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Topogon
di Angela Ravetta
Pubblicato su PB10


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Era un uomo tranquillo e di buon carattere. Cercava di non farsi notare perché sapeva che l'originalità è pericolosa e che gli uomini tendono a schiacciare chi è diverso.
Nascondeva accuratamente i suoi pensieri e le sue passioni perché rifuggiva dalla violenza ed era certo che nel caso avesse dovuto affrontarla ne sarebbe stato schiacciato.
Era un gran lettore di biografie che lo avevano convinto che, sotto pressione, tutti gli uomini dimenticano le loro qualità e anche i più degni diventano spregevoli.
Aveva picchiato una donna. L'aver compiuto un gesto così inverosimile, sul lavoro e in quel modo, aveva distrutto la sua sicurezza.
Navigava sottovento e non prendeva mai nulla di petto. Dopo il famoso calcione era riuscito a conservare il posto di lavoro offrendosi per le missioni in volo perché non si fidava di restare in ufficio. La sua società aveva vinto l'appalto per aggiornare le mappe cartografiche. Partiva sempre malvolentieri perché amava la sua casa. Maniaco dell'ordine, odiava la carlinga piena di strumentazione buttata alla rinfusa. Le apparecchiature le toccava solo lui. Le spolverava, soffiava via anche il più piccolo granellino di polvere. Sapeva che non mancava molto al giorno in cui non sarebbe più riuscito a staccarsi da terra e ne approfittava per missioni in paesi stranieri, anche se ormai solo in Europa.
Sarebbe stato un viaggetto in Germania e in Polonia. Avrebbe dormito qualche notte fuori casa perché non se ne poteva fare a meno.
Quando arrivò a Monaco era ancora giorno pieno e faceva caldo. Nella camera dell'albergo non riusciva a stare e uscì per strada. Evitava la compagnia dei compagni di lavoro. Dopo l'episodio del calcio era diventato un misantropo, lui che si considerava un uomo affabile e disponibile.
Andò a spasso attorno alla piazza, infilandosi nelle stradine che portavano alla cattedrale.
Si fermava davanti ai negozi di fotografia ed ottica, specialmente quando esponevano qualche vecchio modello di macchina fotografica. Era un grande appassionato e possedeva alcuni esemplari che erano stati di suo nonno. All'angolo di una strada, tra gli ingrandimenti delle foto di matrimonio e le pubblicità, un fotografo esponeva un apparecchio Zeiss. Ne aveva uno simile a casa, nella sua collezione privata. Restò ad osservare davanti alla vetrina. Il negoziante si affacciò e gli si rivolse in tedesco.
Stefano aveva l'aspetto di un ebreo e capiva qualche parola qua e là di quanto il gioviale commerciante gli andava esponendo. Entrò nel negozio e quello prese l'apparecchio dalla vetrina e glielo squinternò sotto il naso. Smontava e rimontava le varie parti, decantandone le qualità e invitando il cliente all'acquisto. Il prezzo era conveniente anche se apparecchi simili erano stati prodotti in grande qualità, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, con scopi di rilevazione aerea del territorio.
Se fosse stata una Zeiss Ikon prodotta prima del 45 allora il suo valore sarebbe stato notevole.
Turbato dal ricordo, che si ripresentava a tradimento, di se stesso che colpiva la ragazza, amava fare la parte del collezionista esperto e si fece incartare la macchina fotografica.
In albergo la posò sul letto, sciolse i nodi dello spago e scartò il pacco. Si era fatto buio e la luce al centro della stanza illuminava scarsamente l'apparecchio. Prese la lampada del comodino e gliela puntò sopra. Era marchiato Zeiss Ikon ma Stefano sapeva che giravano modelli contraffatti.
Smontò qualche pezzo, gli soffiò sopra, lo strofinò con un fazzoletto, lo osservò alla luce. Era un oggetto bellissimo, costruito con cura e, sembrava, perfettamente funzionante.
All'interno vide una scritta microscopica. Avvicinò il pezzo alla lampadina, si strofinò gli occhiali e distinse un:
"Topogon o Toporon."
Non poteva credere ai suoi occhi. Ma anche se la scritta fosse stata davvero Topogon, una delle due mitiche Topogon che la Zeiss aveva costruito prima dell'arrivo delle truppe statunitensi nel 1945 e delle cui prestazioni si favoleggiava, forse la scritta, anzi senza dubbio, la scritta era falsa, apposta per ingannare stranieri come era lui.
La mattina portò la camera all'aeroporto. Salì a bordo, si sistemò sul sedile e avviò il computer. Svolgeva una funzione di controllo: la camera per le riprese era sistemata sotto la fusoliera e riprendeva ininterrottamente il territorio sottostante. Il suo compito consisteva nel controllare che il flusso d'immagini non s'interrompesse. La camera aveva un sistema che le consentiva, ruotando sul suo asse, di assumere una posizione parallela al suolo in modo da evitare ogni deformazione dell'immagine. Quando la camera cominciò a trasmettere e il computer ad incamerare le riprese, Stefano si slacciò la cintura, si alzò in piedi nella carlinga e prese il pacco con la Zeiss, la scartò, si avvicinò all'oblò e incominciò a fotografare. Cercava inquadrature che avrebbe potuto confrontare con quelle della camera digitale per verificare le caratteristiche della presunta Topogon. La Zeiss si era specializzata in apparecchi di grande resa nel grandangolo.
Il piccolo aereo era dotato di una camera oscura che serviva, quando ancora si usava la pellicola, a controllare il lavoro fatto.
Mentre l'aereo tornava alla base, Stefano sviluppò le foto. Mentre aspettava, incominciò a visionare il dischetto con le immagini digitali.
Aveva ripreso l'area che era stata occupata dal Lager di Auschwitz. Si vedeva dall'alto la porta del campo, il museo e la chiesa. Nella bacinella anche le foto si stavano sviluppando. I bordi erano visibili nettamente. Appariva una data: 23 agosto 1944 e il campo diviso in baracche fittamente allineate. Un gran fumo si alzava a sinistra.
Stefano scattò come se la foto gli avesse morso la mano e la lasciò cadere sul pavimento.
Corse al computer, fermò l'immagine sulla cittadina di Oswjecim ma non trovò traccia di quella fossa comune in cui i cadaveri stavano bruciando. Raccolse la foto da terra, la scannerizzò e procedette ad ingrandirla. Una lunga fila di prigionieri in tuta a righe attendeva il proprio turno di fronte alle camere a gas.
Si fregò gli occhi ma il campo era sempre lì, sullo schermo del computer. Dunque doveva rassegnarsi, era impazzito. La lunga tensione, quel gesto sconsiderato, il calcio alla collega, con erano altro che le avvisaglie del suo male.

Oppure, che cosa credere: che la Topogon fotografasse il passato?
L'immagine, così nitida, lo attirava. Andò al computer e tentò di ingrandirla eliminando ogni distorsione, ricercando la massima definizione.

Ora era in grado di vedere nitidamente la grande fossa comune in cui bruciavano i corpi, i kapò che sorvegliavano le file dei deportati, le porte chiuse delle baracche. In fondo, proprio ai margini del campo, un prigioniero spingeva una carriola e il suo compagno, il suo accompagnatore scheletrico, alzava le braccia e il viso, urlava a chiedere aiuto a lui, a lui, sull'aereo.

© Angela Ravetta





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