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di Patrizia Della marta
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La camera è avvolta nella penombra, nell’aria ristagna odore di disinfettante e medicinali. Fuori, nella pineta che circonda la clinica, un’assordante frinire di cicale spezza il silenzio di un afoso pomeriggio di agosto. Sei disteso su un letto, sotto il lenzuolo si distingue la sagoma del tuo corpo esile, il respiro regolare mi fa pensare che stai dormendo profondamente. Quando oggi si riapriranno, i tuoi occhi, saranno celesti come il cielo o blu come il mare? Sorrido mentre penso a quanto sei orgoglioso dei tuoi occhi da seduttore; quando sei arrivato qui, con la maschera dell’ossigeno premuta sul volto e il respiro rantolante, ho visto il tuo sguardo di ghiaccio tuffarsi nella scollatura di una giovane infermiera. Inguaribile. Inguaribile seduttore, intendo dire! Ancora adesso hai il pessimo vizio, quando guidi, di dare un colpetto di clacson se vedi passare una bella donna così, in segno di apprezzamento, come dire: “Il grande intenditore approva”. Chissà perché, improvvisa come un lampo e altrettanto rapida, mi passa per la mente l’immagine di te sopra il trattore, con un cappello da cow boy, abbronzato e fiero del tuo destriero metallico. Sei venuto a casa guidando quell’arnese rumoroso e fuori luogo. A casa nostra, accidenti papà, in piena città, in una zona residenziale e snob da fare schifo. Hai parcheggiato il trattore, enorme e arancione, sul piazzale davanti casa, lì dove il nostro vicino teneva la Mercedes. Non omologato e non omologabile, ecco come ti definisco, diverso da tutti gli altri papà; hai idea di quanto ho sofferto per questo? Proprio a me dovevi capitare, a me che avrei voluto un genitore con un titolo di studio, un bel dottor davanti a nome e cognome, un papà con giacca e cravatta, il dopo barba aroma tabacco, la ventiquattrore e l’automobile lustra e funzionante. La nostra automobile, per farla partire, spesso bisognava spingerla e a volte nemmeno questo bastava. E poi mi sai spiegare perché non tiravi mai il freno a mano? Nemmeno dopo che l’auto era scivolata via dal piazzale per due volte e aveva imboccato la strada in discesa, rischiando di investire qualcuno dei nostri vicini. Il papà di una mia amichetta magari, con il titolo di studio, la cravatta e la valigetta. C’è voluta la terza volta e i danni fatti alla tua auto e alla ringhiera condominiale per farti capire che: l’auto-che-staziona-deve-avere-il-freno-a-mano-tiratooo! Litigavate te e la mamma, per questa e molte altre ragioni; come potevi aver lasciato un buon lavoro da impiegato per fare il contadino, tu che di agricoltura non ne sapevi niente? Per te era tutto chiaro invece: inseguire illusioni, sogni, passioni, per questo si vive. Tanto a dare equilibrio alle nostre vite, la mia e di mio fratello, c’era la mamma, la quercia con le radici ben piantate nel terreno e noi i rami della sua chioma. Fuori le cicale sembrano frinire più forte, le sento nella testa mentre penso alla morte della mamma che ci lasciò come rami di un albero senza più radici, scossi da un vento impietoso. Dopo la sua morte ti eri messo a fare il mammo, indossavi il suo grembiule e cucinavi utilizzando un numero esagerato di pentole e piatti, sporcando ovunque, poi a tavola chiedevi: “ Com’è il sugo? E il pollo? E il purè?” Io rispondevo sempre allo stesso modo, con lo stesso tono provocatorio: è salato, è crudo, fa schifo. Me ne andavo sbattendo la porta e da dietro gridavo: “Ti odio!” Ma non era vero. E so bene cosa pensavi in quei momenti. Pensavi che io avrei preferito che fossi morto tu, ma non era così: se avessi potuto scegliere avrei voluto che nessuno morisse.
Sono le prime ore del pomeriggio, l'afa opprimente rende l'aria irrespirabile. Nella pineta calda e odorosa le cicale friniscono ancora più forte, il loro canto si accorda in un coro dal suono ritmato e angosciante. Sembrano nella stanza adesso e vogliono evocare immagini che io allontano premendomi forte le tempie con il palmo delle mani: il ricordo di ciò che accadde quel giorno, molti anni fa, ancora affonda dentro me con il suo carico di dolore. La mente invece corre inarrestabile a un afoso pomeriggio di agosto, proprio come questo. Avevo appena compiuto dieci anni, ti ero venuta ad aspettare lungo la strada che costeggiava la pineta non lontana da casa, con la mia bicicletta nuova. Immaginavo la scena: saresti rimasto sorpreso e felice di vedermi. Pedalando dietro alla tua auto ti avrei poi seguito fino a casa. Invece, quando arrivai alla pineta vidi la tua macchina infilata tra gli alberi; lasciai cadere la bici di lato e mi avvicinai preoccupata. E in un assordante frinire di cicale, come quelle che mi ossessionano in questo momento, ti vidi abbracciato a una donna: i capelli rosso tiziano, raccolti alla sommità del capo, si erano in parte sciolti, un vestito a fiori lasciava scoperte le spalle abbronzate, con un gesto voluttuoso e sensuale rovesciava il capo all’indietro, offrendo il collo a un tuo bacio. Indietreggiai in silenzio e tornai a casa spingendo disperatamente sui pedali della bici, con la vista offuscata dalle lacrime che rotolarono sul volto: roventi gocce di cristallo fuso. La stessa sera, mentre mi giravo tra le lenzuola calde e umide, incapace di addormentarmi, vi ascoltai litigare, te e la mamma: dalle sue parole capii che anche lei sapeva del tuo tradimento. Piangeva, così vi raggiunsi in soggiorno e l’abbracciai forte, come per dirle: io sono dalla tua parte. E mantenni la mia promessa: continuai ad esserlo anche quando, molto probabilmente, lei ti aveva perdonato, anche dopo la sua morte, quando pensai di aver ereditato il diritto di giudicarti e punirti. Il tuo amore paterno era la mia arma più potente così ti contestavo, ti allontanavo e ti colpivo con quei dardi infuocati che erano le mie parole, per punire te e difendere lei, perché lei non lo poteva più fare, lo capisci papà? Inutile adesso dirti che il pollo era buono, il sugo saporito e il purè - ma cosa ci mettevi dentro? - semplicemente delizioso. E stiravi bene anche, con le tue manone callose e goffe facevi dei piccoli miracoli, lo devo ammettere. Quella volta poi che hai mentito alla preside della mia scuola per coprire una mia assenza ingiustificata, ecco quella volta sei stato grande. Avrei voluto buttarti le braccia al collo per ringraziarti e invece ho represso i miei sentimenti, lì dove ancora adesso si agitano inquieti e rabbiosi per non essere stati espressi. Ora le belle parole, quelle difficili da dire, quelle che restano infilate in gola, come preziosi spilli d’oro, vorrebbero uscire tutte insieme e vorrebbero avere il potere di riavvolgere il nastro della vita: veloce-veloce, indietro-indietro, come in quei vecchi registratori di una volta, fino al punto in cui ancora ti abbracciavo, ancora la mia piccola mano si perdeva nella tua, ancora le tue mani ruvide mi arruffavano i capelli e continuare così, senza allontanarci mai, senza soffocare i sentimenti, senza permettere al rancore di avere la meglio su di me. Regola di vita numero uno: indietro non si torna e mai annegare nei rimpianti, questo me lo hai insegnato proprio tu, - grazie papà, smetto subito - e, regola numero due: il tempo vola. Infatti entra nella stanza un medico e mi ricorda che questa è la terapia intensiva, che sei in coma e che bla, bla, bla me ne devo andare. Non prima però di averti sfiorato con una carezza i capelli e di averti detto piano, all’orecchio, così come se fosse un segreto da mantenere fra noi due: “Lo sai che ti amo, papà?”

© Patrizia Della marta





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