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Otto anni
di Laura Pilone
Pubblicato su PBSE2019


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Ho parcheggiato l’auto nel piazzale dell’ospedale, in modo da poter avere un’ampia visuale dell’ingresso.

L’autunno ha preso piede, foglie abbrustolite penzolano molli dai rami, aspettando una folata di vento per riposare su un giaciglio di marciapiede. La facciata dell’ospedale sembra Argo, cento occhi e una bocca spalancata, occhi che ti osservano, indagano, lasciando un po’ libero il cervello posso vedere alcune figure affacciarsi da quegli occhi.

Mi accendo una sigaretta, con il corpo appoggiato al cofano della macchina. Aspiro una grande e soddisfacente boccata di fumo e aspetto.

Aspetto che il fumo mi esca come una banco di nebbia dalla bocca. Quasi bianco, intenso, corposo, una nuvola davanti al mio viso, prima che il vento la disperda. L’interno della bocca brucia, sento la nicotina  prudere all’interno delle guance, la lingua impastata e la salivazione secca. Deglutisco a fatica.

Aspetto, osservando quei cento occhi, le autoambulanze che corrono con le loro sirene. Come osservo io, chi starà osservando ora? Aspetto, è un continuo aspettare. Lancio una rapida occhiata all’orologio, mi do ancora due minuti prima di raggiungere a grandi falcate l’ingresso e buttarmi in quell’odore di medicine, escrementi, disinfettante e morte.

Ancora due minuti per alzare la testa e osservare il cielo, provo a chiedere qualcosa a qualcuno lassù, ma è inutile, le richieste si rivoltano contro se stesse e mi trovo a pensare che quella nuvola assomiglia a una caffettiera. Getto la sigaretta che non ho finito, la schiaccio con la suola della scarpa.

E’ ora. Sussurro a voce bassa.

Raddrizzo la schiena e mi incammino. Cammino lentamente, le grandi falcate ho deciso di lasciarle per un altro giorno. Mi rendo conto solo ora che ho bisogno di una manciata di minuti in più.

E’ successo tutto troppo in fretta, è stata una girandola continua da quando a Sandro hanno diagnosticato un tumore al fegato. Un giro continuo tra ospedale, luminari in Italia e non, abbiamo macinato chilometri di strade per sentire alla fine le stesse parole. Cambiava la lingua, il risultato ero lo stesso. Di corsa, tutta quella marea di cose da sbrigare, che lui non voleva mai fare, tutte addosso a me in un giorno solo. La mattina giusto il tempo di fare una doccia e sistemarsi come si deve quella maschera di finta serenità che non si sa bene a chi e a cosa serve.

Mi avvicino e l’ingresso si avvicina con me. Ho il passo incerto oggi, ho il passo incerto, lo sento.

Proprio ora che siamo agli sgoccioli io vorrei mollare tutto e scappare. Un bell’aereo, una vacanza al caldo e dimenticare, solo dimenticare. Una parte di me si schifa per questo pensiero nato. Scappare così, lasciandolo senza di me nel momento in cui l’eterno riposo se lo verrà a prendere è propri da struzzi. Come se un aereo potesse cancellare quegli otto anni di convivenza che ci hanno visto uniti nel bene e non. Con i soliti, quotidiani, abitudinari – corna comprese – problemi che assillano tutte le coppie.

Ora l’ospedale incombe su di me. Argo spalanca le sue fauci e mi lascia la libertà di scorrazzare dentro di lui.

Otto anni, penso, mentre varco la soglia dell’ingresso. I ricordi mi colpiscono peggio di uno schiaffo ben dato. Solo che non è la guancia a essere rossa e a bruciare. E’ il cuore, l’anima. Un bruciore intenso che fa piangere. Vacillo io e la mia mente.

Otto anni condivisi giorno per giorno. E poi, senza preavviso, senza dirti nulla, te lo levano così, come se nulla fosse, come se tutti quei giorni, quelle ore, quei minuti non avessero nessun significato, come se fossero solo polvere da spazzare, da levare.

Cammino, con il pilota automatico inserito, mentre i miei occhi sfiorano le pareti dell’ospedale, ma vedono altro. Davanti a me, lui, come l’ho visto la prima  volta. Sorridente, allegro, con il piglio sicuro che l’ha sempre contraddistinto dagli altri. Ed è da quei ricordi che attingo la forza per procedere, con i passi e con la mente.

Ero a una festa, una sorta di cena in piedi organizzata da alcuni colleghi, un modo per trascorrere un paio di ore senza l’ansia costante del capo.

Ricordo che varcai la soglia, lui era sulla traiettoria del mio sguardo, con un calice in mano, sorrideva e parlava. Io immobile,  i suoi occhi che incrociarono i miei. C’eravamo riconosciuti. Non so come, non ho idea, non avevo mai creduto ai colpi di fulmine. Storie, dicevo, a chi tentava di raccontarli. Con Sandro non so cosa fu, se colpo di fulmine o meno.

L’unica cosa certa era che ci appartenevamo. Distolsi lo sguardo in preda ad un evidente imbarazzo. Presi da bere, giravo per le stanze cercandolo, osservandolo. Come se fossi al liceo.

Alto, moro, due occhi che erano stelle, brillante, lo vedevo conversare amabilmente con chiunque, vedevo gli sguardi femminili percorrere le linee del suo viso e del suo corpo, e stringevo troppo il bicchiere che avevo in mano.

Io ero la banalità accanto a lui, il non essere di una persona. Non osavo nemmeno avvicinarlo. Fino a quando una nostra conoscenza comune ci presentò. Il mio cuore scoppiava dalla cassa toracica, le gambe cedevano, la salivazione o era troppo abbondante o troppo secca. Ci presentammo e la mia mano fu avvolta per un lungo istante dalla sua, uno sguardo che mi faceva capire tutto quello che c’era da capire.

Parlammo tutta la sera, scoprendo le nostre reciproche radici, gli interessi, le passioni, le antipatie. I miei occhi nei suoi fissi a chiedersi se mai tutto ciò fosse possibile. Mi resi conto che per quell’uomo avrei fatto qualsiasi cosa. L’avevo accolto e accettato in blocco, a occhi chiusi, senza conoscerlo realmente. Verso la fine della serata mi propose di fare due passi con lui.

Camminavamo vicini, il buio della notte complice, come nella migliore tradizione romantica. I nostri corpi si sfioravano, attratti l’uno dall’altro, il mio scosso da scariche elettriche quando avvertivo il leggero contatto della sua mano sulla mia. Desideravo e temevo quel “di più”, cosciente del fatto che qualunque vicolo abbastanza buio avrebbe potuto vederci mentre ci amavamo.

Sandro mi accompagnò alla macchina, mi lasciò il suo numero di telefono, chiedendomi di chiamarlo. Con il sapore di un suo bacio all’angolo della bocca, lo osservai mentre se ne andava di schiena.

“Si sente bene?” la troppa premura di un’infermiera riporta davanti ai miei occhi quella che è la mia attuale realtà.

“Sì… grazie… sto bene… solo un po’ di pensieri”.

L’infermiera va via, lasciandomi con un sorriso carico di compassione.

Qui ci sono troppi sorrisi carichi di compassione, parole come “vedrà andrà tutto bene” anche quando l’evidenza dei fatti è lampante, quando la puoi toccare, tastarne la consistenza. Cammino lungo questi larghi corridoi asettici, qualche barella, qualche urlo soffocato, dottori, gente varia, tutti qui con le loro croci.

I loro sguardi mi seguono mentre continuo il mio percorso e svolto verso l’ala dei malati terminali. So già cosa passa per le loro testoline, per qualsiasi motivo siano lì, il mio sicuramente è peggio. In un certo senso li ho aiutati ad alleggerire il loro fardello.

Il corridoio è bianco, interminabile, delle strisce verdi per terra segnalano il percorso, cosa forse non del tutto necessaria dato che in questa parte dell’ospedale c’è solo questo reparto. Non ti puoi sbagliare, se sei in questo corridoio è perché ci devi essere, devi andare in quel reparto di morte certa.

Non ci sono alternative. Il mio sguardo basso che fissa le punte delle mie scarpe ad ogni passo nuovo si blocca su un paio di piedi davanti a me.

“Oggi sta molto meglio” lo sento dire mentre scopro un paio di pantaloni mezzo coperti da un camice bianco.

Alzo gli occhi e provo a sorridere, non ho idea di come si presenti la mia faccia. Sento solo un buco trasversale da cui entra aria.

“Bene “ gli dico.

Non ho voglia di parlare,  di provare a leggere quello che tiene nascosto dietro ai suoi occhiali, le bugie, le false speranze possono scomparire. Cosa vuol dire “oggi sta molto meglio” di un uomo che deve morire? Come si sta meglio in punto di morte? Vorrei solo dirgli:  “Dottore mi lasci stare,  chi se ne frega, lasci che segua questo sentiero verde, lasci che mi perda nei miei ricordi…”.

Lui è immobile davanti a me, alto più di una spanna, mi sovrasta in altezza. E aspetta. Aspetta che io dica qualcosa. Raschio con un suono secco la gola e provo a sostenere il suo sguardo.

“Bene” ripeto.

“La sta aspettando” continua.

“Certo, certo” ora però lascia che culli il mio dolore prima di entrare da lui.

“Va bene… allora…”

“Allora buongiorno…” gli dico in un soffio.

Il dottore si sposta per lasciarmi passare.

Ecco bravo lasciami passare, è meglio. Continuo a camminare con l’eco dei miei passi e dei miei ricordi ad accompagnarmi in questo mio personale piccolo viaggio.

Una sera di maggio consumammo il nostro primo amplesso. Di quella sera porto ancora i brividi dentro di me. Mi fece tremare l’anima.

Ci ritrovammo abbracciati, stretti tra le braccia, quasi temevo nel guardarlo negli occhi, con l’ansia di un suo segno di insofferenza. Temevo non mi volesse, temevo di non essere abbastanza per lui.

Sandro mi accarezzò la testa, il suo tocco leggero placò le mie ansia, mi tranquillizzai, ciò che stava accadendo lo volevamo entrambi con la stessa intensità. Fu con lui che scoprì cosa voleva dire far l’amore con chi si ama, quell’intensità negli occhi che non era solo desiderio, era un qualcosa di profondo che dio solo sa da dove provenisse.

Le nostre mani che si cercavamo si toccavano prolungando il momento in cui avrebbero spogliato i nostri corpi da quegli indumenti troppo pesanti. Cascammo sul letto ridendo, baciandoci, accarezzandoci. E poi impazienti del troppo desiderio e di quella febbre che aumentava, ricordo ancora come affondai il mio viso nell’incavo del suo collo libero dalla camicia, di come ne aspirai il profumo per farlo totalmente mio.

La lentezza con cui prendevamo possesso dei nostri reciproci corpi era estenuante e meravigliosa.

La sua pelle morbida che mi avvolgeva, il suo lieve sentore di dopobarba, il suo viso leggermente ruvido sul mio, lo sentivo graffiare leggermente.

E dopo scivolò dentro di me, una marea di emozioni mi spaccarono. La sua passione, la sua gentilezza… Un amarsi lento e dolce, come se entrambi potessimo spezzarci, come se quel momento volesse essere prolungato fino all’eternità.

Noi due, solo noi due. La mattina ci sorprese svegli, in un intrico di braccia e gambe, entrambi stanchi e assurdamente felici. Pieni dell’amore che provavamo. E poi ancora, la giornata libera dal lavoro per goderci ogni ora trascorsa insieme, la colazione a letto, e tutti i baci di cui ci ricoprivamo.

Otto anni fa, otto anni fa e sembra trascorso solo un giorno da quella sera. Tutto quell’amarsi, cercarsi, litigare, riappacificarsi, quel corrersi incontro, la condivisione quotidiana di ogni problema. Dopo pochi mesi da quella prima sera decidemmo di andare a vivere insieme, trovammo una casa adatta a noi in centro, volevamo una casa nuova, libera dai ricordi delle nostre vite prima del nostro incontro, una casa che avrebbe visto nascere solo i nostri ricordi, un terreno comune, neutro sul quale far partire  la nostra storia.

Ed io invece, ora mi trovo qui, con il corpo che sorregge il muro di questo corridoio, con un blocco dentro di me che non mi fa andare né avanti né indietro. Sapendo esattamente cosa troverò quando varcherò quella porta alla fine di questo cunicolo, e ogni giorno un pezzetto di forza se ne va e non ho idea di come sopravvivrò alla vita una volta che Sandro non ci sarà più.

Piango nel nostro letto alla sera, lascio che le lacrime, se riescono escano da sole.

Ogni giorno, ogni passo mi richiede uno sforzo maggiore, questo corridoio che prima facevo correndo è diventato una sorta di anticamera dell’inferno, sempre più lungo, sempre più stretto, sempre più soffocante.

Eppure preferirei che questo incubo non avesse fine, anche se le gambe sono pesanti, diventano macigni e provare a sorridere diventa un’impresa da titani.

Mi scosto dal muro e continuo a camminare, fissando quella porta. Ora arriverò, mi dico, aprirò la porta e tutti questi pensieri dovranno andare via. Sono gli ultimi giorni, ore, minuti che posso passare accanto al mio uomo, i pensieri infausti li terrò per me, così, dopo, potrò crogiolarmici a mio piacimento.

Un po’ di serenità a Sandro gliela devo, assolutamente. Varco la porta e l’odore di morte si fa più penetrante, l’aria è satura di disperazione, tristezza, sebbene qualcuno abbia cercato di dare un aspetto meno infausto a questo reparto.

Alcuni fogli colorati con scritte, piante, vasi, qualche pupazzo. Colori.

Ma sì, su perché no, vorrei urlare, tanto qui stanno per morire tutti chi prima chi dopo, mettiamoci un po’di allegria e perché non una banda che suoni? Sfidiamo questa morte con colori e musica, divertiamoci, facciamo ogni giorno una festa, una festa al giorno per chi muore…. E poi vorrei solo urlare e gridare a tutti perché… perché lui, perché proprio noi… perché??

Me lo sanno dire sti dottori perché proprio a lui?

Che cosa è successo nel suo splendido corpo? Cosa?

Voglio una spiegazione, un motivo, così forse potrò mettermi l’anima in pace e accettare, perché io non capisco.

Non capisco perché il mio uomo, la mia vita, il bene più caro mi deve lasciare. Mi muovo lentamente, cercando di fare il meno rumore possibile, vorrei solo che nessuno mi vedesse, che nessuna infermiera o parente mi fermi per chiedermi notizie.

E’ che qui ci conosciamo tutti, alla fine ci ritroviamo tutti i santi e benedetti giorni, fino a quando la nostra presenza, per ovvi motivi, non è più richiesta.

Non alzo nemmeno lo sguardo per non inciampare nel viso di qualcuno. La superbia del mio primo arrivo in questa ala dell’ospedale se ne è andata man mano che passavano i giorni e alla mia frase “Al mio no… non succederà” si è sostituita  “ anche il mio…”.

Ancora qualche metro e poi entrerò nella sua stanza. E di nuovo i ricordi prendono prepotentemente spazio nella mia testa. I primi problemi, i litigi, le notti fuori.

Lui che voleva essere sempre libero e io che l’aspettavo insonne a casa, spiando tracce di altri amori nelle pieghe del suo viso. Le liti furibonde per cambiare una parte del suo carattere che mai sarebbe cambiata e i sottili ricatti che provavo a fargli… e da capo sempre quell’amore assoluto e per certi aspetti assurdo.

“Non c’è nessuno nella mia vita oltre a te” bastava questa frase per placare la mia ansia di sapere chissà che poi…

I problemi con le nostre famiglie che non volevano accettare una relazione che per loro era folle, tutti quei momenti trascorsi a parlare, a litigare, a far capire che c’era amore, ci sarebbe sempre stato, per cui basta con le discussioni che  “quella persona” non è adatta a te, come mi diceva mia madre.

E dopo tutti quei problemi, quei pianti, alla fine la comprensione, l’accettare un amore che non avrebbe lasciato spazio a parole amare e dure. Felici finalmente di vivere il nostro rapporto in serenità.

Avevamo tutto quel che potevamo desiderare io e Sandro. Avevamo combattuto contro tutti per il nostro amore e alla fine ne eravamo usciti vittoriosi e a testa alta. Forse ci sentivamo troppo invincibili, forse eravamo troppo felici, troppo soddisfatti…

Sono infinite le domande che mi pongo ogni giorno, domande che non possono avere risposta, non ce ne sono, non ci sono motivi del perché a lui sì e a un altro no. La parte razionale di me queste cose le sa, le sa perfettamente, ma io ora prima di tutto sono una persona innamorata… solo innamorata.

Per cui è il mio cuore e la mia anima a dettar legge ora.

Ho la mano sulla maniglia della porta, devo solo girarla leggermente ed entrare. Sandro mi starà aspettando, con il busto alto, appoggiato ai cuscini. Vedrò il suo volto pallido che mi accoglierà con un sorriso appena varcherò la soglia.

Ed io seguirò le  linee emaciate del suo volto, del suo corpo una volta possente e  ora magro, troppo magro. Mi stamperò sul viso un bel sorriso e andrò a sedermi accanto a lui, gli prenderò una mano tra le mie e la avvicinerò al mio viso, per lasciarmi accarezzare.

Ci sarà un breve silenzio tra noi due e poi le mie chiacchiere sul lavoro, sulle incombenze, sull’inverno che sta arrivando per cui dovremmo coprire le piante del terrazzo, che lui non vedrà rifiorire e questo pensiero lo colpirà con la sua assurdità e per un attimo i suoi occhi saranno velati di una profonda tristezza e un sorriso gentile e amaro incresperà le sue labbra, quasi a chiedermi scusa… scusa se me ne andrò… io non volevo…

Apro leggermente la porta e sento un colpo di tosse, leggero, lieve, quasi un sussurro.

Entro.

“Sandro…” sussurro.

“Luca, tesoro mio, vieni ti aspettavo…”.

© Laura Pilone





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