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Marilù dagli occhi blu
di Giovanni Buzi
Pubblicato su PB17


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Maria Luce, da tutti chiamata Marilù, è una bella bambina, dolce, gentile dai grandi occhi blu. Blu come il cielo, blu come i fiordalisi nei prati. Tra pochi giorni compirà dieci anni. Ha un visetto fresco, le labbrucce rosa rosa e due melette di seni già sporgenti. Bellissimi sono i suoi capelli biondi che lascia sciolti sulle spalle. A volte, li lega a coda di cavallo, a trecce, a cipolla, ma l’acconciatura che le piace di più è a cicci; due code poco sopra alle orecchie che fissa con elastici e poi decora con due bei fiocchi blu, come i suoi occhi. È sempre allegra Marilù, e gioiosa, studiosa, seria, ubbidiente: che perla di bambinetta! Signorinetta, si dovrebbe dire, ormai. Le gonne sbiadite a fiorellini verdi e rosa, i grembiuloni a quadratini bianchi e celesti le vanno già un po’ cortini, un po’ strettini... ma che si può fare? Non sono certo ricche le due gentili sorelle che l’hanno raccolta. Perché sì, pur sorridente e ogn’or cinguettante, la cara fanciulla è orfana. Di padre e di madre. Non ha fratelli né sorelle, né cugini, né zie, né zii, nessuno, se non le due signorine Dora e Pandora. 69 e 71 anni. È da molto tempo ormai, che le due care zitelle, Dora e Pandora, l’accolgono nella loro piccola ma linda casuccia persa tra i verdi monti del Trentino. Quando Marilù aveva cinque anni, una valanga portò via la sua mamma e il suo papà. Il destino, il crudele destino della montagna! Il papà era tagliaboschi; alto, forte, rubicondo. La mattina s’alzava sempre di buon umore, mandava giù due bei bicchierozzi di grappa e via, con l’ascia in spalla, fischiettando a lavorare. La mamma, tenera e premurosa come una colombella, s’occupava delle loro sette, uniche caprette. Le accudiva, portava loro da mangiare, da bere e ogni giorno le mungeva. Bèhh, bèhh, belavano le caprette gettando tiepide e candide gocce di latte dalle polpose, prosperose, cicciottose mammelle. Sdring, sdrang!, cozzavano i potenti schizzi bianchi contro le pareti del secchiello di stagno. Una volta pieno, la mamma si metteva un fazzoletto in testa d’estate, un caldo scialle d’inverno e, cantando, scendeva al villaggio. Di casa in casa, passava a vendere quel liquido denso, nutriente, cremoso. “Uh che buono!”, diceva assaggiandolo con un ditino Marilù e i suoi grandi occhioni blu splendevano, splendevano. Ma, la felicità, si sa, lo dice anche la canzone: “come tutte le più belle cose, vive un solo giorno come le rose”. Un inverno nevicò tanto, ma così tanto, che in primavera, al primo colpo d’ascia del papà, si staccò dalla cima della montagna un poco di neve che ruzzolò, ruzzolò e ruzzolando s’ingrandì in un’enorme palla. Con un boato infernale la gigantesca biglia gelata sbarazzò via come birilli: l’albero, l’ascia, il papà, la casetta, la mamma e le sette caprette! Marilù, la Vergine sia lodata!, miracolosamente si salvò. S’era allontanata un istante per cogliere i primi bucaneve che voleva portare alla badessa del vicino convento del Benedetto Angelo Custode. Una santa donna, amata dall’intera vallata, di nome suor Celestina. Oh, benedetti fiori! Oh benedetta suor Celestina! La bambinotta si salvò. Meraviglioso. Ma che far d’essa?... La pia suora non se ne poteva proprio occupare; aveva già raccolto 12 orfanelli (le valanghe erano terribili da quelle parti e alquanto frequenti). Fu allora che si fecero avanti le pie sorelle Dora e Pandora. Nella loro casetta appesa ad un fianco della montagna, piccola, umile ma pulitissima e oltremodo onesta, fino a quel momento non albergavano che tre soli orfanelli: Luisella, di quindici anni e i gemelli Pino e Gino, di sette. Cinque anni passarono, l’uno in fila all’altro, l’uno dietro all’altro, come altrettanti tori in transumanza. Luisella s’era fatta una bella ragazza dalle carni bianche, il petto florido e le braccia tornite, benché un poco semplice nel dire e nel fare. Un poco maldestra, ingenua, zoticoncella, capa tosta, per intenderci. I gemelli Pino e Gino crescevano sani e robusti, ma ahimè! che lenze... Inutile menar il can per l’aia, erano due veri e propri delinquenti! Dall’arrivo della graziosa fanciulla, la suddetta Marilù, non smisero di martirizzarla. E le tiravano le belle trecce, e le alzavano le gonne, e la sbattevano a terra, e le saltavano sul pancino, e le riempivano la bocca di merda di vacca... insomma, un vero disastro. Per non parlare di quando la legavano ad una seggiola e l’obbligavano a vedere come tiravano il collo alle galline, come infilzavano con spiedi arroventati rospi e lucertole, come s’inciuciavano le caprette, come staccavano le ali alle farfalle che l’obbligavano poi, lei Marilù, ad ingoiare una ad una neanche fossero ostie consacrate. Le due povere sorelle, Dora e Pandora, non la smettevano d’asciugare i lacrimoni dagli occhioni blu di Marilù e rimproverare quelle due peste bubboniche di Gino e Pino. Arrivarono perfino ad articolare qualche grossa parola, a far volar uno, due scappellotti. Niente sembrava calmare quei birbantelli. Non c’era altro da fare che attendere che crescessero ancor più sani e robusti e se ne andassero presto per il mondo a cercar fortuna. Le due sorelle vivevano d’un modesto frutteto, mele e pere, e delle poche uova che riuscivano a vendere nel villaggio il giovedì, giorno di mercato. Spesso le si vedeva scivolar, come meste lumachine, tra le case dei paesani più bisognosi. Finanche col freddo, la neve alta, la bufera, ma sempre accompagnate da Luisella e Marilù. Portavano un po’ di brodo caldo di gallina, un quarto di pagnotta, un fondo di zuppa ai cavoli... Con giubilo dividevano quel poco che avevano. Toc toc!, si propagavano come allegri ritornelli i colpi di nocche delle pie zitelle per l’intera vallata. E nelle case dei malati, dei vecchi abbandonati, degli sciancati, dei lebbrosi, dei derelitti e abbandonati tutti entravano quattro raggi di sole: Dora, Pandora, Luisella e Marilù! Gli elogi non mancavano, né da parte dei bisognosi a cui sollevavano, come potevano, le pene, né da parte del parroco, don Rodrigo, del farmacista, signor Ferri-Luisi-Stanghetti, del sindaco cavalier Pappafico. L’intero villaggio s’univa ai plausi, agli urrà!, al passaggio del silente corteo delle pie donne. E, quanto d’aiuto erano in chiesa!... Pulivano i marmi, lucidavano gli ori, sfregavano gli argenti, spazzavano, slinguavano a terra, passavano la cera, lavavano al fiume le tende, le stiravano, profumavano con erbe selvatiche e gioiose, festanti, le riappendevano alle cappelle tutte! Ma, al ritorno a casa, che tortura! I gemelli Gino e Pino, erano in agguato già all’aprir dell’uscio. Colpi di fionda, calci agli stinchi, scarafaggi nei capelli, rospi vivi tra i seni, scorpioni nelle calze, formiche rosse nelle mutante: una vera tortura! Le quattro donne sopportavano senza un lamento, al più Pandora, la maggiore, lanciava un “Buoni ragazzi” e prendeva ad apparecchiare.
Dora dava un ultimo rimescolio di polenta e serviva a tavola, mentre Luisella affettava la pagnotta e Marilù metteva due patate a cuocere sotto alla cenere. Dopo la frugale cena, le donne restavano accanto al camino a rammendare. Avevano dovuto vendere la televisione a colori vinta con i punti delle merendine del Mulino Bianco (l’unico lusso che si concedevano) per poter comprar qualch’altra gallina da sgozzare e far bollire per i più bisognosi. Ricama e rammenda, rammenda e ricama, il tempo passava. Venuta l’ora del meritato riposo, Luisella conduceva ogni sera a letto i gemelli, ed ogni sera era una tragedia! Scalciavano, urlavano, piangevano, sputavano, smadonnavano, spaccavano piatti, bottiglie e bicchieri urlando non belle parole. Le pie donne facevano finta di non sentire, e con un sospiro, accompagnavano Marilù nel suo lettuccio. Le facevano dire sei preghierine: una per i suoi genitori che la guardavano dal Paradiso. Una per i due gemelli Gino e Pino che l’avrebbero, un giorno o l’altro, guardata di sicuro dall’Inferno. Una per Luisella, che cattiva non era, ma così scemotta, chi se la sarebbe presa? Una per le zie, come chiamava i due angeli di Dora e Pandora ed infine, una per lei, Marilù (che non si sa mai). Le due attempate zitelle le raccontavano una storia, le cantavano una dolce ninnananna, poi soffiavano sulla candela (a forza di non pagare, avevano tagliato loro l’elettricità) e finalmente, con pace di Dio, anche loro andavano a coricarsi. Una spazzolata, per igiene, ai capelli, un Salve Regina e, cuffietta in testa (fa freschetto in montagna di notte d’inverno, con un metro e mezzo di neve accumulata, senz’altro riscaldamento che quel buchetto di camino) s’appisolavano.

* * *

Il 23 dicembre era il compleanno di Marilù. Per quel giorno, quasi più che a Natale, le due dolci sorelle addobbavano la casa e facevano festa grande. Tanti erano gli invitati, per primo il parroco, don Rodrigo, poi suor Celestina, il farmacista, signor Ferri-Luisi-Stanghetti, il sindaco cavalier Pappafico con la legittima sposa (che a portarci tutte le amanti, nun ce s’entrava). Erano felicissimi di partecipare, di far tanti regali alla povera bimbetta e ringraziar così, per tutto quello che facevano per il resto dell’anno le sorelle Dora e Pandora. Inutile dire che i pestiferi gemelli avevano rovinato la festa più d’una volta. Un anno avevano dato uno strattone alla tovaglia buttando a terra polli arrosto, salsicce e polenta! Un altro, avevano riempito la torta d’esplosivo (chissà dove l’avevano trovato? Erano capaci di tutto quei due!). Non molto a dir la verità, ma abbastanza da far saltar il pan di Spagna, la panna e le candeline in faccia agli invitati. Quanto piansero gli occhi belli e blu di Marilù! Un altro anno i due cheiddiolichiamiprestoasé segarono addirittura una trave di legno del soffitto e quasi il tetto intero cadde sulla testa di tutti. Quest’anno i due s’erano superati. Avevano messo a punto un vero e proprio rogo. No, non avete capito male: un rogo! Se le vie del Signore sono infinite, quelle del suo Simile, brutto e nero che sta Laggiù, lo possono essere ancor di più. Prima che arrivassero gli invitati, i due pestiferi Gino e Pino avevano disseminato vasetti di benzina ottenuta dal pompista (previo qualche lavoretto di polso e di mano). Carta e paglia ben dissimulata, fiammiferi dappertutto: una scintilla, e tutta la casa avrebbe sfrigolato come foglia morta! Luisella e le due sorelle avevano imbandito la tavola come non mai. Fiori di carta colorata, festoni, stelle d’oro e d’argento! La zuppa bolliva nel paiolo, un bel cappone rosolava infilzato nello spiedo, la torta montava, le castagne cuocevano chete chete sotto la cenere. Gli occhi di Marilù non erano mai stati così blu! Gli invitati arrivarono con regali, fiocchi e sorrisi. Furono baci, furono abbracci! Tutti sedettero e fu stappata una prima bottiglia! Il farmacista accese uno dei suoi sigari e buttò nel camino il cerino che s’accese di fiamma e sparì. Il sindaco e la legittima consorte avevano preparato perfino un assegno che, con discrezione, fu fatto scivolare nella tasca di Pandora. Il parroco portò una torta alta così! Suor Celestina dolciumi e balocchi. I gemelli Gino e Pino, seduti buoni buoni accanto al camino, guardavano e tacevano. Quando tutti furono a tavola, sgattaiolarono fuori, sbarrarono le finestre, salirono sul tetto e tapparono il camino. Il fumo cominciava a sentirsi, quando Dora disse: - Sono quei due, di sicuro! Adesso vado fuori e mi sentono!, s’alzò e uscì. Pandora la seguì fuori della porta. - Dove siete delinquenti?, urlò Dora. Pandora li vide e l’acciuffò. Diede loro due sonori scappellotti e li sbatté in casa. Poi, con gesto lento e gentile, prese dalla tasca della sua gonna la scatola dei sigari del farmacista. Ne prese uno per sé e ne diede uno alla sorella. Questa, sfregò un cerino, la fece accendere per prima, poi si servì. Ancora acceso, gettò il cerino in casa e chiuse la porta. Fu un solo, luminosissimo, scoppio di fuoco e fiamme! Le due sorelle fumando scesero con tutta calma in paese. Si diressero in chiesa e presero la cassa di don Rodrigo (ben riempita da mesi d’elemosine per ricostruire il campanile distrutto da una delle tante valanghe). Presero la chiave dell’auto del parroco, che ben sapevano dove si trovava. Pandora, la maggiore, si mise al posto di guida. Mise in moto e partirono. La chiesa si trovava sulla piazza principale dov’era anche la posta, un’osteria e un’agenzia di viaggi. Al di là della vetrina videro la proprietaria, la signora Elvira. Le due zitelle la fecero un cenno con la mano. Questa ricambiò. Il piano sì, era pronto da tempo. Approfittare del compleanno di Marilù per sbarazzarsi una volta per tutte dei gemelli Pino e Gino, della scemotta di Luisella, dell’ipocrita di don Rodrigo, di quell’avvelenatore del farmacista, del fedifrago del sindaco, della gran troia della moglie, di tutti gli sciancati, derelitti, mortidifame e perché no?, sbarazzarsi anche degli occhi blu di Marilù.

© Giovanni Buzi





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