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Da D'Annunzio a Pirandello
di Mario Puccini
Pubblicato su SITO


Anno 2007- FONDAZIONE ROSELLINI Senigallia
Prezzo € 15-
ISBN n/a

Una recensione di Marco R. Capelli
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 Da D'Annunzio a Pirandello

Siamo venuti in contatto con “Da D'Annunzio a Pirandello” quasi per caso. Ci eravamo occupati su “Progetto Babele”, di Mario Puccini, nel 2002, lamentando il fatto che diverse delle sue opere rimanessero introvabili, il che ci sembrava singolare, data la qualità dello scrittore. Sono passati diversi anni da allora, e altre opere di Puccini sono state ripubblicate, ma il Puccini critico rimane largamente inesplorato. Siamo stati contattati da uno studente spagnolo, Francisco José Diaz, che aveva svolto una tesi di laurea sulla traduzione in italiano del “Da D'Annunzio a Pirandello”: nonostante le inevitabili pecche della versione dallo spagnolo, questo dimostrava che il testo esisteva ancora, ed era possibile, grazie al contatto con la Fondazione Rosellini, ricostruirlo in una versione stampata, specialmente se almeno una parte dell'originale pucciniano in italiano poteva essere recuperata. Era credibile, data anche la vastità del catalogo delle pubblicazioni su giornali e riviste di Puccini, comprendente alcune migliaia di numeri, che una buona parte del testo fosse stata pubblicata in italiano in forma di articolo, prima o dopo la stesura del libro in spagnolo. Inoltre, nella traduzione spagnola, c'erano un certo numero di citazioni di scrittori italiani, tradotte “a senso”, una procedura “scorretta” in certo qual modo, giustificabile solo per lingue molto distanti, come lo spagnolo e l'italiano non sono.

Per ricostruire il testo, in tutti i casi in cui un testo di riferimento esisteva, abbiamo dato precedenza alla versione italiana, anche se questa era cronologicamente precedente di qualche anno all'uscita del libro.
L'operazione è stata complicata dall'abitudine dell'autore di modificare i propri testi, magari in modo estremamente sottile, ogni qualvolta questi venivano ripubblicati. Può trattarsi di un aggettivo, di una parola sostituita o omessa, oppure, persino, di un intero paragrafo rimosso o aggiunto per ribadire o smorzare un concetto. Nel caso della traduzione spagnola, altre modifiche sono dovute alla necessità di spiegare qualche aggettivo o sostantivo non chiaro al pubblico spagnolo (per esempio chiarendo che il “crocianesimo” deriva dal filosofo Benedetto Croce) od in altri casi, in testi successivi al 1925, ci sono
inserti più “politici”, per esempio questa frase contro il parlamentarismo, che compare in un articolo del 18 agosto 1928 sul “Corriere adriatico”, che riproduce per il resto quasi esattamente il preambolo completo di “Da D'Annunzio a Pirandello”: “Spettatori cioè silenziosi di quel parlamento romano, dove tutte le mediocrità d'Italia affioravano e il cicaleccio, la calunnia e l'insidia aiutavano la loro azione e la loro ascesa? O attori! [...] Se mai, repubblicani, socialisti, anarchici o non so che cosa, ma insomma ribelli, ché, solo essendo ribelli, ci si poteva sentire uomini liberi, intelligenti, attivi: rispondere alla tradizione”. Più raramente (ma ci sono) si trovano vere e proprie modifiche concettuali. Nei casi in cui il testo spagnolo e quello italiano differiscono, ad esempio, per la scelta di un aggettivo o di un sostantivo, abbiamo preferito mantenere l'integrità del testo italiano.

Un po' di storia sarà utile: Mario Puccini pubblicò il suo Da D'Annunzio a Pirandello nel 1927, in traduzione spagnola, ad opera di Enrique Alvarez Leyva, per i tipi dell'editore Sempere di Valencia: Puccini, come ispanista, era abbastanza conosciuto in Spagna. C'erano forse altri motivi per divulgare il suo libro in Spagna, prima che in Italia: in particolare, il libro trattava, ed in modo non particolarmente lusinghiero, di Gabriele D'Annunzio; il 1927 è l'anno della formazione dell'Accademia d'Italia, ed è sicuramente il momento in cui il fascismo inizia a prestare una certa attenzione alla cultura, cercando, come poi avverrà in modo molto più sistematico negli anni '30, di influenzarla. E D'Annunzio restava sicuramente, malgrado i suoi rapporti altalenanti col governo fascista, un nome importante della cultura italiana dell'epoca. Era in certo senso urgente, secondo Puccini, chiarire che l'influenza dannunziana sulla generazione di scrittori cui egli stesso apparteneva era assai meno profonda e totalizzante di come poteva apparire a prima vista.

Comunque sia, il testo di Puccini fu composto in Italia, e fu il frutto di parecchi anni di lavoro e di riflessione: alcuni dei testi erano per esempio comparsi sulla rivista “Bylichnis” già tra il 1922 ed il 1923, ma l'introduzione reca la data dell'agosto 1925, in Falconara. Tutto il testo è stato pensato come
scritto nella vicinanza della “terribile soglia dei quarant’anni”, che Puccini compiva appunto nel 1927, quando lo scrittore sente di avere quasi un dovere morale di chiarire il terreno della letteratura attorno a sé, specialmente mettendo in evidenza quali fossero, non tanto le sue simpatie personali, quanto la sua idea di letteratura. Un'idea che rifuggiva da ogni manierismo o calligrafismo e si rifaceva al suo grande maestro Verga, che sulla scia di Manzoni e poi di Carducci, “grande romanziere, ma in poesia”, aveva innovato il romanzo in Italia, secondo schemi non presi totalmente dal romanzo estero, specialmente francese (anche se Puccini è costretto ammettere che Verga inizia il suo percorso letterario ispirandosi ai romanzi di Emile Zola).

L'idea di fondo di Puccini era quella, partendo dalla sua propria storia di studente di seminario nella Senigallia, cioè nelle Marche di fine Ottocento, di parlare degli scrittori che egli aveva conosciuto personalmente, o comunque di quegli autori della nostra letteratura che grossomodo avevano iniziato ad avere successo negli anni intorno al 1890. In realtà, lo schema è contratto o dilatato a piacimento: per esempio sono inclusi gli scrittori della Scapigliatura, come Giuseppe Rovani e Carlo Dossi, i cui maggiori successi datano degli anni '70 dell'Ottocento. L'importanza degli scapigliati è per Puccini quella di aver tentato, non riuscendovi, di proporre un nuovo tipo di romanzo, innovativo dal punto di vista linguistico e strutturale, ed anche delle tematiche; per esempio “La colonia felice” di Carlo Dossi, dove si immagina che uno stato utopistico ed ideale si insedi in un'isola deserta, ha i suoi punti deboli, secondo Puccini, proprio nella scarsa adesione del linguaggio alla psicologia dei personaggi, che è proprio uno degli aspetti che sarà la radice della forza singolare del Verga del “Ciclo dei vinti”. Un altro Verga, sarebbe potuto essere al nord Italia Antonio Fogazzaro, ispirandosi ad Ippolito Nievo, ma, secondo Puccini, il suo limite è nell'eccessivo autobiografismo, e nel grande interesse portato alle questioni dottrinarie e politiche, specie negli ultimi romanzi, piuttosto che alla rappresentazione oggettiva della realtà.
Puccini, non solo perché i suoi interessi sono rivolti alla narrativa, include solo moderatamente la poesia nel testo (ci sono appena dei modesti cenni, per esempio di Giovanni Pascoli, ed anche la poesia crepuscolare di Gozzano è appena accennata in nota, ed in modo piuttosto critico): si parla solo delle liriche giovanili di Fogazzaro, un po' si accenna a D'Annunzio poeta, anche se il grosso della trattazione riguarda il narratore e, specialmente, l'uomo ed il personaggio, come vedremo in seguito.
C'è tuttavia un lungo capitolo dedicato a Giuseppe Ungaretti, che Puccini stimava molto, avendolo conosciuto in guerra: la loro amicizia perdurò a lungo, anche nel periodo, intorno alla metà degli anni '30, in cui Ungaretti insegnava letteratura italiana in America Latina. Dal punto di vista storico e letterario, Puccini riteneva che Ungaretti, vero “uomo di pena”, fosse stato in grado, nelle poesie di “Allegria di naufragi”, di esprimere con grande efficacia la pena, la sofferenza di tutti gli uomini che si trovavano in trincea, specie nel drammatico periodo della resa di Caporetto, che ha ispirato tra gli altri anche Ernest Hemingway. Al contrario, altri scritti di guerra, come il “Notturno” di D'Annunzio, lo lasciavano freddo.
Ed in effetti, proprio partendo dall'occasione della sua lettura del “Notturno”, Puccini espone la sua visione del “personaggio D'Annunzio”. Puccini ritiene che l'incontro, quasi cordiale, con D'Annunzio durante la guerra gli abbia consentito una miglior comprensione almeno della persona del Vate, se pur dubbi gli restavano sulla sua opera. Tuttavia, tornato dalla guerra, leggendo il “Notturno”, l'impressione di artificiosità e di calligrafismo si rinnovava, e questa sensazione di falsità si propagava al personaggio, che, dopo alcuni anni dalla fine della guerra, era ancora senza dubbio in auge, anche se ormai lontano dal reale impegno politico. Puccini arriva soltanto ad un parziale riconoscimento dell'importanza storica di D'Annunzio (dire rivalutazione sarebbe troppo), indirettamente, cioè parlando del futurismo di Marinetti, che egli vede come un movimento di rinnovamento dell'arte dalla crisi dell'uomo moderno, che era per lui evidenziata sia da certi aspetti del verismo che dalla sensualità dannunziana. Dalla crisi, secondo Puccini, non ne esce Marinetti con le sole armi della poesia, e di una poesia in fondo dannunziana, perché non riesce a legare il rinnovamento alla tradizione, come farà politicamente il fascismo, di cui il futurismo è in fondo un precursore, ed è proprio per questo che nel momento in cui Puccini scrive “Da D'Annunzio a Pirandello”, il futurismo, che ormai produce poco letterariamente parlando, viene celebrato.
Il riconoscimento, a parere di Puccini eccessivo, di cui D'Annunzio gode in quel momento, contrasta con il relativo disinteresse, anche fra i giovani, per Pirandello, che Puccini considera il miglior scrittore italiano vivente in quel momento, superiore quindi non soltanto a scrittori molto noti negli anni '20, come il suo concittadino Alfredo Panzini, ma anche allo stesso D'Annunzio. In particolare, malgrado nei primi anni '20 alcuni drammi di Pirandello, come per esempio “Enrico IV” e “Sei personaggi in cerca d'autore”, avessero ricevuto, dopo qualche contrasto, un notevole riscontro di pubblico e critica, tuttavia manca ancora secondo Puccini il riconoscimento generale di Pirandello come “un efficace rappresentante della vita, un profondo conoscitore degli uomini, un maestro della prosa moderna” Parlando di Pirandello, Puccini si sofferma sull'uso espressivo e cruciale che egli fa dell'umorismo, ed a questo proposito non mancano nel testo menzioni di altri umoristi apprezzati da Pirandello stesso, uno per tutti il mentovano Alberto Cantoni.
Non mancano altri ritratti molto vividi di scrittori famosi in quel periodo, ed ancora viventi, come Panzini appunto, sul quale Puccini scrive un saggio piuttosto affettuoso, pur se riconoscendo i limiti umani della sua visione borghese della vita, specie riferiti a “La lanterna di Diogene”, o Giuseppe Antonio Borgese, o morti di recente, come altri scrittori che Puccini stima molto: Federigo Tozzi e Adolfo Albertazzi, ma il cuore di “Da D'Annunzio a Pirandello” è che scrivendo ciò che pensa dei vari scrittori dell'epoca Puccini chiarisce anche la sua idea di letteratura, che è basata sul concetto dell'”utilità”, non in senso pratico, ma in senso etico, di alta moralità. Dice Puccini: “L'arte per l'arte, l'arte per puro spasso, il giuoco frivolo della parola e della virgola non ci invitano. Teniamo bensì alla parola ed alla virgola: che siano al loro posto, proprie ed armoniche; ma, sotto la parola, noi
cercheremo sempre di non far sentire il vuoto”. Questo concetto dell'”esser utili” viene chiarito in tre caratteristiche, che sono la chiarezza, l'ordine, l'economia. Per giungere ad applicare queste proprietà in un testo letterario, è tuttavia necessario conoscere profondamente il proprio mondo e chiarirsene il significato.
Ed allo scopo, Puccini riprende le parole che Foscolo riferiva agli imitatori di Boccaccio: “affettati, freddi, più curiosi delle parole che dei pensieri, più del ritmo che della passione”, applicandole agli scrittori suoi contemporanei, in particolare a D'Annunzio. Questo calligrafismo ed artificiosità si oppone agli scopi della letteratura, come egli li percepisce. Certamente, servono dei sostegni per raggiungere la condizione di utilità al lettore, nel senso alto in cui Puccini li concepisce. Questi sono i suoi due pilastri: Manzoni, come scrittore che, unico romanziere in Italia, ha raggiunto la piena serenità artistica, morale e religiosa, e il cui più degno seguace è, secondo Puccini, Giovanni Verga, e la fede.
Quest'ultima è intesa come fede nell'aldilà, non necessariamente cattolica, infatti “sentiamo che non tutto è accettabile delle dottrine della chiesa; ma il bisogno di sfuggire a un mondo viziato quale ci ha lasciato l'immediato dopoguerra ci costringe d'altronde e assolutamente, ad una disciplina spirituale: per salvare ad ogni costo la nostra fiducia ed ottimismo”. E con l'appoggio della dottrina di Cristo, che permette di sentire Dio internamente “noi potremo davvero giungere ad elevarci sulle contingenze e minutaglie, che oggi traboccano da tutti i libri ed esprimere forse un giorno in un'epica nuova la turbinosa tragedia del nostro tempo”.
(Carlo Santulli e Marco R. Capelli)

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Una recensione di Marco R. Capelli



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