solo, in tono allegro: “Chiamala durante le vacanze: va a finire che ci esce pure una botta, se sei fortunato”.

Mese tre
Greta è un nome bellissimo per una studentessa di lettere: è questa la frase che dici quasi d’istinto quando decidi con una scusa di rivolgere la parola alla ragazza dagli occhi neri che ti siede di fronte all’ora di pranzo, nell’ambito confusionario della mensa centrale e quasi alzi la voce per farti capire mentre con la forchetta arrotoli qualche filo di pasta al sugo e senza guardarla le chiedi cosa studia e come si chiama, in stretta sequenza. Greta sorride e non vede in te nessuna minaccia, così si sporge lievemente oltre il vassoio di legno plastificato per versarsi dell’acqua nel bicchiere trasparente e chiede della tua facoltà; consideri che in genere dire in giro che frequenti ingegneria incute ammirazione e rispetto nelle ragazze, solo che tu lo ripeti più che altro a te stesso (e quasi non ci credi) senza voler ottenere né l’una né l’altra reazione e questo da qualche parte, esce fuori. L’accompagni a casa, abita dalle parti di Piazza Duomo e lei così, senza una ragione particolare ti guarda da sopra la montatura leggera degli occhiali, mentre tu ti distrai e ti perdi nell’orizzonte urbano delle panchine di marmo e dei lampioni ornamentali, ti dice a bassa voce, quasi ti confessa, che lei, così da parte sua: “Ecco, io scrivo poesie”, lasciando che segua una pausa in cui abbassa gli occhi sulla pavimentazione in pietra e sembra essersi pentita di aver pronunciato una frase così compromettente, solo che c’è da aspettarselo in una studentessa di lettere, sorridi mentre lo pensi; “Che cosa ci sarebbe da ridere?” Greta ti guarda imbronciata, “Niente, solo che me lo aspettavo, magari non pensavo che me lo dicessi, ma immaginavo che tu fossi una di quelle che scrive, d’altra parte” concludi “fai Lettere, non ingegneria e comunque anch’io scrivo”. “Veramente?”, straluna gli occhi Greta, indugiando sulla seconda e di veramente ed allargandosi al suo accento pescarese, fino a quel momento accuratamente tenuto a bada “e cosa?”. “Mah, le stesse cose che scrivi tu, poesie, racconti. Una volta frequentavo degli amici che avevano messo su un gruppo e visto che non so suonare nemmeno il triangolo, allora mi mettevo a cantare, mentre durante le ore di filosofia e storia, a scuola, buttavo giù qualche strofa da accoppiare ai riff di chitarra elettrica dei miei amici che si riunivano nel pomeriggio”. Greta sorride alla notizia e indica un portone: “Io sono arrivata”, poi quando già sembra inghiottita nell’ombra dell’androne, con lo stesso tono con cui tu chiederesti che ora è, l’unica ragazza che sei stato in grado di notare attraverso la marea informe di matricole affamate della mensa universitaria, a bassa voce, ma guardandoti negli occhi ti chiede: “Quand’è che mi fai leggere qualcosa?”, “Stasera”, ridi furbo “a patto che anche tu mi faccia leggere qualcosa. Va bene alle nove e mezza? Passo io, ovviamente.” “Si, certo”. “A dopo allora”. Vi salutate in maniera convenzionale e ti incammini verso casa, mentre chissà come in un momento del genere, ripensi a Carlo che si è ritirato un mese fa. In realtà sei in un periodo in cui è abbastanza facile per te, abbandonarti alla depressione e tutto sommato, anche se Greta non ti sembra la soluzione per sgrovigliare i fili dei tuoi problemi, sicuramente ti aiuta a non pensare troppo.

Anno uno
Guardi senza rassegnazione la sagoma ruvida del Gran Sasso mentre si addormenta sui colori rosa-arancio del crepuscolo autunnale, e tu ricordi come ci sei arrivato sulla vetta del Corno Grande, pieno di timore e rabbia, quella mattina di fine agosto: sai che è la prima volta che ti accade di avere paura della montagna e sai che non hai più voglia di resistere al dolore ed alla stanchezza fisica che il tuo corpo in qualche modo, reclama. Mentre parli lento, Greta cerca di capire, rimanendoti di fianco leggermente appoggiata al braccio destro, mentre inarca le sopracciglia interrogative e guarda a volte te e a volte la sagoma dell’orizzonte terso, alternativamente. “E’ un po’ come quando tutti i nodi vengono al pettine”, continui monologante, e mentre lo dici sai che è vero, perché hai visto gente piangere durante le condivisioni e sei sicuro che tanti ne vedrai, ma non per la stanchezza. Dici a Greta che per un attimo hai pianto anche tu sotto la pioggia, durante il primo giorno di route, perché ti sei sentito perso e solo, ma sai che nessuno se n’è accorto ed in qualche modo ti dispiace. Tutta la fragilità che tu ti glori di non avere, nella vita borghese, sembra quasi affogarti ora, per la violenza con cui affiora da dentro la tua anima. “Ad un tratto sei tu ed il tuo rumore di fondo e non puoi fare a meno di dargli ascolto.” Greta ti chiede che cosa sia con la stessa curiosità di quando era una bambina bella e altera. Le rispondi che non lo sai nemmeno tu, che forse è la voce della coscienza, di quella buona, almeno speri. E’ quella voce che viene coperta dai rumori del traffico, dal vociare microfonico dei professori dell’università, dalla pubblicità in televisione o anche da altre voci angosciate che vivono dentro di te, che si lamentano degli esami da fare, che si ostinano a dirti che stai meglio se hai più soldi, che ti spingono a farti sprofondare in ottomila impegni perché così almeno eviti di pensare troppo. “Cosa dice il tuo rumore di fondo allora?”, Greta esplora sorridente il broncio dei tuoi occhi: “Mi dice di non smettere mai di lottare e di guardare avanti, sempre”.

Finale
Alcuni anni dopo, durante una serata di fine estate che sei sfinito e a pezzi e quasi ti sembra strano il fatto di non sentire il peso dello zaino sulle spalle, incontri i tuoi compagni di route, solo più puliti e più gradevoli da guardare, che hai lasciato solo due ore prima, quando smontate dal furgone bianco della parrocchia, malfermo e sgangherato come un mulo stanco alle soglie della pensione. Stavolta sorridi e ripensi al Monte Amaro con rispetto e gioia e sai che i tuoi compagni riguardano a questo campo mobile con la stessa determinazione. E mentre fra i tavoli all’aperto scorrono birra, panini e patatine fritte e tu guardi i ragazzi di cui ti glori di essere il capo clan, mentre sorridi e canti allegramente, ad un tratto scorgi Greta con le sue amiche che nel frattempo ti ha già riconosciuto. Così quando lei ti raggiunge e ti saluta solo pronunciando il tuo nome, senti che qualcosa dentro di te è cambiato ed ancora è in via di cambiamento, che la tua tossicodipendenza da malinconia a cui dai il nome depressione, ormai è solo un cane addormentato che hai smesso di accarezzare da qualche tempo. Forse è solo una sensazione, forse è solo l’euforia dell’alcool o dell’impresa non comune, ma ad un tratto pensi che la vita è bella, comunque. Greta ormai è vicina e tu sorridi; allora la guardi negli occhi e nello stesso tempo la guardi intera e tu non sai come, ma è come se lo facessi per la prima volta. Solo una frase ti viene in mente, l’unica che esprima gratitudine e sincerità nei suoi confronti, così semplicemente le dici: “Sei bellissima” e non vedi lussuria o volgarità in queste parole.

© Attilio Scatamacchia





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