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La lettura in Italia ed in Inghilterra: qualche nota per un confronto
di Carlo Santulli
Pubblicato su SITO


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Si sa (tutti lo dicono...) gli Italiani leggono poco, dai tempi in cui Hemingway parlava degli italiani, come di un popolo di cui una metà scrive, e per l'altra metà non legge. Poco, ma un po' di più, mi sembra di poter dire, di quanto accadeva in passato. C'è in questo purtroppo anche un retaggio della cultura cattolica pre-concilio, che limitava la Lettura per antonomasia, cioè quella della Sacra Scrittura, alle persone consacrate.
Anche la scuola italiana tradizionalmente si è posta in una certa posizione di diffidenza, rispecchiata spesso da riflessioni intellettuali, sulla lettura “disorganizzata” e “spontanea”, che poi (diciamocelo senza falsi moralismi) è la lettura veramente divertente. Invece, bisognerebbe arrivare ai moderni passando per i classici, leggere prima questo e poi quello, ed una volta affrontato un autore, leggere tutto fino ad esaurirlo. Poi, in vecchiaia, non leggere: rileggere. Ma, detto fra noi, qualcuno lo fa davvero? (O meglio: si può fare davvero?)
Un certo scandalo ha suscitato recentemente l'affermazione, contenuta nel romanzo dichiaratamente autobiografico di Domenico Starnone, “Labilità”, che il ragazzo-Starnone avesse iniziato a leggere dalle pagine di “Annabella”, una rivista femminile che girava per casa. Non che poi l'autore non sia passato a letture più corpose: ma comunque, la lettura è prima di tutto un esercizio di libertà, e come tale andrebbe forse inteso. Ma gli intellettuali, si sa, possono esser tutto fuorché liberi...
Detto questo, ci sono testi nella scuola italiana che, con tutti i loro limiti, ricordo sempre con affetto, e sono le antologie scolastiche. Più vaste e ridondanti erano (anche di letture ai limiti, o decisamente fuori dai programmi) e maggiore era la soddisfazione nel leggerle. Beh, sì, perché io le antologie le leggevo, e mi rammento di innumerevoli autori scoperti in quelle pagine: da Calvino a Buzzati, dall'umorismo (“Il carnet del maggiore Thompson” di George Daninos, per esempio), ma anche ad autori più classici, il Fogazzaro di “Eden anto”, il cruento Verga di “Libertà”, il D'Annunzio verista delle “Novelle della Pescara”.
E poi, ai tempi del ginnasio e del liceo, tra tante cose, il marinismo: avevo una vecchia (nel senso di probabilmente antiquata: le pagine odoravano ancora di stampa) antologia che, sulla scia di Croce (cosa che ho capito dopo) letteralmente “massacrava” con giudizi trincianti ed aspri molto della poesia secentista. Salvo poi ad offrire una certa scelta, oltre che del cavalier Marino, di Achillini, Leporeo, Gongora, ecc., scelta che mi ha permesso di apprezzare una poesia, che non è immune da quello sperimentalismo, che consideriamo per altri versi tanto “moderno”.
Se la scuola italiana tradizionale insegnava solo relativamente a leggere (come nel caso delle antologie scolastiche), insegnava, ed anzi pretendeva, che si scrivesse, e lo si facesse bene. Da qui l'amato/odiato tema di letteratura, che ha il vantaggio di obbligare gli studenti a cercare di esprimere in modo corretto quello che sanno, ma ha l'evidente limite di non chiamarli mai a giustificare chi e dove ha detto qualcosa, cosa che in un saggio letterario è obbligatorio (per fortuna) specificare, a meno di errori ed omissioni. Infatti, negli ultimi anni c'è un vero e proprio accanimento contro il tema a favore del saggio, che ha indubbiamente qualche motivo, a quel che credo, oltre che quello di imitare una struttura molto diffusa nella scuola anglosassone (un saggio in piccolo è il “Mostra e dimostra” di Sally, la sorella di Charlie Brown, il “ragazzo con la testa rotonda” dei fumetti di Schulz).
Il problema del saggio è che non è vero che in esso non si possa copiare (o meglio: non citare la fonte da cui si prende l'informazione); questo in Inghilterra si chiama plagiarism, ed è una delle preoccupazioni principali di chi lavora nella scuola, dal preside (ma direi dal ministro) in giù.
Mi sono trovato ad essere (stavo per dire mio malgrado, ma forse è ingeneroso) per molti anni in Inghilterra: una delle cose che sapevo di quel paese, era che gli inglesi leggevano molto. Si citano le cifre dei best-seller, e poi in particolare quelle dei giornali, e chiaramente queste sono tutt'altro che lusinghiere per noi: nel nostro paese siamo, od eravamo tre o quattro volte al di sotto come numero di libri e di giornali venduti, a fronte di una popolazione soltanto leggermente inferiore.
Ci sono tuttavia alcune considerazioni da fare, che mitigano di molto la portata di quest'affermazione, a parte il fatto, ovvio, che stiamo parlando di un paese in prevalenza protestante, e quindi la lettura è stata incoraggiata apertamente per oltre quattro secoli. La scuola inizia prestissimo a proporre la lettura, fin dai quattro anni/quattro anni e mezzo, mentre la scrittura, anche per le obiettive difficoltà dello spelling, viene a ruota. Questo porta al fatto che, a differenza che in Italia, i bambini diventino molto presto lettori, ma abbiano spesso difficoltà di scrittura, fino ad un'età ben addentro alla scolarizzazione.
Certo: lettori, ma di che cosa? Si rimane molto colpiti, girando in treno l'Inghilterra, come moltissimi viaggiatori leggano. Tipicamente però si tratta dei best-seller del momento, libri immuni da qualunque sperimentalismo: ci sono autori che hanno un continuo seguito di lettori, a parte i noti nomi del thriller o del giallo, che sono spesso americani. Mi vengono ora in mente Penny Vincenzi, Sophie Kinsella, Adriana Trigiani, tanto per fare tutti nomi di scrittrici, per una certa forma di cavalleria: ma non pensate che scrivano romanzi sperimentali, o molto letterari (ma, anche in Italia, va ancora la sperimentazione?).
E non parliamo dei giornali: il quotidiano che ha il più grande numero di lettori in Gran Bretagna è il Sun, poi il Daily Mirror, il Daily Star e il Daily Express, giornali sempre all'incirca di quel livello “popolare” che comprende attenzione quasi esclusiva alla realtà locale, scandalismo, un po' di sesso, e l'occasionale tirata vagamente xenofoba e razzista. Se passiamo ai giornali di tipo tradizionale, più simili a quelli italiani che a dei rotocalchi quotidiani, come il “Times”, il “Guardian”, l'”Independent”, non superiamo cifre di tiratura abbastanza simili a quelle dei maggiori giornali italiani. Però quest'insistenza sui giornali, intesi proprio come quotidiani, significa pur qualcosa: innanzitutto, lega profondamente la lettura al pendolarismo (commuting in Inghilterra), sicché il giornale del mattino è quello dell'andata, e quello della sera è quello del ritorno: qualcosa del genere in Italia non c'è stato mai, forse, anche perché gli orari lavorativi dipendono in Italia da innumerevoli fattori, regionali, sindacali, ecc., mentre in Inghilterra, almeno in linea di principio e direi anche letterariamente e retoricamente l'orario è nine-to-five. Infatti, se dovessi parlare di qualcosa che turba gli inglesi, quanto turba gli italiani (ehm, certi italiani) la scomparsa del posto fisso, direi senz'altro, la fine del nine-to-five, oggi appannaggio solo di qualche impiegato amministrativo o tecnico di laboratorio, ma in via di dissoluzione. Lasciando perdere questa materia para-sindacale, mi sento di poter dire che i giornali della sera hanno sempre penato in Italia (vedi Paese Sera, Corriere d'Informazione, La Notte, ecc.), perché la gente torna troppo tardi a casa (e non necessariamente in treno) dal lavoro, e con poca voglia suppongo di leggere.

A cura di Carlo Santulli



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