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Lo scolapasta rosso e l'immagine di sé
di Fiorella Malchiodi albedi
Pubblicato su PBSE2019


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Lo scolapasta rosso, di dimensioni eccessive, che entra sempre con difficoltà negli armadi della cucina, mi ricorda che tendiamo a essere troppo indulgenti verso noi stessi e che non sempre l’immagine che vediamo riflessa nel nostro specchio interiore ci rassomiglia davvero. Se mi chiedessero, ad esempio, se penso di essere generosa, direi di sì, come tutti. In realtà, penso di essere più generosa della media, ma questa non è una cosa bella da dire. E in fondo, non è neanche tanto vera, come lo scolapasta rosso, con la sua rotonda invadenza, non smette di dimostrare. Dannati oggetti di plastica che non si rompono mai!

L’ho comprato a Parigi, durante un soggiorno di studio. Perché l’abbia cercato di quelle dimensioni del tutto irragionevoli, anche considerando le ristrettezze del mio alloggio, rimane un mistero. Alla fine di quel periodo, mentre preparavo i bagagli per tornarmene a Roma, una mia amica lo notò sul tavolo, difficile non notarlo, e mi disse:

- Non è che potresti lasciarmelo? Mi farebbe proprio comodo.

"Ma certo" avrei dovuto dirle "anzi, mi fai un favore, è così ingombrante…"

E invece, senza esitazioni, le ho risposto:

 - Guarda, mi dispiace, ma non posso: ne ho proprio bisogno a Roma.

“Ne ho proprio bisogno a Roma”, e per fare cosa? Per cucinare due chili di pasta per volta? Programmavo cene per trenta persone? E neanche quando poi ho davvero dovuto faticare per infilarlo nella valigia ho avuto un ripensamento. E così l’oggetto è arrivato a casa, e poi mi ha seguito nei vari traslochi, indistruttibile, a perpetua memoria del fatto che poi, d’istinto, così generosa non è proprio che sia.

Essere altruisti è impegnativo, e bisognerebbe ricordarlo, prima di imbarcarsi in imprese di cui non è all’altezza.

Diana era un’amica conosciuta alla Caritas. Non raccontava molto della sua vita, ma sapevamo che aveva avuto diverse disavventure, compreso un periodo in carcere. Lavorava in una frutteria gestita da una specie di aguzzino, che le imponeva un orario impossibile, dalle 6 del mattino alle 9 di sera, e l’unico giorno libero veniva a cucinare alla mensa per i senza fissa dimora. Era di una vitalità e un’allegria inesauribili, sopravvissute chissà come a tutte le sue peripezie. Arrivava con le sue mise di maglina sintetica, aderenti e scollatissime, e si metteva a preparare succulenti ragù per gli ospiti, con la suora che le stava dietro passo passo, controllando che non usasse troppo condimento, o che eccedesse con il parmigiano sulla pasta. Lei diceva:

- Solo quello che ce vo’, sorè, - e come quella si girava, rovesciava l’intera formaggera sugli spaghetti. Il giorno in cui cucinava Diana c’era sempre una coda più lunga, a ponte Casilino.

A un certo punto ci annunciò che con i soldi messi da parte sarebbe riuscita a dare l’anticipo per una casa. Era entusiasta, avrebbe cominciato subito a cercarla, ma dai suoi non voleva proprio rimanere, qualcuno di noi poteva ospitarla, nel frattempo? Io subito mi offrii. Che problema c’era?

- Sarà per un periodo brevissimo. - disse lei.

- Resta quanto vuoi, - rispose la donna generosa, cioè io.

E così cominciò la nostra convivenza. Era veramente un tipo singolare, con modi di fare così diretti da rasentare la sgarberia, e un romanesco crudo, che ti buttava in faccia con ostentazione, e pareva volesse dire: “Siccome non parli in dialetto, pensi d’essere migliore di me?”

Erano buffe le reazioni dei miei amici di fronte a quel personaggio così insolito, che non lesinava sfottò a quel gruppo di laureati con il posto fisso, che avevano avuto una vita tanto più facile della sua. Ma nonostante le asperità del carattere, e i comportamenti sfrontati, risultò simpatica a tutti, per via dell’allegria contagiosa e dell’umorismo amaro. È rimasta storica una sua frase, di commento ad una delle lamentazioni di un mio amico, che si lagnava non so più se dei colleghi, o del lavoro.

- A’ Marco, - gli aveva detto con il suo accento colorito - ma c’hai la salute, c’hai ‘na casa, ch’hai ‘n lavoro, ch’hai pure ‘na donna: ma quanto voi sta’ bbene?

Tutti tacemmo: la consapevolezza di quanto spesso ci dimenticassimo di essere dei privilegiati ci aveva raggelato.

La ricerca e l’acquisto della casa, naturalmente, impiegarono molto più tempo del previsto e cominciai a rimpiangere di aver dimostrato tanta disponibilità, perché la coabitazione iniziava a pesarmi. Avevo sopravvalutato il mio altruismo, giudicandolo senza limiti, che invece esistevano, e si stavano rapidamente raggiungendo. Alla fine la casa fu comprata, ma c’era da arredarla, e certo lei di soldi, dopo la grossa spesa, non ne aveva. E così mi offrii di prestarle la somma necessaria per gli acquisti indispensabili, e di farle da garante presso una fiduciaria che le permettesse di prendere a rate il resto del mobilio. Ma era generosità o desiderio di riguadagnarmi la mia solitudine? Così alla fine traslocò, ma nemmeno questo mi affrancò dalla dipendenza da lei: non pagava le rate dei mobili, e neanche mi avvertiva, così quando alla fine ricevevo i solleciti, erano gravati dagli interessi per la mora. La cosa mi mandava in bestia.

- Almeno avvisami se non le paghi!

Ma non c’erano proteste, per quanto animose, che le facessero cambiare atteggiamento. Ogni volta era sicura di farcela, e invece, all’ultimo, i soldi se ne erano andati per qualche spesa urgente, e sempre presa da problemi di ogni tipo si era dimenticata di avvertirmi.

Ben presto fui talmente esasperata, che decisi di saldare il resto del debito con la finanziaria.

Alla fine fui molto dura con lei, le dissi che aveva dato fondo a tutta la mia pazienza, che si era approfittata di me, e altre spiacevolezze del genere. Non ci siamo più sentite per anni. Poi qualche tempo fa mi ha richiamato. È’ stata una grande gioia. Entrambe avevamo ormai cancellato il ricordo dei torti o delle cattiverie che ci eravamo inflitte reciprocamente. Io ricordavo l’amica con cui avevo condiviso tante serate allegre e alla quale darò eterna riconoscenza per aver salvato il mio ficus benjamin, tuttora in ottima salute, e lei l’amica che le aveva dato la possibilità di comprarsi e arredarsi la casa. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata, ci siamo salutate promettendoci di rimanere in contatto, ma nessuna delle due ha più chiamato l’altra. Se della conclusione di un’amicizia si è trattato, però, almeno è finita bene. E quel sottile fastidio di non essere stata all’altezza dello standard di generosità che mi attribuivo si è molto attenuato, anche se non è scomparso del tutto.

Ma non c’è niente da fare, la nostra abilità nel taroccare le carte è grande e tutte queste chiacchiere sono proprio la dimostrazione che verso di me, anche in questo caso, ho avuto un occhio di particolare riguardo. Cosa ho tirato fuori, per dimostrare i miei torti, il mancato regalo di uno scolapasta e l’irritazione per un’amica davvero troppo invadente? Sono queste tutte le mie colpe? Certo che no; ma i peccati reali, quelli bruciano troppo, e li tengo ben nascosti.

© Fiorella Malchiodi albedi





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(1) Lo scolapasta rosso e l'immagine di sé di Fiorella Malchiodi albedi - RACCONTO



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