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La perdita
di Cristina Adinolfi
Pubblicato su PBSE2019


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C’è odore di cose vecchie.

Odore di sangue, di disinfettanti, di corpi, sempre gli stessi, odore di sudore. 

Le infermiere in ginocchio si spellano le dita a furia di sfregare i pavimenti, non li vogliono sentire, questi odori insopportabili. Tolgono lo sporco tutti i giorni, pure adesso, che è quasi notte, spennellano i pavimenti avanti e indietro, mi passano sui piedi e mi chiedono scusa, poi continuano, tutte a faccia bassa.

Vogliono spacciare per bianco un luogo che è il cuore di tutte le cose grigie, di eventi imprevedibili, che ti capitano e non ti capitano. Tu non lo sai perché. E' colpa di dio o del caso, non gliene frega niente a nessuno, perché non sono né dio né il caso che se le vivono al posto tuo, queste cose grigie.

Sono un uomo capitato qui per l’imprevedibilità degli eventi, in questo caso negativi - devi vedere il lato positivo nelle cose -non ci trovo nulla di positivo, mi fanno incazzare quelle parole e tutti quelli che me le ripetono, sono gli imperturbabili del mondo, sacchi da boxe che si fanno prendere a pugni e tornano sempre nel luogo dove li hanno ricevuti.

Fuori c’è una pioggia fitta che mi ammazza i timpani col suo rumore. Una scarica di micce esplosive che si travestono da gocce d’acqua e paiono meno pericolose.

Mi sento come la pioggia, un cocktail letale di rabbia e di dolore, condensati in un corpo immobile. Appiattisco tutte quello che provo e lascio che la pioggia inveisca al posto mio.

Ho un bambino nelle braccia che piange. Inveisce come la pioggia, l’ha capito pure lui che è nato con qualcosa che manca, è nato e si è perso un pezzo per strada.

Ti aspettavo e non sei arrivata, è arrivato questo bambino attorcigliato in braccia che non erano le tue. Un paio di braccia bianche, dentro un camice bianco, ha allungato alle mie questo bambino. Me lo devo prendere per forza, sono gli ordini silenziosi dei padri padroni a cui io devo obbedire, gli ordini di dio o del caso.

I medici le chiamano complicazioni.

Io le chiamo prepotenze.

Ero fermo a vedere le infermiere pulirmi sui piedi, non pensavo a niente se non all’attesa, la tua, e quella mi strappava lo stomaco a morsi.

Te ne stavi parzialmente addormentata mentre il sangue dal tuo corpo si sfilava e tante mani si infilavano a tirarti dalla pancia un gomitolo di carne. Non ti ho nemmeno vista.

Ho visto gli zoccoli di un’infermiera che usciva dalla tua stanza per venire a parlare con me, mi diceva le cose che si dovevano dire e mi guardava con gli occhi con cui bisognava guardare, a furia di capitare queste cose sono diventate prassi, teneva il tuo bambino in braccio, il nostro, me l’ha passato come si passano le lettere dei soldati che non tornano.

Nemmeno tu torni.

Gli ordini silenziosi dei padri padroni, ti togli le cose che ti tolgono e ti lasci le cose che ti lasciano, in un rabbioso silenzio.

Io mi devo togliere te.

Ho preso questo bambino nelle mani, ci sono macchioline del tuo sangue sulle palpebre, il tuo colore nei suoi occhi. È la scia di una barca che se ne è già andata. Anche io me ne devo andare.

Esco fuori nella pioggia fredda, mi faccio pulire i vestiti intrisi del tuo odore, mi lascio addosso solo questa carne nuova.

Le infermiere dentro sfregano ancora i pavimenti, li laveranno fino a che avranno tolto pure l’ultima molecola di te. Al posto del tuo odore di vecchio, ci spruzzeranno gli odori degli altri.

© Cristina Adinolfi





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