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Il divino Sobek
di Virginia Less
Pubblicato su PBSE2019


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Ieri abbiamo navigato per l'intera giornata.
Il sacro Nilo è imponente,largo e calmo, ma la corrente si può vincere solo con una grande vela, formata da strisce di papiro, mentre l'albero, come l'intera imbarcazione, è costruito in legno d'acacia.
Grazie ai venti etesii, che portano le navi su per il fiume, intenso è il commercio e numerose le onerarie che salgono con la vela e scendono con la corrente. Poco uso gli egizi fanno dei remi, perchè sulle loro navi scarseggiano gli schiavi, e se manca il vento, come talvolta accade nella stagione invernale, preferiscono farsi trainare da possenti coppie di buoi.
Coloro che invece discendono il fiume utilizzano tuttora la tecnica descritta dal grande Erodoto: legano davanti alla nave una porta di tamerischi che galleggia in guisa di traino e dietro legano una grande pietra destinata, strascinandosi al fondo, a mantenere diritta la navigazione.
Lungo le sponde molta gente è al lavoro nei campi, e scribi con numerosi sorveglianti ne controllano l'opera.

Strabone si lamenta un po' del caldo e degli insetti, ma le tende e i veli che il nostro ospite Sihmet ha fatto disporre ci proteggono abbastanza, e le cose da vedere sono molte.
Spuntano tra gli alberi, verso le balze rocciose di là dalla pianura fertile, magnifici templi scavati nella pietra, e talvolta quelle loro sorprendenti costruzioni, le piramidi. Sono vere meraviglie del mondo e abbiamo avuto modo di ammirarle, insieme alle grandi sfingi, durante il nostro soggiorno a Menfis.
Strabone si è portato dietro solo due schiavi e Decio Rufo appena tre: quale eques illustris ha ottenuto con fatica e sotto tal condizione il permesso imperiale. In compenso ha con sè mezzo manipolo, assegnatogli da Elio Gallo, la cui benevola protezione ci consente un così confortevole viaggio.
Egli è rimasto a Menfis, ove terrà in questi giorni un conventus di particolare importanza, con il quale spera di mettere un freno non traumatico alle lamentele dei giudei, sempre rancorosi nei confronti di noi greci. Questo praefectus Aegypti, dice Strabone, è ben diverso dall'altro Gallo, Cornelio, che ha fatto quella fine così vergognosa! Eppure si trattava di un uomo nobile e colto; non si riusciva a capire perchè il senato gli dimostrasse tanta inimicizia, e invece...
"Auri sacra fames", per citare proprio il poeta di cui era ottimo amico! Chissà quando Publio Virgilio riuscirà a terminare il grande poema che tanto lo impegna. Mi sembra opera di valore indiscutibile, a giudicare dai versi che ho avuto il piacere di ascoltare a Roma prima della partenza, anche se il paragone con Omero, che i romani azzardano, lo trovo davvero iperbolico.

Per tornare all'oggi, il nostro munifico ospite Sihmet, che ha un rango da mostrare, viaggia circondato da una vera corte, tre scribi, dieci tra schiavi e ancelle, poi il suo intendente, e ben cinque medici.
Subito con questi ho istaurato un fitto dialogo:non senza difficoltà perchè il loro greco lascia alquanto a desiderare, nè io sono in grado di esprimermi in egizio. Ne ricavo una sorprendente scoperta, e mi spiego il loro numero, che mi era parso spropositato.
Ognuno conosce e sa curare solo la parte del corpo, o il male, di cui è esperto. Ecco quindi la ragione, e molto essi si meravigliano ch'io sappia curare l'uomo intero.
Mi pare di capire che poco s'interessino dei principi generali della fisiologia e quasi mostrano fastidio nel sentirmi citare Erofilo ed Erasistrato, come se la grande tradizione di Alessandria debba considerarsi spenta ora che ci sono i romani. Forse non hanno torto, tutto sommato: di ben diversa libertà ha goduto la scienza sotto i re di quella dinastia. Quanto sapere è perito nell'olocausto della meravigliosa biblioteca, al tempi del primo Cesare! Un'immensa sciagura e un vuoto incolmabile.
Questi medici sembrano peraltro molto esperti di ciò che curano: forse l'esser legati a una sola conoscenza la rende più profonda e vasta, priva delle incertezze e dei dubbi che ahimè troppo spesso mi gravano l'animo.

A sera abbiamo ormeggiato in Arsinoè, città situata tra il Nilo e un grande lago detto Moeris. Due canali lo uniscono al fiume, e chiuse sono state costruite alle due bocche per trattenere le piene e restituire l'acqua nelle siccità.
Strabone si è affrettato a informarsi della lunghezza e della portata di queste vie d'acqua, poichè tiene molto, al solito, alla precisione delle notizie da includere nel suo libro. Io invece vado buttando giù queste note per mero diletto e per occupare il tempo, visto che il mio paziente -ringraziando gli dei- non lamenta al momento, malgrado l'età e le fatiche del viaggio, nessun particolare disturbo.

Sihmet ha qui dei parenti, presso cui siamo molto confortevolmente alloggiati; cena e conversazione si prolungano fino a tarda notte per la grande curiosità che i nostri viaggi destano in questi ricchi ma sedentari egiziani. Anch'essi suscitano la nostra, con la descrizione delle immani costruzioni che i loro antenati hanno eretto anche in questa zona, e che abbiamo qua e là intravisto dal fiume.
Andremo stamani a visitarne una, la maggiore di questa città, detta Labirinto, alla cui estremità si erge una piramide, sepolcro del faraone Ammenemhet, antichissimo conquistatore di Sichem e venerato come dio. Due delle molte e grandi statue che si scorgono nei pressi del lago gli sono dedicate.
Ci toccherà poi rendere l'offerta di rito al sacro coccodrillo, al quale la città deve il suo antico nome, cerimonia cui sono tenuti i visitatori, a scanso di gravi disgrazie nel viaggio. Siamo tutti molto curiosi di vedere da vicino il pericoloso mostro, e come i sacerdoti ne abbiano cura senza esserne divorati.
Sorprendente mi sembra questa sopravvivenza del culto degli animali, perchè altri -ho appreso- ne vengono venerati nelle diverse città.
Sempre meglio -rifletto, richiamando le mie letture- dell'assurda credenza in un unico dio, che in tempi remoti e fortunatamente per breve periodo fu imposta dal faraone Amenophis.
E mi viene di pensare che noi greci e adesso i romani, ciascuno a suo modo, poco abbiamo fatto per questa gente, che mostra grandi capacità e vasto sapere, ma ancora è succube di strane superstizioni e di una casta sacerdotale avida e corrotta...

La visita al Labirinto, una costruzione immane, anche se alquanto rovinata, ha messo Strabone nello stato d'animo agitato che per lui si accompagna alla scoperta: non la finisce più di andare avanti e indietro, misurando e annotando, e assilla di domande chiunque gli capiti a tiro, soprattutto i sacerdoti. Ne circola un gran numero, impettiti e pieni di sussiego, nelle loro gonnelle bianche e oro, con una pelle di pantera sulle spalle.
Sotto il grande colonnato, e più ancora all'interno, c'è una deliziosa frescura che rende gradevole trattenervisi, a onta della lugubre destinazione dei piani ipogei. Le loro innumerevoli camere ospitano infatti le sepolture degli antichi re e dei sacri coccodrilli.
Ma ad esse è proibito accedere; noi ci siamo aggirati per quelle altrettanto innumerevoli del piano superiore. Fortuna che Sihmet, e più ancora il suo parente, conosce bene il posto. Ci saremmo persi dietro Strabone, e non ci sono Arianne, in Egitto!
Anche se m'intendo poco di architettura, ho apprezzato al primo sguardo l'armonia del vasto portico e la grandiosità delle dodici sale parallele, tutte in bella pietra calcarea.

Andiamo quindi a rendere omaggio al sacro coccodrillo, quello vivo, che viene tenuto dai suoi sacerdoti in un laghetto, e nutrito con le offerte dei visitatori.La bestia,adorna di orecchini e braccialetti, appare impressionante. Sihmet si è premurato di portare vino e carne, subito presi in consegna da un giovane sacerdote che, aiutato da altri due, apre l'enorme bocca e vi introduce le offerte. Esprimiamo la nostra meraviglia per come il rettile sia stato sapientemente addomesticato.

Sopraggiunge per salutare Strabone - i cui libri mostra di conoscere- il capo dei sacerdoti di Sobek. Questo è il nome che viene attribuito al sacro mostro. L'uomo è anziano e sapiente, parla un ottimo greco e anche un po' di latino. Manifesta interesse per il mio paziente, ma assume un'espressione di cortese ironia quando, caduto il discorso su questioni astronomiche, lo sente contestare le tesi di Ipparco sulla rotazione terrestre.
Neppure io del resto accetto passivamente le teorie dei peripatetici e non appena si viene a parlare della mia professione mi affretto a dichiarare che sono un teorico, ovvero un dogmatico, convinto dell'importanza vitale del pneuma che si trova nelle arterie, e mi dilungo a illustrare con entusiasmo le scoperte di Posidonio.
Il sacerdote rimane alquanto pensoso, poi mi pone una serie di domande che nemmeno il mio maestro, ma solo lo stesso divino Ippocrate, avrebbe potuto formulare in un solo pomeriggio. Mi difendo bene, con il risultato (ho la presunzione di esserne convinto) di entrare nel novero dei pochi uomini stimati da Pohtak, gran maestro di Sobek. Deve essere dura la selezione di questi sacerdoti, se sono tutti come lui!
Hanno comunque perduto molto del potere che avevano con i faraoni, i romani non li considerano, e forse sbagliano. Il popolo però li venera, li teme e obbedisce ancora più a loro che a ogni altro funzionario, romano o egizio.

Mentre ci intratteniamo in dotti conversari, giungono altri visitatori a porgere le loro offerte, e il giovane sacerdote è occupatissimo a inseguire Sobek da un lato all'altro del lago per ficcargli in gola quelle prelibatezze. Buffa usanza, che riesce a suscitare un guizzo di ironia anche in quel pedante di Strabone.
Si è intanto fatta l'ora di pranzo, e Sihmet fa cenno di volersi congedare, con modi complicati e artificiosi, evidentemente legati al cerimoniale della loro tradizione, ma Pohtak impone la sua autorità e ci invita alla sua tavola.
Non possiamo rifiutare, e sarebbe stata una stoltezza! Se questi sono i decaduti epigoni di una casta sacerdotale un tempo potentissima, gli dei olimpi dovevano a costoro apparire frugali! La sontuosità con cui i cibi sono serviti, la varietà e la scelta, nonchè il numero e l'acconciatura dei servitori, le musiche e danze sono degne dello stesso Cesare trionfante. Eppure Pohtak si scusa: ci ha costretti a un pranzo di rimedio, non preparato!

E non preparato, di certo, è l'arrivo trafelato del giovane sacerdote incaricato della nutrizione di Sobek, che irrompe gridando e si getta a terra davanti al suo maestro:"Noi meschini, la maledizione di Ichneumon ci ha colpiti, quale irreparabile sciagura!".
Pohtak, grave, lo rampogna con poche sibilanti parole; egli si ricompone e, accostandosi al superiore, bisbiglia al suo orecchio qualcosa che deve esser di una gravità inaudita, se lo stesso gran sacerdote impallidisce e non riesce a dissimulare la forte emozione.
Non è da lui farne mostra, e un gelido terrore subito si diffonde tra gli egizi. Noi stranieri restiamo sconcertati, ma nessuno si cura di spiegarci cosa stia accadendo.Pohtak, ripreso il controllo, ci invita a terminare il pasto a nostro comodo e, scusandosi,si affretta a uscire, seguito da Sihmet.
A questo punto non è solo per Strabone che la curiosità prevale sulla gola: ci alziamo uno dopo l'altro e seguiamo i sacerdoti, che intanto sono corsi al lago.
Il luogo appare normale, salvo che tutti i settantacinque tra sacerdoti, novizi e inservienti si agitano ai bordi dell'acqua. Con loro alcuni visitatori, e uno spaventatissimo Sihmet, il quale ci viene incontro tremebondo e balbetta che il sacro coccodrillo non si trova più; i custodi temono sia caduto preda dell'icneumone. Una disgrazia orrenda: sette anni di disgrazie li colpiranno, e non è da escludere che tutti i sacerdoti abbiano a morire prima della luna nuova!
Affianco i suoi cinque medici nell'assisterlo e acquietarlo, perchè sembra stia per farsi venire un colpo, mentre Decio si affretta a offrire l'opera sua e pone a disposizione i soldati per la ricerca.

Strabone, intanto, si è messo in caccia anche lui. Con greca razionalità, ha iniziato a fare domande e deve esser riuscito a imporre il suo ascendente, perchè sembra che i più anziani lo stiano ascoltando.
Mi avvicino, e devo reprimere un sorriso. Si sta facendo spiegare, con tanto di disegni sul fango, cos'è un icneumone e come si comporta.
Avevo immaginato qualche terribile nemico, mostro o divinità infera.Veder disegnare un animaletto insignificante, poco più che una donnola delle nostre, e leggere nei volti di quei saggi un vero terrore, mi lascia stupefatto, finchè non spiegano che il piccolo ma feroce predatore ha la capacità di uccidere i coccodrilli più giganteschi.
La nostra incredulità rischia di provocare un incidente, specie dopo alcune incaute osservazioni di Strabone. Finalmente ci illustrano la straordinaria tecnica di attacco che l'icneumone adotta: si getta nelle fauci aperte e divora il mostro dall'interno!

Intanto le ricerche non danno risultati, e lo sconforto cresce. Strabone riesce infine a impostare una procedura logica:tra il lago e il sacro recinto si ricercano le orme di Sobek e quelle dell'eventuale icneumone, che sul fango umido si dovrebbero notare anche tra il pesticciato dei troppi umani.Nessuna orma è rintracciabile, a parte quelle che entrano ed escono dall'acqua e che corrispondono a ognuna delle sacre ingozzate. Impronte più piccole non se ne trovano.
Che una bestia di quasi venti piedi sparisca senza traccia visibile non convince. Del resto l'acqua, limpida e bassa, non potrebbe celare una rana. Dov'è allora - vivo o morto- il coccodrillo o la sua spoglia?
Dopo aver ispezionato ogni possibile anfratto, cespuglio, mucchio di sassi, ci raccogliamo scoraggiati sulla riva, istintivamente divisi in gruppi: noi stranieri, i soldati, gli egizi, sacerdoti e inservienti. Soltanto Strabone continua ad aggirarsi intorno, fermandosi ogni tanto a riflettere e ripartendo quindi di colpo, tutto agitato.
D'un tratto se n'esce a esclamare non so cosa, battendosi la fronte, si lancia su uno dei sacerdoti e prende a fargli un discorso concitato, indicando il lago. Mi avvicino in fretta e lo sento gridare.
- L'acqua, l'acqua... Il livello sta salendo: guardate le orme dei miei calzari- e solleva il piede a mostrare la suola- sono state sommerse, e le ho lasciate poco fa!-
Anche Pohtak si è intanto accostato e osserva con interesse la riva. Strabone gli chiede come il lago venga alimentato e se è possibile vuotarlo. Il gran sacerdote resta interdetto per un momento, poi impartisce secchi ordini agli inservienti. Dopo un'attesa assai lunga per l'impazienza che a questo punto tutti ci ha preso, notiamo che il livello dell'acqua non aumenta più.

Aspettiamo ancora,perplessi: nulla accade. Il capo inserviente si avvicina rispettoso e fa osservare che, avendo chiuso l'afflusso, il laghetto dovrebbe ormai aver ridotto visibilmente il suo livello, e non si comprende perchè l'acqua non cali. Sentito ciò Strabone gli chiede di mostrargli il canale di scarico e, al cenno affermativo di Pohtak, l'uomo si avvia verso l'estremità destra del bacino. Lo talloniamo compatti fino a una piccola diga in muratura.
Egli si draia a terra e indica il foro semisommerso dello scolo; al suo ordine, due inservienti scendono nell'acqua bassa e introducono le mani nello scarico...Urla di raccapriccio, esclamazioni terrorizzate e gesti di scongiuro: un insieme impressionate di atti e di suoni che non riuscirò a dimenticare tanto presto.
Sobek, il mostro sacro, il veneratissimo animale, ha incontrato un'orribile fine:rinchiuso nello stretto canale, il ventre squarciato!
I sacerdoti l'hanno deposto con reverenza sulla riva e si accingono a compiere i complessi atti rituali prescritti per il luttuoso evento.
Gli giro attorno incuriosito, mantenendomi a una distanza rispettosa, a scanso di involontarie offese al sentimento religioso degli egizi.
Minor tatto ha mostrato Strabone, misurando tutto quel che poteva e annotando ogni cosa sulle sue tavolette. Solo poco fa sono riuscito a convincerlo a prendere un po' di riposo, dopo avergli somministrato un infuso di erbe atto a ridurre l'atrabile, che facilmente eccede nei temperamenti collerici come il suo -specie in circostanze inconsuete come la presente- e a riequilibrare gli umori.

La bestia è davvero spropositata, ben più che venti piedi, fauci immense, denti innumerevoli: offrirei anch'io un gallo ad Asclepio per poter osservare l'icneumone, il piccolo mammifero fornito di soli quattordici denti - così m'han detto- che riesce ad avere la meglio su animali di tal fatta!
Mi si accosta uno dei medici egizi. Non sembra molto colpito dalla tragedia; nativo di Abido, non deve tenere in gran conto questo culto di Sobek.E infatti mi dice, indicando le colline che s'intravedono a est del Nilo:- Pensare che lassù onori non dissimili vengon tributati alla bestia che l'ha ucciso!-
Chiedo spiegazioni e quello, nel suo greco zoppicante, mi racconta che nella città di Eraclea l'icneumone è grandemente venerato proprio perchè nemico mortale del coccodrillo, nelle cui mascelle aperte è solito gettarsi impavido per divorarne le interiora e uscire quindi, vivo, attraverso il ventre dall'animale morto.
E' la seconda volta che sento parlare di questa tecnica d'assalto, e mi arrischio ad accostarmi maggiormente a Sobek, per meglio osservare il grande squarcio prodotto dall'icneumone.

E' sera, ormai. Ho riflettuto a lungo prima di decidermi a chiedere un colloquio a Pohtak. Uno dei sacerdoti mi introduce nel tempio avvertndomi che dovrò attendere perchè egli è intento alla preghiera; mi trattengo un po' a osservare con rinnovato piacere le smaglianti pitture - uomini e animali, esseri mostruosi e piante delicate - che adornano le pareti e il soffitto, sulle quali il bagliore delle torce crea effetti suggestivi.
Pothak è prosternato sul fondo, ai piedi della grande statua della dea Maat.La riconosco perchè è molto simile ad altre che ho osservato in precedenti occasioni; poco comprendo invece delle frasi in egizio che mi giungono attutite all'orecchio.
Esco all'aperto, incontro di nuovo il medico e provo a ripetergli qualche parola dell'invocazione di Pohtak: se la conosce potrebbe gentilmente tradurla per me?
Questa volta assume un'espressione reverente e impaurita:- Certo che la conosco! E' la confessione negativa che Maat suggerisce al defunto, nel sacro Libro dei Morti.Posso provare a tradurla, Osiride permettendo, ma non sono sicuro di riuscirci-.
Chiude gli occhi e prende a recitare, interrompendosi più volte.

- Salute a te, o grande dio delle due giustizie!
Sono venuto a te, mio signore, sono stato portato a vedere la tua bellezza....
Io porto a te la verità.Non ho fatto del male agli uomini.Non ho maltrattato gli animali.
Non ho commesso peccati nel tempio.Non ho conosciuto ciò che è vietato.Non ho bestemmiato contro gli dei.
Non ho fatto violenza al povero.Non ho commesso ciò che gli dei aborriscono.
Non ho diffamato lo schiavo davanti al suo padrone.Non ho fatto ammalare alcuno.Non ho fatto piangere alcuno.
Non ho ucciso.Non ho dato ordine di uccidere.Non ho fatto soffrire alcuno.
Non ho rubato gli averi dei templi.Non ho danneggiato il cibo degli dei.
Non ho alterato le misure del grano.Non ho aggiunto peso alla bilancia.Non ho preso il latte dalle bocche dei bambini.
Non ho cacciato gli uccelli degli dei.Non ho pescato nei loro vivai.
Non ho fermato l'acqua nella sua stagione.Non ho costruito una diga contro l'acqua corrente.
Non ho estinto un fuoco quando doveva restare acceso.Non ho trascurato le offerte degli dei.
Non ho rubato il loro bestiame.Non ho fermato un dio nella sua processione.
Sono puro.

E aggiunge con devozione che Maat è figlia di Ammon- Ra, corona di giustizia sul suo capo, e gli viene offerta ogni giorno in tutti i templi egizi, in nome del re; grazie a lei Ra esiste e combatte i suoi nemici...
Non capisco molto.È forse possibile che, pur nelle differenze di linguaggio e rito, Maat sia una divinità paragonabile alla saggia Athena, figlia prediletta di Zeus. Che ognuno veneri i suoi dei come meglio crede!
Lo ringrazio e rientro nel tempio.

Photak ha terminato la preghiera e si sta dirigendo verso le porte laterali; chiedo di parlargli in privato e mi conduce in una cella adiacente, anch'essa vivacemente decorata. Rimane a fissarmi, in attesa.
Esordisco con imbarazzo raccontando dei miei studi ad Alessandria, ove ho eseguito molte dissezioni di cadaveri e anche alcune vivisezioni di animali. Adesso i romani scoraggiano queste pratiche, ma fino a qualche anno fa erano consuete. Anche per ciò la scienza medica ha potuto compiere progressi teorici tanto significativi.
Fa per interrompermi, con impazienza a stento controllata. Ha l'aria di pensare che questo greco, impiccione e presuntuoso, lo disturba senza serio motivo in un momento così grave.Ma io proseguo in tono deciso, sostenendo l'impossibilità che il loro coccodrillo sia stato squartato da un animale!
Impallidisce, si erge, e chiede risentito come posso fare un'affermazione del genere.
Gli spiego che ogni taglio visibile sulla spoglia dell'animale ha i bordi netti, quasi rettilinei.Solo un affilato coltello metallico, e nessun dente per quanto aguzzo e tagliente, è in grado di provocarli.
Sempre più irato, mi chiede se oso sospettare la gente del tempio di aver spento la vita del sacro Sobek. Gli faccio notare che di proposito ho parlato di metallo: neppure con gli attrezzi sacrificali in pietra, prescritti dal loro rito come dal nostro, si potrebbero produrre ferite di tal fatta.
A questo punto l'atteggiamento di Photak cambia d'improvviso. Dice che fin dalla prima conversazione mi ha ben giudicato:gli sono parso uomo di scienza colto e anche onesto. E'perciò ancor più disdicevole che lui, gran sacerdote, onori ogni giorno nel rito Maat, verità pura, e inganni me, suo prossimo.E tiene ad assicurarmi che giustizia avrebbe fatto in ogni modo sul responsabile -reo confesso- appena partiti noi stranieri; soltanto la comprensibile volontà di tutelare il buon nome del tempio gli faceva tenere per sè l'immane peso.
Gli esprimo la mia stima. Essa mi aveva spinto ad aprigli la mente, gli assicuro; non una parola dei nostri discorsi sarebbe uscita dal tempio. E non so trattenermi dal chiedere chi sia il colpevole.

Si tratta di Sesostris, il giovane sacerdote addetto al nutrimento del coccodrillo sacro.
Pohtak manifesta profonda desolazione nel nominarlo: un giovane nobilissimo, sapiente e pio ch'egli aveva in cuor suo designato come successore!
Trascurando purtroppo di tenere nel debito conto talune (peraltro assai rare) incertezze nella decisione, inesplicabili debolezze morali, che così drammaticamente s'erano adesso manifestate.
Mi pare strano che da queste premesse venga fuori la figura di un blasfemo assassino, capace di recare l'estrema offesa alla ragion d'essere della propria venerazione...oltre che del proprio status invidiabile. Non mi torna chiaro il movente, e c'è sempre il problema dell'arma!
Photak prende infatti a lodare le osservazioni che poco prima ho fatto su questo punto, e dichiara:- Sesostris non ha ucciso con le sue mani il divino Sobek, ma ciò di nulla alleggerisce la sua colpa!È rinchiuso in una cella e affronterà già domani la sorte infamante che merita-.
La confusione mi si riflette in volto con tale evidenza che Photak, compiendo uno sforzo visibile per padroneggiare il suo stato d'animo,inizia a narrarmi sciagurate vicende di furti sacrileghi.

I sepolcri dei faraoni, pur ingegnosamente celati nelle immense piramidi, furono in gran numero profanati e i venerandi corpi depredati, spesso pochi anni dopo la sepoltura, da malfattori blasfemi.
- Di certo - afferma il sacerdote- nel loro khat ha sede il ba di un reprobo -respinto dalla casa di Osiride e sbattuto tra cielo e terra- che li rende folli inducendoli ai peggiori delitti nell'attesa dell'annichilimento!-
Stranieri senza scrupoli si fecero acquirenti di arredi e ornamenti tombali fin dai tempi antichi, malgrado le pene gravissime previste dalle leggi. La piramide e la mummia di Ammenemhet avevano subito questa triste sorte già secoli prima, e tuttavia i sacerdoti erano riusciti a opporsi con successo allo scempio del labirinto, nei cui ipogei sono custodite le mummie dei coccodrilli sacri, anch'esse riccamente ornate, tanto che per lunghissimo tempo non si era lamentato alcun furto.
-L'arrivo dei romani ha purtroppo rinverdito la pratica dei reati sacrileghi -deplora Photac- Ricchissimi, desiderosi di abbellire residenze e persone con oggetti inconsueti e preziosi, essi non esitano a stabilire rapporti con ladri e briganti al fine di acquisirne-.
La sua scarsa simpatia per i romani appare evidente; mi par di ricordare che non abbia rivolto la parola a Decio, ospite con noi altri alla sua tavola.E' vero che questi in pratica non parla greco, ma Photak sa un po' di latino.
-Infatti -prosegue- gli ipogei sono stati violati già tre volte negli ultimi anni, malgrado la continua sorveglianza, e monili preziosi hanno preso, ne siamo certi in base alle confessioni dei colpevoli, la via di Roma. Un quarto furto, per ora impunito, risale a pochi giorni or sono-.
Seguo il discorso con grande attenzione, ma, per quanto mi sforzi, non riesco a cogliere il nesso con l'uccisione del coccodrillo. Se il gran sacerdote si dilunga sul tema dei furti ci sarà ben ragione. Mi tornano in mente i sontuosi ornamenti del mostro, l'incongruo contrasto tra gli eleganti orecchini e le fauci bestiali.
Spiega Photak che Sesostris ha individuato stamane, nel gruppo giunto poco dopo di noi, un notorio ladrone del circondario il quale faceva conto di passare inosservato mescolandosi ai fedeli.Ciò è avvenuto proprio nel momento in cui tutti eran riuniti intorno a Sobek, intenti a cibarlo; Sesostris ha rivolto un cenno agli inservienti incaricati delle perquisizioni, ma il malfattore deve averlo notato e poco dopo è scomparso.L'hanno cercato, s'intende: invano, chissà dove s'era nascosto.
Non so reprimere un'esclamazione, tanto la curiosità mi punge. Il gran sacerdote accentua l'espressione d'angoscia, ma non fa commenti e scioglie infine l'arcano:- Il ladro aveva con sè il monile sottratto in precedenza e, per liberarsene,l'ha fatto cadere nel vaso del vino destinato a Sobek. Sesostris se n'è accorto soltanto nell'atto di versarglielo in gola!-
Ho capito, finalmente: il ladro ha atteso che tutti si ritirassero per il pasto e, squarciato il ventre della bestia, è riuscito a recuperare il gioiello. Ma qual è l'imperdonabile colpa del giovane sacerdote? E come mai l'autore del furto impunito ha riportato la refurtiva nel tempio?
Rivolgo esitando le mie domande a Photak, che ha chinato la testa rasata sul petto e appare immerso in cupa meditazione. Mi fissa con i grandi occhi scuri e risponde con voce grave.
- Ben tre sono le sue colpe, gravissime. Non ha riferito l'episodio a me, autorità assoluta del luogo. È stato incapace di controllare la paura all'assalto del furfante che, più tardi, lo ha sorpreso da solo nel tempio, e si è piegato a fargli accostare Sobek,il quale l'avrebbe altrimenti divorato.Merita di morire solo per questo! Quando la sua anima si presenterà al giudizio di Osiride, nessuno dei quarantadue assistenti del dio ne prenderà le parti, per quanto devotamente possa rivolgere la sua preghiera a ciascuno, e dopo che Anubis avrà pesato la sua nera iniquità, essa sarà gettata alla divoratrice, perchè ha anteposto la sua miserabile esistenza a quella del divino Sobek!
Infine, Sesostris ha simulato la scomparsa del coccodrillo per guadagnare tempo ed escogitare chissà quale inganno. Quanto al ritorno del ladro nel tempio...-.

Si sentono dall'esterno passi cadenzati e tintinnio d'armi:senz'altro i soldati di Decio, reduci dalla ricerca del fantomatico icneumone.
Il gran sacerdote si interrompe rimanendo in ascolto, poi si avvia all'uscita, mentre io lo seguo parlando in fretta:-Credo di aver capito perché il ladro è tornato qui con il monile. Si sa a quale ricco acquirente senza scrupoli fosse destinato?-
Si gira e mormora che dovrei essere capace di trovare da solo anche questa risposta.
Sullo spiazzo antistante vedo Decio con i suoi e, a terra tra loro, un egizio morto.
L'eques illustris spiega che questi si nascondeva tra i papiri di un fosso e si è dato a fuggire vedendoli, così i suoi arcieri l'hanno fermato. Molto colpito chiedo se abbia detto qualcosa, ma il capo manipolo fa un cenno di diniego.
Pohtak, in silenzio finora, come se non capisse il latino, mi si rivolge chiedendo di tradurre una domanda: vuol sapere se l'uomo aveva con sé una collana, adorna di lapislazzuli e di un ricco ciondolo raffigurante Anubi. Eseguo e Decio dichiara reciso che nulla di prezioso l'egizio aveva indosso.
Il gran sacerdote non attende l'inutile traduzione; piega il capo e ci volge le spalle, rientrando nel tempio.
Fisso Decio, che distoglie lo sguardo. Ho avuto la mia risposta.

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