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Albert Camus: tra letteratura e filosofia.
di Patrizia Cau
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Albert Camus: tra letteratura e filosofia. Albert Camus (Mondovì 1913 – Villeblevin (Yonne) 1960) è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura del novecento ed uno dei grandi dell'esistenzialismo francese.
Questo perché pur non essendo le sue opere, strettamente né tecnicamente filosofiche, come anche Camus ebbe a dire “La mia opera non è filosofia”, troviamo accanto ad una vena genuinamente artistica e letteraria che gli è valsa il Premio Nobel ricevuto nel 1957; grandi concetti filosofici presenti sia nei suoi grandi romanzi quali: Lo straniero (1942) - La peste (1947) – La caduta (1957), o il postumo La morte felice (1960), così come anche nelle opere teatrali quali Caligola (1938), Il malinteso (1944), I giusti (1950), che trovano il loro apice nei due importanti libri che costituiscono come anche Camus disse : “ i miei Livres d'idèes” : Il mito di Sisifo (Le mythe de Ssyphe ) del 1942 e L'uomo in rivolta (L'homme rèvoltè) del 1951, dove porta avanti e sviluppa determinate idee. Il suo pensiero filosofico ruota sull'esistenza e la sua assurdità.
L'esistenza dell'uomo è vista come un qualcosa che gli piomba addosso, senza che esso possa averne il controllo, né una opportunità di scelta, perché la vita è l'assurdo e l'esistenza in essa senza senso.
Il forte senso dell'assurdità della vita si ritrova espresso ampiamente nel saggio: Il mito di Sisifo (pubblicato nel 1943).
Sottolineato giustamente come Saggio sull' assurdo. Questo, inizia con la seguente frase: “ C'è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia".
Il personaggio è Sisifo, condannato dal suo destino a sospingere in cima ad un monte un macigno , che poi ricadrà giù, è costretto a ripetere questo suo gesto inutilmente e, questo rappresenta secondo Camus, come l'uomo sia di fronte all'assurdo.
La situazione è al limite dell'essere e dell'agire. Cioè l'uomo è costretto a porsi delle domande sul senso della vita e sul suo atteggiamento davanti ad essa. La vita non ha senso, è senza ragione, ed il tempo corrode l'uomo, e la morte aspetta ogni individuo. Per cui, la vita vale la pena di essere vissuta, o è il caso di non viverla? Perché come dice Camus “gli argomenti etico – religiosi e sociali, tradizionalmente, invocati contro il suicidio non hanno nessun valore, perché la vita stessa non ha valore intrinseco”. Per cui la conclusione logica dell'assurdità è dare una risposta logica al suicidio. Ma l'assurdo non sta nell'uomo in sé, o nel suo incontro con il mondo, ma nell'esigenza di riconoscere nel mondo uno scopo o un senso. Ma questo non c'è, e l'uomo deve rinunciare alle sue illusioni sulla vita. Camus stesso però non rinuncia alla vita, in realtà lui on opta per il suicidio, perché in fondo la vita è bella anche se è assurda, per cui infatti egli stesso dice ...”dobbiamo immaginarci Sisifo felice”. Cioè dopo aver valutato l'inutilità dell'esistenza c'è ancora la gioia elementare della vita con il sole, le stelle il mare e tutto il resto. Ed è con questa gioia, soprattuto con la gioia della creatività che Camus scrive e comunque affronta la vita. Lui stesse dice: L'esistenza è buona nonostante tutta la sua assurdità”
Però è inevitabile sentirsi stranieri nel mondo.
Ma la vita, allora come può essere vissuta? Attivamente o in piena consapevole rassegnazione della sua intrinseca assurdità?
Nel romanzo Lo straniero (1942), considerato all'unanimità uno dei massimi capolavori della letteratura del novecento, troviamo la sconcertante risposta: l'uomo, se accetta di vivere, non può che accettare la vita così come è: assurda e senza senso, con gli eventi che si susseguono senza che egli possa intervenire. Così l''uomo è straniero nel mondo, perché la vita stessa gli è estranea, perché senza senso e senza valore.
L'incipit iniziale di questo romanzo è una laconica frase:
“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall'ospizio: "Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti." Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L'ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l'autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l'aria contenta. Gli ho persino detto: "Non è colpa mia." Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo”
L'impatto del lettore con l'apatia dei sentimenti del personaggio, nei confronti della madre donatrice di vita, è forte e quasi imperdonabile. Ma è solo l'inizio, di quel vuoto ed estraneità totale nei confronti di tutto e di tutti, che comprende anche la sua stessa vita. Tutto il romanzo è il punto di non ritorno dell'estraneità dell'uomo dal mondo. Il protagonista è un certo Meursault, impiegato di Algeri, che vive uno stato di totale indifferenza e atonia, ed estraneità di fronte alla vita. Ricevuto il telegramma della morte della madre andrà senza un sentimento al suo funerale, avrà un rapporto con una ragazza senza un vero motivo. Dopo una lite con due arabi incontrati per caso, dopo un ripetuto scontro e sotto la minaccia di un coltello, ucciderà accecato dalla luce del sole, e senza nessun motivo plausibile sparerà altre quattro volte sul cadavere. Meursault verrà processato e condannato a morte, non dimostrando nessuna reazione agli eventi, tranne uno scontro col cappellano che cerca di accompagnarlo a suo modo nell'ultimo viaggio della sua vita, ma che egli rifluita dicendo che non ha tempo per dio, rivelando la sua visione della vita:: completa estraneità e totale accettazione del suo destino. La morte che inevitabilmente segue la vita, è quasi una giustificazione alla vita senza senso.
In questo drammatico romanzo l'estraneità che separa l'uomo dal mondo è totale. La realtà non ha senso, né alcun valore, tutto avviene senza un motivo valido o giustificabile, e l'uomo non può intervenire. Così esso è estraneo nel mondo, e non ne coglie il senso né non trova giustificazioni, ed il personaggio emblematicamente ucciderà senza sapere dire il perché lo ha fatto. L'accettazione passiva della morte è inevitabile e dovuta, perché essa è vista come la conseguenza naturale della vita ed anzi ne impersona la giustificazione alla sua assurdità.
Ma Camus rinuncia ad essere etichettato come pessimista, e dopo aver immaginato Sisifo felice, e aver invitato a cercare la gioia elementare, scriverà con L'uomo in rivolta (pubblicato nel 1951) , la conclusione logica del Il mito di Sisifo. Se in questo ultimo la domanda era: perché in fin dei conti si vive e non si decide di farla finita? Quale che sia questa scelta, vivere o morire, o vivere e non avere preso dunque alcuna decisione, l'uomo è solo. Sisifo è solo. Non è solo la vita altrui ad essere considerata assurda. L'indifferenza per la propria vita è l'indifferenza per la vita altrui. Viviamo in pieno nichilismo.
Nel L'uomo in rivolta, il problema è l'omicidio, ovvero il tentativo di superare l'indifferenza della vita, di cui l'omicidio ne è la conseguenza. Cioè Camus in sintesi dice: una volta che abbiamo visto che la vita è assurda e decidiamo di viverla, non possiamo per alcun motivo impedire agli altri di vivere la propria vita, per cui dobbiamo abbandonare l' indifferenza per la vita altrui e arrivare all'obiettivo : del rispetto della vita. Questa è la morale. E Non solo. Camus utilizza Descartes (Cogito ergo sum) per apportargli una variante fondamentale, superando la solitudine del soggetto del mondo, infatti dice: «Je me rèvolte, donc nous sommes (Sono in rivolta, quindi siamo)».
Per Camus l'uomo non è solo al mondo, e la solidarietà deve risiedere senza condizionamenti, tra le persone. L'uomo deve ribellarsi alle ingiustizie, all'oppressione, al razzismo all'omicidio e alle ineguaglianze. Bisogna ricordarsi che in quegli anni ( 1951) si era nell'epoca dei grandi sistemi totalitari : lo stalinismo e le conseguenze del nazionalsocialismo, o anche la guerra per l'indipendenza dell'Algeria, dove sembrava valere il detto “del fine che giustifica i mezzi”.
Camus ha sempre creduto nella solidarietà, nell'impegno politico e sociale, basti pensare che si è trovato in prima persona nella Resistenza Francese del 1942, come anche nella al periodo della Francia occupata nel 1944/45 . La sua adesione non avviene per una ideologia di parte, ma per il fatto che egli vede in qualunque ideologia che non mette al primo posto l'unità e la dignità dell'uomo, una cosa da combattere ovvero una rivolta contro quelle rivoluzioni, che vorrebbero costruire un mondo nuovo uccidendo però le persone. Questo libro causerà la netta rottura con J.P. Sartre, che giustifica la violenza, partendo dal concetto che il regno della libertà va pagato con la vita degli uomini che si oppongono al futuro e che vogliono conservare il mondo vecchio. Camus contrappone a ciò semplicemente il fatto che la rivolta contro la rivoluzione è una lotta per umanità, è la lotta per un mondo nel quale gli uomini non vengano più ammazzati.
Inoltre, in quegli anni Camus si attivò per la abolizione della pena capitale. Nel 1957 uscì Riflessioni sulla pena capitale , in cui conduceva una vera e propria campagna contro la pena di morte , diceva :” invece di uccidere e morire per diventare quello che non siamo, dovremo vivere e lasciare vivere per creare quello che realmente siamo”.

A cura di Patrizia Cau



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