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Disìo
di Silvana Grasso
Pubblicato su SITO


Anno 2005- Rizzoli
Prezzo € 17- 251pp.
ISBN 9788817007252

Una recensione di Lucia Sedda
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 Disìo

Era incontaminata la luna da quel cancro, il Giudizio, che ogni uomo ha in sé nascendo, solo perché viene al mondo, solo perché sarà nome nell’anagrafe del paese. La luna non doveva giudicare, né capire né patire. La luna era solo la luna. Memi invece non è solo Memi. È anche Ciane. È una donna scampata da feto al ferro da calza nell’utero di sua madre. Memi è una donna che sfida tutto, per prima cosa sé stessa e la lontana incomprensione nei confronti di sua madre. Sfida il passato e la sua infanzia guastata dal venditore di ghiaccio e dall’ossessione di quei capelli rossodiavuli per i quali ha pregato inutilmente Dio un’imminente calvizie. Ritorna in Sicilia quando è gia diventata Ciane, psichiatra a Milano, prossima a divenire primario, senza più alcuna inflessione meridionale, stentano a riconoscere tutti la sua sicilianità ben celata, prossima ad una nuova metamorfosi, al contrario. Ritorna in Sicilia perché ha giudizio, non è una semplice luna. Memi ritorna e vince un concorso già assegnato, quindi impossibile. Ritorna nella sua città, turistica e ventosa, nominata in tutto il romanzo con tre semplici asterischi, forse in rappresentanza di qualunque cttà della Sicilia, o forse perché al posto di quei tre asterischi l’autrice avrebbe voluto inserire il nome della propria città rischiando l’autobiografia. La città di Memi è governata dalla mafia, personificata da più elementi. Dal direttore sanitario viscido e arrogante Dolcemascolo, dall’inetto governatore della Sicilia e soprattutto dal fratello di questi, Emilio, tetraplegico per una caduta in acqua a ferragosto, ma acuto filosofo e finissimo conoscitore di opera. A *** niente è come sembra, e questo preambolo fatto dall’autista dell’autobus che porta la protagonista in un albergo vicino al mare, segue l’intero romanzo senza pausa. Scopriamo un sistema che farebbe ridere se non fosse terribile. Sarebbe ironico se non fosse spietato. Mafiosi che presenziano in prima fila ai funerali delle persone che hanno ucciso e che intavolano i migliori discorsi di cordoglio. Che organizzano perfettamente le elezioni, preparandole a tavolino, inscenando dei conflitti elettorali più studiati di uno spettacolo teatrale. E poi le manifestazioni per la legalità e le serate di gala contro il loro stesso sistema , tutta apparenza affinchè la parvenza fuori e dentro l’isola sia quella di un mutamento imminente. Niente cambia. La metamorfosi di Memi si incrocia con quella anelata per la sua cittadina ma, come la sua, è destinata ad arrancare davanti all’omicidio del nuovo procuratore che per un atto di coraggio ritorna al nord dentro una bara. O a quello dei due giovani tossicodipendenti del Sert che Memi stessa gestisce, bruciati vivi nel canneto davanti al suo albergo, solo per un avvertimento. Nel paese dei tre asterischi e in tutti quelli della Sicilia niente può cambiare. Il procuratore ucciso viene sostituito con un altro picciotto sperto ed affidabile, uno della nostra razza, come lo definisce Dolcemasculo. Uno che chiude gli occhi senza aprire alcun fascicolo davanti a rifiuti speciali smaltiti in maniera sbagliata, ad appalti progettati ancor meglio delle elezioni, o a reparti dell’ospedale che esistono solo sulla carta. Non porta i tacchi a spillo ma è buttana lo stesso. In un susseguirsi di eventi, torna anche al cimitero a trovare sua madre, dove in un loculo c’è anche quell’aborto tra le lenzuola perfetto quasi in tutto tranne che per le unghie , accuratemente riposto in una scatola di scarpe. Quelle sue preferite, da bambina, di vernice nera. La battaglia della metamorfosi pertanto si confonde. I tempi della sua vita si scontrano. I ricordi fanno a pugni con il presente. E la disperazione di essere immobilizzata davanti agli eventi che le scorrono addosso, si confonde con quella di lei bambina e dei suo capelli rossodiavuli che non si sono mai staccati dalla sua testa, nonostante le preghiere. Memi donna e Memi bambina si affrontano e si scontrano. Perdono entrambe, come il ragazzo, figlio di contadini e che, con il massimo dei voti, si laurea al nord per poi ritornare in Sicilia, anch’egli per il concorso da primario. Ma si ammazza perché sa anche lui che niente è cambiato. Quel concorso, simbolo dell’illegalità mafiosa è simbolo della possibilità di cambiamento. Ma se Memi lo vince e per un attimo sembra che qulcosa sia cambiato, in realtà tutto è ancora come prima. E Dolcemasculo e gli altri quella buttana vogliono farla fuori. Perché il sistema a *** funzionava esattamente come in una tonnara, se i tonni ci entravano nella camera della morte era mattanza sicura. I tonnaroti che armati di arpione cusivano un cerchio di barche attorno al mare erano un sodalizio, quasi una confraternita religiosa. Così funzionava la mafia quando funzionava davvero, una rete grande e invisibile, un’intesa di molti, un successo sicuro, un’onesta spartizione di potere. Il romanzo è interessante dal punto di vista drammaturgico ma non osserva una costante di omogeneità . Inizialmente stenta a decollare nel lungo racconto della veglia di sua madre, poi riparte inaspettatamente con l’introduzione dei nuovi personaggi e per un attimo si ha la sensazione di aver perso di vista la protagonista, come se persino l’autrice se ne fosse dimenticata. Poi i fili riappaiono e la narrazione diventa più comprensibile. Quanto alla scrittura, lo stile della Grasso gonfio di sicilianismi e di metafore appesantisce spesso il racconto costringendo il lettore a saltare intere righe per arrivare al nocciolo della storia. Se la scrittura fosse più misurata, più scarna e meno arcaica il romanzo ne guadagnerebbe in forza narrativa e in intensità. Comunque un romanzo da leggere, da assoporare, da riflettere. Uno sguardo cinico e impotente su un’illegalità che non ha mai fine.


Una recensione di Lucia Sedda



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