Ero arrivato tardi.
Mi ero fermato a mangiare un gelato.
Tu mi aspettavi giù in strada, già perché la visita era stata veloce.
Che è tutto dire.
Sei salita in macchina e hai detto così, semplicemente:
“ho un tumore”.
E neanche piangevi, mentre a me è partita in testa quella canzone “i migliori anni della nostra vita”, come una minaccia, che fossero finiti.
Poi sembrava di dover fare tutto di corsa, le analisi, il ricovero, imploravamo di far presto con mille telefonate:
“mi passi la caposala, ma insomma, quando viene? C’è questo posto o no, per l’operazione, fra un mese, ma è pazza, il professore ha detto che è urgente!”
Ci mancava la terra sotto i piedi, ci aggrappavamo a quello che c’era da fare. Come volessimo pensare che la salvezza fosse tutta lì, in un semplice solco, sul tuo corpo, da tagliare.
E pensare che ero io, negli anni, ad aver sempre avuto paura di morire.
Tu impazzivi dall’ansia, sembrava una conquista entrare in ospedale, così quando accadde ci siamo sentiti al sicuro.
Poi quel medico mi ha preso in disparte:
“vedrà che con l’ano artificiale si abituerà presto, quanti anni ha sua moglie?
E poi per la vagina, vedremo. Forse dovremo tagliare anche lì, di solito è così. Comunque anche senza si possono fare tanti altri giochetti … sessuali.”
Lo diceva come fosse mio complice e io inorridivo, più per lui che per quello che sentivo.
Giochetti? Sessuali?
A te non lo dicevo, certo, ma io ci morivo, anche se a dire il vero fino in fondo non gli credevo, no, io non gli credevo.
Era tutto pronto quando siamo scappati, e pensare che ci avevano rassicurati, è bravo, ci sa fare… Sì, cazzo, a tagliare!
Siamo stati avvertiti, all’ultimo momento. Siamo andati da un altro:
“ma signori questi tumori non si operano più da anni!”
E’ così che abbiamo cominciato a capire dove bisognava andare.
Dove stanno i migliori?
Sono i soli anni della nostra vita.
Forse da lì hai cominciato a cambiare.
“Non sono mica malata, io ho un tumore”.
Ti sei fatta tagliare i capelli corti corti da un grande parrucchiere:
“è caro, ma ne ho diritto no?”
Pensavi che se fossero caduti avrebbe fatto meno effetto.
E sei diventata ancora più bella, tutti lo dicevano, e me lo raccontavi la sera sorpresa:
“sai gli uomini si girano a guardarmi, per strada”
Facevi il bagno nell’acqua calda fra bolle e vapori, muovevi l’acqua piano, con le mani ti coccolavi e ti lisciavi le spalle.
Io ti guardavo dal buco della serratura, non sentivo bene, ma vedevo che ci parlavi, cauta e amichevole, al tuo tumore:
“lo so che non mi fai del male, siamo amici, adesso mi curo, sei venuto per farmi capire che mi devo prendere cura di me, che mi devo amare”.
Da lì hai cominciato a cambiare.
Dicevi che ti era venuto un male così per insegnarti a essere regina.
Tutti venivano a vedere e a onorare la tua bellezza che combatteva, che s’accasciava e risorgeva, che barcollava e poi s’addormentava.
Poi in fretta: “presto il catino, vomito” ed era sempre solo saliva.
Conati da chemio, quel nulla trasparente che ti stroncava e forse ti guariva.
Ti tenevo la mano sulla fronte, stavamo vicini, avvinghiati, stretti come in una danza, e così un poco passava, anche la paura.
Fra le mie braccia tornavi bambina.
Ti accarezzavo come sempre, come fosse niente, pensavo: “noi abbiamo un tumore”.
Piangevo da solo.
Quante coke compravo! Avevamo un sacco da fare contro la nausea e lo sfinimento, era un protocollo d’amore che onorava ogni gesto, liberava il valore.
Doveva essere tutto come volevi, eri esigente, sicura, certa di quello che facevi, ogni cosa al suo posto, ogni gesto a tuo modo.
La mattina anche in ospedale ti truccavi sempre, ti curavi:
“vieni, alzami, voglio muovermi, per favore” e partivi a testa alta verso la piazzetta della sala d’attesa, con quel tuo bel vestito leggero da passeggio:
“io non le voglio le vestaglie da ospedale.”
“Io non sono mica malata, io ho un tumore.”
Ti tiravi dietro quel trespolo di metallo scrostato, con le bottiglie appese e i tubi che ti entravano dentro, facevi una curva e quel coso deviava, cigolava, sembrava se ne andasse per conto suo. Tu lo prendevi per il collo e lo guidavi sicura.
Finché camminavi.
Non entrava neanche nel bagno quell’assurda ferraglia, stava fuori e tu dentro
con la porta socchiusa, a fare pipì o vomitare.
E ci veniva da ridere, solo ogni tanto, senza esagerare.
Tutta fiera te lo sei anche fatto cambiare.
“Visto adesso, come so farmi rispettare? Ho solo aspettato che cambiasse turno l’infermiera, quella bionda, la megera.”
A me sembrava che tutti gli altri nel corridoio si scostassero al tuo passare, come sorpresi, guardavano con quei loro occhi cerchiati e stanchi la tua sicurezza, il tuo orgoglio, come fossi troppo bella per stare lì, assieme a loro.
“Io non sono mica malata, io ho un tumore”.
Contavi le gocce delle flebo, te le regolavi da sola, non ti fidavi, calcolavi quanti giorni ancora dovevano passare, perché lì, tu, non ci volevi restare.
Quando andavi a fare i raggi in quei desolati labirinti sotterranei ti muovevi sempre sicura e veloce mentre io ti trotterellavo dietro reggendo le tue carte con cura, ero un paggio ubbidiente che segue la sua padrona.
Poi, alla fine, c’è stato, solo, da aspettare.
E sono stati ancora altri anni in cui tu ci parlavi.
Forse un giorno mi dirai davvero cosa gli dicevi.
Poi, pian piano, dovevamo riprendere a scopare:
“Fai piano amore.”
“Fai forte amore!”
Non sapevamo come ci riuscivamo, con tutto quel dolore.
Era difficile riaprire la strada, nel sangue, col mio sesso, e chissà come ce la facevo, ancora.
Dopo l’amore piangevi sempre, di gioia e di abbandono.
“Ma quando lo farò senza tensione?”
Dopo ti chiedevo se ti avevo fatto male, ma tu rispondevi sempre:
“No, non fa tanto male, va quasi bene.”
Quasi … bene.
Ti asciugavi il sangue, furtiva, perchè io non sapessi, là sotto, cosa succedeva.
Eri delicata come una bambina, ma spessa e ruvida come una guerriera.
Una veterana di guerra ferita e indurita nel corpo e nel cuore, ma viva e fiera della tua scritta fluorescente sul petto: Reparto d’Assalto Dignità.
E i capelli non erano nemmeno caduti.
E quello ti voleva tagliare.
Poi una volta, alla fine, diciamo così, l’hanno detto, d’improvviso, erano sicuri,
“Signora lei è guarita, nessun dubbio, è finita.
Non ce l’abbiamo fatta ad aspettare di uscire.
Ci siamo abbracciati proprio lì, nel reparto dell’istituto tumori, proprio lì dove lavorano i migliori.
Piangevamo a dirotto, con i singhiozzi, senza ritegno.
Eravamo felici là in piedi, in mezzo al corridoio.
La gente dalla sala d’attesa, ci sbirciava con pudore, per non farsi notare.
Ma io li vedevo che non capivano e cercavano di sapere.
Chi di noi due stava per morire.
da "Canti di grazia e di conversione"
di Giorgio Piccinino