Judy era sdraiata sul letto e, fumando una sigaretta, studiava la stanza d’albergo dove avrebbe dormito la prima notte. La stanzetta – un letto singolo, un armadio puzzolente e un comodino – era satura di fumo e Judy fu costretta ad aprire la finestra. Fuori la città gelava e l’aria entrò rapida e tagliente: Judy l’accolse con un sorriso apocalittico e si sentì libera.
Non aveva ancora disfatto la valigia, né si era tolta il Loden pesante, regalo del suo fresco ex marito, trenta euro al mercato dell’usato. Prese il pacchetto di sigarette sul comodino e accese l’ultima sigaretta rimasta. Si mise seduta sul letto e fece alcune volte su e giù, spingendo il sedere sul materasso per testarne la morbidezza e per cullarsi. Ora fissava il pavimento di linoleum finto legno, punteggiato dalle bruciature di sigaretta e graffiato da tacchi e spostamenti; seguì le tracce dei graffi e immaginò la disposizione precedente dei mobili nella stanza. Allora, guardando meglio, vide che sulla testata del letto la carta da parati era più chiara, e la difformità cromatica aveva la sagoma dell’armadio. Si alzò, e facendo un po’ d’attenzione, scostò l’armadio vuoto dal muro. Fece una smorfia di disgusto quando scoprì che dove prima c’era il letto, la carta da parati era completamente consumata e l’intonaco era orribilmente sporco, ingiallito e unto, con delle grosse macchie grigie. Allora pensò a quante teste fossero passate in quella stanza, quante mani su quel comodino e quanti sederi sulla tazza del gabinetto. Decise di dormire vestita, avvolta nel cappotto e col cappello di lana. E le scarpe. Aveva di nuovo bisogno di fumare e fu costretta ad uscire dall’albergo.
Nell’atrio salutò con un cenno della mano il portiere di notte, che non la vide, concentrato com’era sul minuscolo schermo del televisore incastrato nella sua postazione. Per strada c’era gente. Judy strinse il nodo della sciarpa e camminò in cerca di un distributore. All’inizio, a testa bassa per ripararsi dal gelo, camminava veloce, schivando con abilità chi le sbarrava il passo e imprecando tra sé per la lentezza delle persone. Poi, senza accorgersene, rallentò il passo e si ritrovò a passeggiare senza pensieri per quelle viuzze sconosciute, senza fretta, e godendo dell’aria fredda che le stava ripulendo per un attimo i polmoni. Provò ancora quella sensazione di essere l’unica a poter decidere del proprio destino, prese una via, poi un’altra. Si fermò in un bar piccolo e luminoso a bere del latte caldo. Il barista, un ragazzetto magro con una camicia a maniche corte, la guardava bere, appoggiato al lavandino del banco con le braccia rigide, posato su una gamba sola, mentre con l’altro piede picchettava il pavimento. Nel suo sguardo non c’era nulla di seduttivo, semplicemente sottolineava la sua presenza pronta a servire ogni richiesta del cliente. Ogni tanto annuiva lentamente, stringendo le labbra e facendo “Mmh!” quando Judy scostava il bicchiere dalle labbra, dopo aver bevuto. Il barista era un supervisore, un tecnico che vigilava affinché il meccanismo del bar non si inceppasse a causa di qualche cliente insoddisfatto. Per Judy fu divertente e si sentì persino protetta da quel soldato caloroso. Mentre pagava, Judy chiese al ragazzo dove poteva trovare delle sigarette. Lui la studiò un attimo e poi sorrise. Guardò l’orologio alle sue spalle e disse “Mmh”. Poi aggiunse “E’ tardi, è tutto chiuso. Se vuole io ho qualcosa, ma, insomma…” Judy lo interruppe, gli sorrise e disse “Dammene due pacchetti, qualsiasi”. Il tipo scomparve dietro una porta e tornò con due pacchetti di sigarette.
Tornare indietro fu difficile. Quella gioia di sentirsi libera, diminuiva man mano che si avvicinava all’albergo. Avrebbe voluto fermare le poche persone rimaste per strada e parlare, oppure entrare in un bar e parlare con il barista. Si rese conto che dalla mattina aveva parlato solo con il portiere dell’albergo e, poco prima con il ragazzo del bar. Disse “A”, a bassa voce, solo per ascoltarsi. Fece di nuovo “A”, con un po’ più di voce e le venne da piangere. Pensò di aver confuso la solitudine con la libertà e subito volle distrarsi. Si guardò meglio intorno per cercare qualcosa e vide che a pochi metri c’era un cinema. Guardò l’orologio, fece in tempo a vedere un film. Appena uscita dal cinema, il film le scivolò di dosso e sentì ancora il peso del silenzio sullo stomaco. Era mezzanotte, faceva freddo e rientrò finalmente in albergo. Scoprì il letto e cercò con tutte le sue forze di tornare sulla decisione di dormire vestita. Le lenzuola sembravano pulite e l’aspetto del letto era più gradevole di quanto avesse immaginato. Si mise a cantare a bassa voce, mentre preparava le cose per la doccia. Pensò che avrebbe preso un cane, nella sua nuova casa, poi. E che avrebbe appeso persino dei poster che teneva arrotolati da anni in un tubo che conservava dal liceo. Si mise a letto e abituò gli occhi al buio. Ora la stanza era azzurra e buona. Prese il cellulare e scrisse “Buonanotte”, poi cancello la parola. Si addormentò pensando a lei che attaccava i poster alle pareti, vestita leggera, con le finestre aperte e fuori la primavera.