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Carrozza n.6
di Matteo Bertone
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Erano rimasti in due.

Fuori, il buio congelato di dicembre scorreva rapido e immutabile.

Una luce fluttuante, di tanto in tanto, appariva in lontananza, all’improvviso, per poi farsi inghiottire dall’oscurità fitta del tardo pomeriggio.

Stavano uno di fronte all’altra.

Il professore stiracchiò le lunghe gambe secche stando ben attento a non urtare quelle della ragazza. Le diede una rapida occhiata. Che bella ragazza, pensò, e con questo concluse il suo giudizio.

Il gentil sesso non lo interessava affatto, ma sapeva riconoscere la bellezza, quando gli capitava a tiro. Il suo secondo pensiero fu che avrebbe preferito essere solo.

Certo, poteva spostarsi, scegliere un qualsiasi altro posto, ma gli pareva poco galante lasciarla lì da sola.

Avrebbe potuto essere sua figlia, o una sua studentessa.

Inavvertitamente, nonostante avesse preso le misure con attenzione, le sfiorò lo stivale mentre ripiegava le gambe sotto il tavolinetto.

-Mi scusi tanto – disse.

-Niente – bofonchiò lei annoiata senza guardarlo.

Non faceva che fissare il display del cellulare, sospirare e poi perdersi nell’oscurità uniforme fuori dal finestrino. Sembrava aspettare una chiamata che non arrivasse mai.

Per un attimo il professore pensò di parlarle, la fissò per qualche secondo di troppo e lei gli rivolse uno sguardo sospettoso. Lui allora fece un sorriso imbarazzato, che peggiorò solo la situazione, e tornò al suo tomo di filosofia indiana dalla copertina gialla e arancione. Decisamente più rassicurante di una reginetta imbronciata.

Era arrivato a metà. Le pagine erano fitte di parole in caratteri minuscoli. Provò a riprendere la lettura, ma restava sempre invischiato nella stessa frase.

I suoi pensieri volavano altrove. Chissà se Angela era a casa. Guardò l’ora. Probabilmente sì. Mise a fuoco la parola indicata dal suo dito indice, e rilesse per tre volte lo stesso concetto.

Non riusciva a concentrarsi. Mise un segnalibro, chiuse il tomo e si alzò per andare in bagno.

- Mi scusi... – disse alla ragazza.

Lei sollevò la testa verso di lui come se quel gesto le fosse costato una fatica del diavolo. - Le spiace... – continuò il professore indicando il libro.

La ragazza fece una specie di mugugno assertivo, scrollò le spalle e spostò una ciocca di lunghi capelli lisci dal volto. Gli occhi verdi e gelidi fluttuavano come l’aurora boreale.

Aveva un maglioncino attillato sul seno e le gambe accavallate strette in un paio di jeans che mettevano in evidenza cosce sode e ben tornite. Portava stivaletti marrone scuro dal tacco alto e aveva unghie rosse perfettamente scolpite.

Il professore disse: - Grazie, torno subito.

Fece una specie di sorriso di circostanza, quei sorrisi che sua moglie definiva “rugosi”, e si avviò verso il bagno cercando di mantenere l’equilibrio nonostante il rollio turbolento del treno in corsa. Si guardò intorno.

Qualcuno aveva lasciato sui sedili una rivista, qualcun altro una bottiglietta d’acqua vuota. Questi resti di presenze umane lo confortarono.

Raggiunto il bagno, il professore si chiuse dentro e guardò lo specchio sporco e rigato.

Un uomo sulla cinquantina, con il volto asciutto e gli occhiali che scivolavano sul naso adunco, lo

fissò severo. Portava una maglia bordeaux girocollo a maniche lunghe infilata in un paio di pantaloni a vita alta, troppo alta, tenuti su da una cintura che lo strizzava sopra il punto vita.

Se non altro non ho la pancia, pensò.

Fece quello che doveva fare e cercò di lavarsi le mani, ma dal rubinetto stillò soltanto una misera goccia d’acqua. Per fortuna aveva in tasca una salvietta umida ancora sigillata. Mentre la sfregava fra le mani, andò via la luce.

Il treno diede uno scossone che lo fece quasi cadere a terra, poi gettò un lungo fischio che si perse in lontananza. Stava filando veloce.

Il professore cercò la maniglia a tentoni, non senza un certo disgusto nel toccare le pareti di quella lurida toilette, e finalmente riuscì a liberarsi.

In quel momento la luce si decise a tornare, fredda come quella di una cella frigorifera.

Reggendosi ai sedili per mantenere l’equilibrio, il professore attraversò la carrozza fino a raggiungere il suo posto.

Il tomo giallo e arancione di filosofia indiana era ancora sul tavolinetto e il suo zaino sul sedile, eppure mancava qualcosa.

La ragazza.

La ragazza non c’era più. Sparita.

Si sarà spostata, pensò, oppure sarà andata in bagno. Diede un’occhiata sommaria alla carrozza ma non si vedeva nessuno.

Poi i suoi occhi caddero su qualcosa che non aveva notato prima. Il telefono cellulare della ragazza era ancora lì.

L’avrà dimenticato, pensò il professore, o l’avrà lasciato qui mentre andava in bagno.

Si costrinse a non pensarci, si sedette comodo e aprì il suo tomo di filosofia indiana in corrispondenza del segnalibro.

Riuscì persino a leggere qualche riga.

Di tanto in tanto alzava gli occhi per vedere se la ragazza stesse tornando, oppure controllava l’ora e guardava fuori, ma l’oscurità era pressoché uniforme.

Il treno sarebbe arrivato in quaranta minuti, circa.

Dopo un quarto d’ora iniziò ad avvertire un senso di disagio. La luce sfarfallò un paio di volte e la temperatura della carrozza sembrò abbassarsi. La ragazza non tornava.

Chiuse il libro e si alzò. Guardò da una parte all’altra dello scompartimento. Nessuno in vista.

Erano passati venti minuti. Ritirò il libro di filosofia nello zaino e decise di andare a cercarla. Magari era rimasta chiusa in bagno. Gli passarono per la mente pensieri più brutti ma riuscì a ignorarli, per il momento.

Proprio quando si stava infilando lo zaino in spalla, il telefono della ragazza iniziò a vibrare e lampeggiare.

Il professore s’immobilizzò, lo sguardo fisso sul telefonino: non sapeva cosa fare. Finalmente si decisa ad afferrare il cellulare ma quello smise di suonare.

Lo ripose sul sedile, lasciò lo zaino al suo posto e senza ulteriori indugi si diresse verso l’altra toilette dello scompartimento.

La luce rossa era accesa, quindi il bagno doveva essere occupato. Bussò un paio di volte.

- Signorina – disse – si sente bene?

Attese una risposta ma dall’interno non proveniva alcun suono. Bussò di nuovo.

- Signorina – ripeté alzando un poco la voce. Niente.

Fece un terzo inutile tentativo, poi ritornò al suo posto e vide che il cellulare stava lampeggiando di nuovo.

Fece appena in tempo ad afferrarlo e premere il tasto di risposta perché dall’altra parte qualcuno riattaccasse.

Visualizzò sul display le telefonate perse e fece per richiamare, poi si fermò.

Come poteva raccontare a uno sconosciuto che la proprietaria del telefonino era appena scomparsa senza passare lui stesso per un maniaco serial killer o roba del genere?

Mise lo zaino in spalla, prese con sé il cellulare della ragazza e ritornò davanti alla toilette occupata. Bussò ancora, tre, quattro, cinque, sei volte, sempre più forte.

Nessuna risposta, nessun rumore. Devo cercare il controllore, pensò. Subito.

Percorse tre carrozze completamente deserte. Sentiva lo scricchiolio delle sue scarpe sul pavimento di linoleum. Ogni tanto controllava che la ragazza non lo stesse seguendo. Aveva portato con sé il suo cellulare.

Dopo quattro carrozze, l’unica cosa che avesse attratto la sua attenzione era una chiazza fluida rosso scuro che da un tavolinetto stava colando sul pavimento.

Non ci fece caso più di tanto, evitò di calpestare il liquido denso e proseguì spedito.

La quinta carrozza era l’ultima prima della motrice. Delle due file di luci sul soffitto, quella di destra era spenta. Metà carrozza era al buio.

Sul fondo, prima della porta, dal lato in ombra, vide finalmente un uomo corpulento seduto di spalle. Stava compilando dei fogli.

Era vestito da controllore.

- Buonasera – disse il professore titubante.

L’uomo sbuffò dalle narici continuando a riempire un foglio di crocette e numeretti. Il professore attese in piedi, tormentandosi le mani.

Finalmente, dopo alcuni minuti, il controllore sbattè la biro sul tavolinetto e sollevò a fatica la testa facendola ruotare sul collo tozzo.

-Dica – fece sbuffando.

-Senta, so che non sono affari miei, ma la ragazza che viaggiava di fronte a me è scomparsa… Il controllore aggrottò la fronte e soffiò aria dal naso. Sembrava faticasse a respirare.

-Lei dov’è diretto, signore? – replicò in tono perentorio.

-Io scendo a Torino…

-Mi fa vedere il biglietto, per cortesia?

-Sì ma… la ragazza… le dico che è sparita! Ho qui il suo cellulare!

-Ah, bene – fece quello annuendo, come se avesse appena ricevuto la confessione di un ladro. - Intanto mi faccia un po’ vedere questo biglietto, signore.

-Sì, ma io il cellulare della ragazza non l’ho mica rubato! Cos’ha capito?

-Il biglietto, signore – e tese una mano grassoccia verso il professore.

Afferrò il biglietto e se lo rigirò fra le mani, s’infilò un paio di occhialetti tondi, controllò ogni dettaglio e poi lo restituì al professore.

-Questo biglietto non va bene – sentenziò.

-Come sarebbe?

-Non va bene, non è valido per questo viaggio.

-L’ho acquistato oggi stesso, l’ho vidimato… cosa c’è che non va?

-La destinazione, signore.

Il professore sgranò gli occhi per un momento, poi mise a fuoco i dati stampati sul biglietto. - Come no? – sbottò, - è per Torino! C’è scritto Torino! Vede? Torino, ecco!

- Lo vedo signore. Ma questo treno non va a Torino.

Il professore restò perplesso per qualche istante. La sua irritazione si tramutò in sconforto e si dimenticò persino della ragazza scomparsa.

-E dove va questo treno? – chiese pensando già a tutti gli spostamenti e le attese alle quali si sarebbe dovuto sottoporre per tornare a casa.

-Questo treno, signore, non va da nessuna parte.

Il professore restò senza parole, non sapeva cosa dire. Il controllore lo guardava placido sollevando le sopracciglia, come per sottolineare che non c’era nulla di strano in ciò che aveva appena detto.

-Dovrà pagare una sanzione, signore – aggiunse. Un accenno di sorriso parve comparire sul suo volto.

In quel momento il cellulare della ragazza iniziò a vibrare.

-Pronto! – disse il professore rispondendo senza indugi.

Silenzio. Dopo qualche istante una voce maschile con accento francese pronunciò un nome dandogli un’inflessione interrogativa: - Giselle?

Il professore tentò di spiegare la situazione. Alla fine l’uomo francese attaccò senza dire una parola. Idiota, pensò il professore. Nel frattempo il controllore aveva ripreso a compilare moduli.

-Senta, per favore, mi può dire dove è diretto questo treno?

-Non posso dirglielo – rispose il controllore senza alzare la testa dai fogli, - perché non lo so nemmeno io.

-Come sarebbe? Ogni treno è diretto da qualche parte!

-Signore, lei vede solo quello che vuol vedere. Una parvenza del reale. Lo chiamano il Velo di Maya, lei dovrebbe saperlo. L’illusione che vela la realtà delle cose nella loro essenza autentica.

I pensieri del professore volarono al suo libro di filosofia indiana senza però trovare un collegamento plausibile con il controllore. Ciò nondimeno disse: - Quindi qual è la realtà delle cose?

-Lo capirà quando saremo arrivati.

-Non so nemmeno dove!

Il controllore si voltò indietro.

- Guardi, - disse, – ecco la sua ragazza scomparsa.

Il professore fece appena in tempo a lanciare uno sguardo verso il corridoio per vedere la giovane che avanzava con passo deciso irradiando una sensualità perversa.

L’altra fila di luci si spense e la carrozza precipitò nell’oscurità totale.

Il professore si aggrappò a un sedile e sentì che gli veniva strappato di mano il cellulare. Gli occhi della ragazza luccicarono al buio per un istante.

Il treno sembrò rallentare la sua corsa.

Il dolore fu dolce e prolungato e il professore non oppose resistenza.

La voce grave del controllore e quella trasparente e gelida della ragazza si mischiarono in una risata fluida nel buio della carrozza, mentre il professore perdeva i sensi.

Quando aprì gli occhi, era seduto al suo posto, da solo, con il libro di filosofia indiana aperto sul tavolino. Il treno era fermo al binario di una piccola stazione. Il cielo albeggiava e le luci al neon della stazione si stavano spegnendo.

Si alzò lentamente, sentiva tutte le ossa rotte e un senso di acidità che dall’esofago saliva fino in gola. Ritirò il libro, chiuse lo zaino e se lo mise in spalla. Con passo malfermo raggiunse una porta e scese. L’unico altro essere umano nei paraggi era una giovane donna dai tratti spigolosi e i capelli lisci biondissimi raccolti in una coda, intenta a pulire la banchina con una scopa.

-Mi scusi… - disse il professore avvicinandosi. Quella alzò la testa e interruppe il suo lavoro.

-Mi potrebbe dire dove siamo?

La donna scosse la testa e allargò le braccia. - No capisco – disse in un inglese stentato.

Il professore la ringraziò ugualmente e fece per allontanarsi, ma proprio in quel momento si accorse di avere una gran fame.

© Matteo Bertone





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