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Coscienza felice e coscienza infelice nel pensiero di Herbert Marcuse
di Rodolfo Monacelli
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Coscienza felice e coscienza infelice nel pensiero di Herbert Marcuse

Herbert Marcuse è un autore che a un giovane di oggi probabilmente non dirà nulla. Egli è stato però uno dei principali ispiratori e protagonisti della cosiddetta rivoluzione del ’68 anche se in molti casi il suo pensiero sarà frainteso e stravolto. Lo stesso Marcuse, infatti, durante un’intervista del 28 novembre 1972 affermerà: ‹‹Hanno preteso che fossi il padre dello spontaneismo. Sono stato accusato di vedere nel sottoproletariato e negli studenti le forze rivoluzionarie. Non è vero. Oggi più che mai sono convinto della necessità di un’avanguardia capace di sviluppare coscienza nelle masse. Il soggettivismo rivoluzionario è indispensabile… non credo che le masse siano
rivoluzionarie di per sé, per la rivoluzione è necessaria una teoria, un progetto alternativo, e questi
non sono dati automatici della classe››.

Proprio perché oramai fuori da quella temperie culturale e politica ci pare importante riprendere a studiarne e analizzarne il suo pensiero, la cui analisi non può però essere ovviamente approfondita in un solo articolo. Affronteremo dunque un elemento del pensiero marcusiano a nostro parere non adeguatamente esaminato e sviluppato: la sua posizione nei confronti della cultura all’interno della società capitalistica. Prima di fare questo è
essenziale dare una sintetica storia della figura di Marcuse e del suo ruolo all’interno della cultura marxista.
La prima fase del pensiero di Herbert Marcuse, nato a Berlino il 18 luglio 1898, è stato il frutto dell’incontro con due ancor oggi fondamentali pensatori: Heidegger da una parte, Marx dall’altra.

Per Marcuse Heidegger, in particolare con “Essere e Tempo”, aveva mostrato la radicale storicità dell’essere umano e il problema della sua ‘autenticità’. Un progetto però fallito perché Heidegger, a causa delle sue contraddizioni ideologiche, non era riuscito a rendere quest’autenticità universale; non aveva cioè riconosciuto nel proletariato l’agente principale di questo processo storico.


Marx, Hegel e Freud

Per rimediare a questa mancanza Marcuse si rifà dunque al marxismo, che doveva però abbandonare la tesi della
priorità della ‘struttura’ e dell’applicazione della dialettica anche alla natura e non soltanto alla storia
(posizioni, queste, molto vicine a quelle di Lukacs). Un marxismo, dunque, assai lontano dalle visioni
deterministe, positiviste e messianiche proprie di quell’epoca. Proprio da queste posizioni si baserà la
successiva critica di Marcuse, con “Il Marxismo sovietico”, nei confronti dell’interpretazione data al marxismo da parte del Comunismo storico novecentesco, diventato un’ideologia positiva, e dunque uno strumento di potere repressivo e totalitario rendendolo nient’altro che una sociologia priva di una reale forza rivoluzionaria. Niente a che vedere perciò con l’esigenza di emancipazione e di appropriazione della verità storica materiale alla base del pensiero di Marx senza il quale nessuna proposta di critica nei confronti del capitalismo, e dello stesso comunismo storico novecentesco, sarebbe possibile.
L’intera opera marcusiana può essere interpretata come una ricostruzione della teoria di Marx di fronte ai cambiamenti epocali della società contemporanea. Marcuse stesso affermerà infatti che essendo le categorie marxiane delle categorie storiche, sono necessariamente soggette al cambiamento e alla trasformazione. Lontano dunque, lo ripetiamo, da una visione del marxismo dogmatica e perciò, de facto, antidialettica.
Non bisogna però in nessun modo cadere nell’errore di credere che, con tali affermazioni, Marcuse volesse negare o superare il marxismo. Per il filosofo tedesco borghesia e proletariato sono infatti in quell’epoca storica ancora le classi più rilevanti la cui struttura e funzione sono state però alterate e non sono perciò più ‹‹agenti di trasformazione storica››. In larghissimo anticipo per i suoi tempi egli già comprende come il proletariato non è più una classe rivoluzionaria, essendo stato integrato nella società capitalistica dall’ideologia dominante. Questa integrazione culturale, sociale e politica della classe lavoratrice all’interno delle strutture capitalistiche trasforma perciò quelli che una volta erano elementi di opposizione al sistema dominante in fattori di stabilizzazione ideologica che perpetuano il dominio dei dominanti.

Di particolare importanza, per una riformulazione del marxismo da parte di Marcuse, in particolare del Marx ‘umanistico’ dei Manoscritti economico-filosofici del ’44, sarà lo studio delle analisi di Lukacs sulla merce e sulla reificazione contenute in Storia e coscienza di classe, arrivando alla conclusione che nel capitalismo avanzato la merce e il consumismo hanno oramai trasformato la stessa personalità dell’uomo, i suoi valori, i suoi bisogni legandolo irreversibilmente a quell’ordine sociale che produce quei ‘falsi’ bisogni. Una vera e autentica rivoluzione non si può perciò risolvere in una mera rivendicazione di stampo sindacale o economicista ma deve’essere essenzialmente morale ed etica: liberarsi cioè di quei falsi bisogni rifiutando così un intero sistema di valori con
l’affermazione di bisogni altri che si oppongono a quelli stabiliti dallo status quo.

Il pensatore fondamentale per capire realmente Marcuse, e la sua visione eterodossa del marxismo, è senza dubbio Hegel al quale dedicherà infatti due testi: L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità” e Ragione e Rivoluzione. Gran parte delle categorie filosofiche utilizzate da Marcuse in tutti i suoi scritti – la ‘coscienza infelice’, il concetto di ragione e di essenza, il rapporto soggetto-oggetto, la distinzione tra ‘essenza’ ed ‘esistenza’ – derivano infatti dal pensiero hegeliano, grazie al quale Marcuse arriverà a Marx. Marcuse si contrapporrà dunque radicalmente alla visione dell’Hegel reazionario, che ancora oggi ci tocca di ascoltare e di leggere, ma dalla sua filosofia elaborerà un’originale filosofia ‘negativa’ nel cui nucleo essenziale, accanto alla concezione dell'essere e dell'accadere come movimento, vi sono una nuova considerazione della relazione tra pensiero ed essere e una radicale visione dell'importanza della dialettica, della negazione e del pensiero negativo che costituirà nel pensiero di Marcuse la radice della possibilità stessa della trasformazione e del cambiamento.

L’altro fondamentale incontro di Marcuse sarà quello con Sigmund Freud. La prima lettura di Freud da parte di Marcuse risale agli anni ’20 quando era in corso un dibattito sulla possibilità di riuscire a coniugare il pensiero freudiano con quello di Marx. Gli esponenti più indicativi di questa tendenza furono quelli di W. Reich che per la sua eresia venne espulso sia dal partito comunista che dal movimento psicanalitico, e di Erich Fromm che in un saggio del 1932, Metodo e compito di una psicologia sociale analitica, cercò di mostrare come cambiando la struttura economico-sociale di una società cambiava anche la funzione sociale della sua struttura libidica. In questo contesto culturale s’inserisce dunque la scoperta di Freud da parte di Marcuse. Il testo più significativo da questo punto di vista fu certamente Eros e civiltà in cui Marcuse, analizzando i meccanismi repressivi di tipo sociale, approfondisce al tempo stesso quelli di tipo psicologico. Marcuse pensa che per una società repressiva divisa in classi come quella capitalistica per far sì che possa sopravvivere è necessario un surplus di lavoro ‘non necessario’ che viene ottenuto tramite una repressione non solo sociale ma anche di tipo psicologico. Questa visione non sarà però un’acritica adesione alla visione del mondo da parte di Freud il quale, vedendo come inevitabile la rinuncia a
gran parte degli istinti e delle sue pulsioni da parte dell’uomo, accettava la società esistente e le sue strutture senza in alcun modo relativizzarla e storicizzarla e senza analizzarne i suoi meccanismi autoritari e repressivi. Secondo Freud, infatti, i principi fondamentali del comportamento sono ‘il principio di piacere’ e ‘il principio di realtà’. Il primo corrisponderebbe a un comportamento privo di repressione mentre il secondo, a cui si aggiungerebbe un principio di ‘prestazione’, a una necessaria repressione in quanto una giusta ricerca del piacere non può avvenire in maniera automatica ma deve’essere mediata. Per Marcuse invece questa repressione, che definirà ‘addizionale’, nella società del capitalismo avanzato è oramai inutile e ingiustificata poiché i nuovi mezzi tecnologici dovrebbero diminuire la fatica derivante dal lavoro e favorire il soddisfacimento pieno dei bisogni fondamentali dell’uomo e sarebbe dunque solo uno strumento del potere repressivo che cerca di perpetuare se stesso. Inevitabile sarà dunque, secondo Marcuse, la liberazione da essa che permetterebbe di progettare una futura civiltà in cui l’Eros, gli istinti, la creatività artistica, la fantasia e la libido investirebbero, compenetrandoli, i rapporti interpersonali, le strutture sociali e il lavoro.

Marcuse ed il realismo socialista

Al di là dell’utopia di tale progetto, presente soprattutto in Eros e civiltà, importante è sottolineare la fusione che Marcuse fa dell’eros con l’arte. L’arte, così come l’eros, per Marcuse è ‘autentica’ solo se connessa con la libertà. Una visione, come si vede, totalmente estranea e antagonistica al cosiddetto ‘realismo socialista’ poiché un’arte obbediente a un regime non ha nulla a che vedere con un’autentica espressione artistica. Marcuse infatti, pur riconoscendo che il realismo ha avuto in passato una funzione ’critica e progressiva’ come svelamento di una realtà che si vuole nascondere, accusa invece quello sovietico di aver accettato la realtà costituita come qualcosa di definitivo e immutabile. Da ciò deriva che l’arte dell’Urss viene vista in modo riduttivo, esclusivamente come
una derivazione diretta del presente e senza rotture in cui possano emergere le contraddizioni del sistema politico dominante. L’’ideologia’ – intesa in senso marxiano – sovietica riteneva infatti ‹‹già realizzata la libertà›› e, conseguentemente, riteneva che all’arte non spettasse più il suo tradizionale compito di rappresentare il futuro, la liberazione, il conflitto tra reale e razionale, essenza ed esistenza umana. Marx,è assolutamente vero, riteneva che l’antagonismo tra essenza ed esistenza non fosse qualcosa di immutabile, ma un ‹‹fatto storico›› che si sarebbe esaurito una volta raggiunta la loro conciliazione tramite ‹‹il libero sviluppo di tutte le facoltà umane›› tramite la trasformazione dei rapporti di lavoro e di produzione e il mutamento delle condizioni sociali e materiali. Marcuse riteneva però che tale liberazione non si fosse ancora realizzata nello stato sovietico e dunque l’arte non aveva ancora esaurito il suo compito. La critica di Marcuse coinvolgerà dunque,contemporaneamente, e in maniera radicale, il regime sovietico così come le società capitalistiche.

La società come un’opera d’arte

Dopo questa necessaria, ma per forza di cose incompleta, descrizione in generale del pensiero di Marcuse, cercheremo ora di trattarne un aspetto specifico che abbiamo comunque già accennato: la sua posizione nei confronti della cultura, e dell’arte in particolare, all’interno delle società capitalistiche. Quest’aspetto verrà trattato da Marcuse in tutte le sue opere, che in quest’articolo è purtroppo impossibile trattare. Cercheremo di esporre le sue tesi prendendo dunque in analisi le principali partendo da “Eros e civiltà”, la più nota e al tempo stesso la più utopica delle opere marcusiane. In questo testo Marcuse definisce l’arte come il momento probabilmente più importante in cui emergono le istanze di liberazione da parte dell’uomo, opponendo alla repressione istituzionalizzata l’immagine dell’uomo come soggetto libero. Per Marcuse però, a differenza di quanto sosteneva Lukàcs per il quale la vera arte era solo quella ‘realistica’, il dominio estetico è sostanzialmente ‹‹non realistico›› ritenendo che, nell’epoca presente, l’unica forma artistica che ancora potesse comunicare elementi sovversivi e rivoluzionari fosse quella che esprimeva la ‹‹negazione della forma››, cioè l’arte ‘surrealista’. Essa infatti, attribuendo all’immaginazione una comprensione più ampia e profonda della realtà, nega la società presente espressa dalla forma e la sua verità è dunque radicalmente alternativa allo status quo, ma è invece proiettata verso la costruzione di una società alternativa (una posizione totalmente opposta all’assunto hegeliano secondo cui ‹‹il reale è razionale››). Questa separazione dalla realtà da parte dell’arte ha però come conseguenza il fatto di essere condannata ‹‹davanti al tribunale della ragione teorica e pratica››. La proposta di Marcuse sarà però opposta a tale posizione, ed è questo l’elemento profondamente utopico presente nel testo, prospettando d’introdurre la libertà e la fantasia presenti nell’arte nella struttura della società da lui vagheggiata, in modo tale da modificarla realmente e radicalmente. In questo modo Marcuse considera l’arte non solo e non più ‘negativamente’, nella sua opposizione cioè al principio di ‘prestazione’, e perciò alla società che da questi principi scaturisce, ma ‘positivamente’, come progetto di trasformazione della civiltà capitalistica in cui eros e bellezza, lavoro e gioco, libertà e realtà, libertà dal lavoro e abbondanza potrebbero convivere. Una futura società purtroppo utopica poiché è molto difficile immaginare come le dinamiche della creazione artistica possano trasferirsi deterministicamente nella realtà sociale e,inoltre, è ancora più complicato capire come ‹‹l’abbondanza di beni››, fondamentale per la società non repressiva ipotizzata da Marcuse, possa realizzarsi realisticamente in una società in cui ‹‹tutti i bisogni fondamentali possano soddisfarsi con un dispendio minimo di energia fisica e
psichica e in un tempo minimo››.

La fine della ‘coscienza infelice’?

Quest’utopia verrà modificata con la pubblicazione dell’altro testo fondamentale del pensiero di Marcuse, L’uomo a una dimensione. Uscito nel 1964 quando Marcuse si trovava negli Stati uniti già da trent’anni, avendo dovuto abbandonare la Germania a causa delle persecuzioni razziali del regime nazista, il libro cerca di mostrare il carattere fondamentalmente ‘irrazionale’ della società industriale, la quale tende ‹‹a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza individuale, nazionale o
internazionale››, e il fatto che la maggior parte della popolazione accetti tale società, non la rende meno irrazionale. A differenza delle antiche società totalitarie e repressive questa nuova forma di repressione, oggi come allora, si realizza infatti non solo attraverso una violenza visibile a tutti, ma soprattutto attraverso l’’integrazione’ e il ‘contenimento’ di tutti gli elementi tradizionalmente critici e di opposizione alla visione del mondo capitalistica. L’uomo a una dimensione è dunque l’uomo integrato in questo tipo di società caratterizzata da quella che Marcuse chiama una ‹‹tolleranza repressiva›› che elimina il pensiero critico e fa prevalere sempre di più il conformismo, l’indifferenza, l’accettazione di bisogni imposti. È dunque in quest’appiattimento generale,
generalizzato e imposto, che l’uomo non riesce più a comprendere il contrasto esistente tra come egli è e come invece potrebbe essere, tra i suoi bisogni soddisfatti e quelli che potrebbe soddisfare in un tipo di società diversa. È dunque, per Marcuse, ‹‹un’unificazione illusoria, che non elimina né la contraddizione tra la produttività crescente e il suo uso repressivo, né il bisogno vitale di risolvere la contraddizione››. Contrariamente a quanti hanno scritto e affermato che L’uomo a una dimensione sia il testo di Marcuse più pessimista della sua produzione, anche in esso egli riconosce che anche in questo tipo di società continuano comunque ad esistere sia i conflitti sociali che la spinta verso il cambiamento e la trasformazione sociale. Anche nell’Uomo a una dimensione Marcuse affronta il problema della cultura e dell’arte che, da forze di opposizione e prefigurazione di una realtà altra, finiscono per diventare uno strumento del potere. Una delle principali novità della nostra epoca è infatti, secondo Marcuse, ‹‹l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei d’opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell’alta cultura, in virtù dei quali essa costituiva un’altra
dimensione della realtà. Codesta liquidazione della cultura “a due dimensioni” non ha luogo mediante la negazione ed il rigetto dei valori culturali, bensì mediante il loro inserimento in massa nell’ordine stabilito, mediante la loro riproduzione ed esposizione su scala massiccia››. Così come in Unione Sovietica anche in Occidente, questa è la tesi di Marcuse, vi è l’impossibilità della sopravvivenza di movimenti realmente alternativi e di una cultura d’opposizione. Un risultato che si è ottenuto non solo tramite la repressione, ma soprattutto attraverso una trasformazione ‘interna’ degli individui e delle masse, sui loro gusti, sulle loro aspirazioni, sui loro desideri e sui loro modi di pensare trasformando, in questo modo, ’a una sola dimensione’ tutta la realtà umana.

In un quadro come quello delineato è ovvio che la forza liberatrice ed emancipatrice della cultura e dell’arte venga automaticamente annullata e neutralizzata (tema che viene trattato da Marcuse nel terzo capitolo, La conquista della coscienza infelice: la desublimazione repressiva), così come non era invece successo nelle epoche precedenti. Se è infatti vero che in passato la cultura e l’arte avevano un indubbio connotato di classe ed erano separate dalla maggioranza delle persone rendendole, di fatto, innocue, questo le aveva però protette e ne aveva conservato i tesori di umanità in essa rinchiuse, avendo mantenuto intatto il loro contenuto di speranza, di bellezza e di idealità contrapposte alla miseria che le circondava. È bene precisare subito che Marcuse con un discorso di questo tipo non intende soltanto ripetere l’abituale accusa ‘elitaria’ nei confronti della cultura di massa che avrebbe banalizzato e mercificato l’alta cultura, ma soprattutto denunciare il fatto che l’alta cultura è stata superata dalla realtà presente, in una società che non ha più come punti di riferimento ‹‹gli eroi della cultura›› ma valori totalmente diversi come il benessere, il progresso tecnico e scientifico, che hanno risolto problemi una volta irresolubili ma, al tempo stesso, hanno anche ‹‹tradito la speranza e distrutto la verità che venivano conservate nelle sublimazioni dell’alta cultura››. L’altra dimensione, che l’alta cultura una volta rappresentava, è stata insomma distrutta dalla società tecnologica e, in particolare, ne è stata distrutta la sua ‘trascendenza’.

Occorre un attimo fermarsi su questo termine utilizzato da Marcuse in una maniera molto diversa dall’accezione comune. Trascendenza, per Marcuse, non vuol dire infatti qualcosa che trascende la realtà fisica o umana, ma qualcosa che è ‘al di là della realtà costituita e della società contemporanea ed è perciò ad essa contrapposta, preannunciando un’altra realtà storica possibile, un mondo dove la liberazione si sia compiutamente realizzata. Nella società capitalista, invece, la cultura e l’arte non svolgono più la funzione di critica e di rifiuto dell’esistente ma, al contrario, divengono strumenti di coesione sociale e il fatto che esse contraddicano esteriormente la realtà sociale, culturale o politica che li commercia non conta più nulla: ‹‹Mescolando armoniosamente, e spesso in modo inavvertibile, arte, politica, religione e filosofia con annunci pubblicitari, le comunicazioni di massa riducono questi regni della cultura al loro denominatore comune – la forma di merce››. Le opere dell’alta cultura, insomma, nelle società tecnologiche e capitalistiche, diventano parte della cultura ‘materiale’ e, in questo modo, perdono il loro valore di verità perché quello che conta è ormai soltanto il loro valore di scambio, facendo sì che ‹‹tornando in vita come classici essi tornano in vita come altri da sé, privati della loro forza antagonistica, dell’estraniazione che era la dimensione stessa della loro verità. L’intento e la funzione di queste opere sono in tal modo mutate in misura fondamentale. Mentre un tempo esse contraddicevano lo status quo, la contraddizione è stata ora appianata››.

Altra categoria fondamentale di quest’analisi di Marcuse è il concetto di ‘alienazione’ che però assume un significato profondamente diverso ed antitetico rispetto a quello marxiano: l’alienazione artistica non è infatti quel processo che estranea un essere umano da ciò che fa fino al punto da estraniarsi da se stesso e dal proprio lavoro ma, al contrario, è un modo di rifiutare l’esistente, un’alienazione ‘libera e consapevole’ che esprimeva una totale estraneità rispetto all’ingiustizia della vita reale. Un’estraneità che verrà espressa da figure anticonformiste e ribelli come quelle dell’artista, dell’adultera, del criminale, dell’’idiota’, trasformate nella società tecnologica in figure come la stella del cinema, il gangster, il capo d’industria carismatico, la donna fatale, la casalinga nevrotica: personaggi sicuramente bizzarri e realistici ma che, al contrario dei primi, non sono più estraniati ed alienati dalla realtà in cui vivono ma ne sono parte integrante, affermando piuttosto che negando l’ordine costituito. È vero,come sottolinea lo stesso Marcuse, che l’arte e la cultura in passato erano state parti integranti della vita quotidiana di alcune società (come quella greca, egizia e romana), ma ciò non vuole dire che, anche in quei casi, non esprimessero alienazione che caratterizzava ‹‹tanto l’arte che afferma quanto l’arte che nega››. Secondo Marcuse, il tratto fondamentale dell’arte era sempre la ‹‹razionalità della negazione››, il ‹‹Grande Rifiuto›› nei confronti dell’esistente. Questo suo essere ‘contraddizione’ non può essere però più presente nella
società ad una dimensione e, per quanto assurdo possa sembrare, la stessa negazione rende i suoi omaggi a quella società che sembra negare. Uno dei tentativi da parte dell’arte di ottenere quest’effetto di ‘estraneazione’ e comunicare la sua ‘verità’ è stato quello di una ‘rottura’ del linguaggio, come quello di cui ha parlato ad esempio Bertold Brecht per il quale l’unica maniera con cui il teatro poteva rappresentare il mondo contemporaneo era quello di rappresentarlo come ciò che è soggetto a mutare, come ‹‹lo stato di negatività che dev’essere negato››, spezzando l’identificazione con gli eventi che avvengono sul palcoscenico. In maniera similare Paul Valery affermava che ‹‹il linguaggio poetico si schiera inevitabilmente dalla parte della negazione››: i versi infatti, secondo il poeta francese, possono parlare soltanto delle cose ‘assenti’ producendo, in questo modo, una forma di conoscenza che sovverte il ‘positivo’ facendo entrare nell’ordine stabilito un ordine diverso e nuovo.
Sono queste, secondo Marcuse, le poche vie d’uscita alla totale assimilazione di tutto ciò che è ‘trascendente’ – nel senso prima indicato - effettuata dalla società capitalistica anche se, precisa subito, la mobilitazione totale dei media rende ‹‹tecnicamente impossibile la comunicazione di contenuti trascendenti›› e l’impossibilità, nella società contemporanea, della comunicazione di ‹‹un linguaggio non reificato, di comunicare il negativo››. In altre parole, la dinamica eversiva dell’arte è ormai condannata ad essere assorbita da ciò che s’intende confutare. È questa, secondo Marcuse, la vittoria definitiva sulla ‘coscienza infelice’ da parte di una ‘falsa coscienza felice’ che crea un’illusoria ed inautentica soddisfazione dei desideri e dei bisogni imposti.
Come già accennato, la vittoria della società tecnologica non è però,
secondo Marcuse, definitiva e qualche spiraglio di ‘coscienza infelice’ all’interno della ‘coscienza felice’ e di possibilità di cambiamento ancora resiste da parte dei senza speranza, ‹‹dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili››, visti non come nuovo soggetto rivoluzionario ma come la prova di come sia ‹‹immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza››.

Fine della cultura borghese

Questa speranza sarà presente sempre più negli ultimi scritti di Marcuse che a prima vista sembrano
capovolgere il discorso affrontato nell’Uomo a una dimensione ma,come abbiamo appena visto, non
nella sostanza, in particolare nei due ultimi scritti di Marcuse: Controrivoluzione e rivolta e La
dimensione estetica.

Per quanto riguarda Controrivoluzione e rivolta di particolare interesse, per il tema affrontato in quest’articolo, sarà in particolare il capitolo intitolato Arte e rivoluzione, scritto a pochi anni di distanza dall’Uomo a una dimensione. Questo capitolo tratterà in maniera specifica quella che egli definisce una ‹‹rivoluzione culturale›› intendendo, con tale termine, tutti quei fenomeni artistici e culturali che intendevano contestare e rompere definitivamente tutti i ponti con l’arte e la cultura borghese. Una rottura che però, ed è questo l’elemento più interessante e in anticipo sui tempi del pensiero di Marcuse, egli contesterà decisamente. La distanza dalla realtà, la ‘forma’, come abbiamo visto, è secondo Marcuse il segno distintivo dell’arte in tutte le epoche e la sua vera ed
autentica antitesi nei confronti della società esistente che queste nuove arti antiborghesi rischiano invece di distruggere. Con una lucidità straordinaria del resto Marcuse intuisce come la cultura borghese ed i suoi valori siano stati già da tempo distrutti. Non dal comunismo o dal movimento del ’68 ma proprio dal neocapitalismo che, per meglio realizzare i suoi obiettivi, si era servito dei modelli ‘libertari’ o, meglio, falsamente libertari. Questo per Marcuse non voleva ovviamente significare difendere la classe borghese ed il periodo storico in cui era egemone. Al contrario. L’alta cultura e i suoi valori infatti, come Marcuse ribadisce in tutte le sue opere, sono sempre stati alternativi ai valori repressivi delle classi dominanti come dimostrano gli esempi di Brecht, Ibsen,
Picasso, Zola, Tolstoj che, pur rimanendo fedeli alla ‘forma’ – anzi forse proprio per questo -, sono sempre stati alternativi alla società del proprio tempo. La disgregazione della cultura borghese voluta e perpetrata dal capitalismo, quando la classe borghese era già in dissoluzione, ha invece distrutto proprio il significato contraddittorio di quest’arte rispetto alla società repressiva, senza che le nuove arti siano riuscite ad avere la stessa funzione di opposizione ma, al contrario, sono state meglio assorbite dalla società dei consumi.
Per questo tutte le alternative nei confronti dell’arte e della forma estetica non sono per Marcuse convincenti proprio per la loro estrema vicinanza alla realtà stabilita, cioè allo status quo. La forma estetica, Marcuse ribadisce sempre questo concetto, è per sua natura sempre ‘dialettica’: ha cioè in sé i caratteri di un’altra realtà alternativa all’esistente e nessun’arte che risponda alle esigenze della forma, anche se apparentemente affermativa dell’esistente, può essere in armonia con il potere e l’ordine stabilito. Al contrario ‹‹laddove manca la dialettica tra affermazione e negazione, tra piacere e dolore, tra cultura intellettuale e cultura materiale, dove l’opera non regge più l’unità tra ciò che è e ciò che può essere, perde la sua verità, nega se stessa. Ma proprio nella forma estetica sono presenti questa dialettica e i caratteri critici, negatori e trascendenti dell’arte borghese – i suoi caratteri antiborghesi. Uno dei compiti della rivoluzione culturale deve essere quello di recuperarli, di trasformarli, di impedire che vengano eliminati››.

Marcuse e l’alienazione artistica

In questo fondamentale testo Marcuse specifica inoltre meglio cosa intende per ‘alienazione artistica’ che, come abbiamo già visto, è un’alienazione perfettamente ‘consapevole’. Marcuse spiega come egli la intenda come una fuga dalla repressione, una ‹‹alienazione dalla società alienata››, una ‹‹negazione della negazione›› da cui scaturisce il ‘positivo’, un mondo ‘altro’ rispetto a quello esistente ritrovando il mondo e la realtà come veramente essi sono. Una funzione critica rispetto all’ordine esistente, una ‘funzione’, ed è qui la novità profonda di Marcuse rispetto alle tesi hegeliane e marxiste ma anche rispetto al suo stesso pensiero precedente, che l’arte non perderebbe neanche in una società liberatasi dal capitalismo e dall’oppressione:

‹‹Se e quando l’arte compisse la trasformazione delle masse in individui “liberamente associati”, l’arte perderebbe il suo carattere elitario ma non il suo estraniamento dalla società. Infatti, la tensione tra affermazione e negazione impedisce qualsiasi identificazione dell’arte con la prassi rivoluzionaria. L’arte non può rappresentare la rivoluzione, può soltanto evocarla››.

È qui bene precisare correttamente le parole di Marcuse. Marcuse non vuole in nessun modo evocare una presunta apoliticità dell’arte ma una sua autonomia che è cosa ben diversa. In questo Marcuse è molto vicino al pensiero di Lukàcs per il quale, come abbiamo visto nel precedente numero di Comunismo e Comunità, il poeta, l’intellettuale, l’artista, non potrà mai essere un ‘comandante’ o un ‘soldato semplice’ ma sempre un ‘partigiano’ perché, solo in questo modo, potrà operare, al tempo stesso, per il partito e individualmente, senza venire imbrigliato da gerarchie e discipline organizzative. Marcuse, così come Lukàcs, è infatti preoccupato di uno scadimento dell’arte a mera propaganda – com’era successo nel cosiddetto ‘realismo socialista’ o anche nell’anarchismo della Pop Art – che invece diventa autenticamente rivoluzionaria proprio quando più è se stessa. L’arte è quindi più rivoluzionaria nelle sue forme tradizionali, nella ‹‹vera alienazione››, rispetto alle forme apparentemente, solo apparentemente come abbiamo cercato di illustrare in precedenza, ribelli.
Oltre all’opposizione di Marcuse nei confronti di queste arti solo esteriormente contestatrici egli polemizzerà duramente anche nei confronti dell’estetica marxista, ma assolutamente non marxiana, nei confronti cioè di quella visione ortodossa del marxismo che vedeva l’arte esclusivamente come ‘rispecchiamento’ e ‘sovrastruttura’, in particolare nell’ultimo testo di Marcuse, La Dimensione estetica, che può essere considerato il suo testamento spirituale e politico.
Qui Marcuse critica fortemente quelle teorie critiche che, trasformando una teoria dialettica come quella marxiana in una teoria dogmatica anche nel campo estetico, hanno dato scarso rilievo alla soggettività, all’individualità,
all’emotività, all’inconscio riducendoli in schemi rigidi e deterministici in cui, appunto, non c’è più nessuno spazio per il soggetto. La soggettività, per Marcuse, contrariamente alle teorie marxiste ortodosse, non è assolutamente un valore esclusivamente borghese ma anzi, attraverso l’arte, l’individuo ‹‹esce dal contesto dei rapporti e dei valori di scambio e si sottrae alla realtà della società borghese per fare il suo ingresso in un’altra dimensione dell’esistenza››.

Marcuse ribadisce dunque il valore politico dell’arte, nel senso già indicato, e ribadisce che anche in una futura comunità liberata essa continuerà ad esercitare la propria funzione critica perché ‹‹la sfasatura, o non identità, fra soggetto e oggetto, fra individuo e individuo›› si conserverà in ogni tipo di società. 

E’ solo a favore dei disperati che ci è data la speranza!

Siamo arrivati alla conclusione di questo articolo. Ci rimane dunque da scrivere cosa possa e debba oggi essere utilizzato del pensiero di Marcuse e se il discorso sull’estetica o sull’arte sia fuori tempo massimo o, ancora peggio, utopico ed inutile. Facciamo ancora una volta, a questo proposito, riferimento alle parole di Marcuse che nella Dimensione estetica risponde proprio a queste critiche.
Marcuse infatti sa bene che ‹‹l’arte non può cambiare il mondo›› ma solo ‹‹contribuire a mutare la coscienza di coloro, uomini e donne, che potrebbero cambiarlo››, esprimendo una verità di protesta e di proposta alternativa strettamente collegate a una pratica rivoluzionaria di cui la politica dev’essere la sua attuazione.
Il problema che oggi ci dobbiamo porre è perciò un altro. Marcuse nei testi che abbiamo analizzato sottolinea più volte la ‘funzione’ dell’artista e dell’uomo di cultura in una prospettiva rivoluzionaria di cambiamento di società. Oggi, decaduta temporaneamente questa prospettiva, questa ‘funzione’ si è trasformata esclusivamente in un ‘ruolo sociale’, assorbito e funzionale alla logica capitalista che richiede la subordinazione settoriale e burocratica a un ingranaggio sociale (e, anche in questo caso, si dimostra la lucidità delle tesi espresse da Marcuse con quarant’anni di anticipo).
I prodotti dell’alta cultura, insomma, come preannunciato da Marcuse, sono diventati prodotti commerciali da vendere come una merendina della Kinder e associabili a una puntata del Grande Fratello. Scompare dunque la portata eversiva dell’arte, l’’alienazione consapevole’ dell’artista e dell’intellettuale che divengono, quando va bene, dei personaggi televisivi perdendo completamente nelle loro opere l’annunciazione di una società ‘altra’ rispetto a quella esistente. Un problema, come abbiamo cercato di spiegare, non insignificante né tantomeno accessorio, ma fondamentale per risvegliare quelle coscienze ormai assopite da troppo tempo. Una posizione
interessante a questo proposito rispetto a questo panorama desolante e deprimente è quella del critico palestinese Edward Said il quale, partendo dalla constatazione che oggi l’intellettuale e l’artista (da non confondere con chi si è invece volentieri integrato nel circo mediatico, a partire dal ceto ideologico universitario)rischiano di diventare semplicemente delle ‹‹nuove figure professionali››, arriva a conclusioni per nulla rinunciatarie. L’artista e l’intellettuale, secondo Said, inseriti nei nuovi complessi produttivi capitalistici in una posizione subordinata, si configurano (oggi ancor più di ieri)come degli outsiders, degli emarginati, degli esiliati e, proprio per questo, possono essere animati da uno spirito di opposizione e di contrapposizione al sistema vigente e non più al compromesso, cercando di trovare la propria ragione d’essere ‹‹nel fatto di rappresentare
tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate››. La marginalità dell’intellettuale e dell’artista può insomma diventare, secondo Said, rappresentativa di tutte le altre marginalità presenti nel mondo ricollegandosi dunque alla citazione di Walter Benjamin che termina L’uomo a una dimensione: ‹‹Nur um der Hoffnungslosen willen ist uns die Hoffnung gegeben›› (E’ solo a favore dei disperati che ci è data la speranza).

Citazioni e riferimenti:
Herbert Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità
Herbert Marcuse, Ragione e Rivoluzione
Herbert Marcuse, Eros e civiltà
Herbert Marcuse, Marxismo sovietico
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione
Herbert Marcuse, Controrivoluzione e rivolta
Herbert Marcuse, La dimensione estetica
Ermanno Arrigoni, Herbert Marcuse. Eros e civiltà
Ermanno Arrigoni, L’uomo a una dimensione di Marcuse e l’alienazione dell’individuo nella società contemporanea secondo gli autori della Scuola di Francoforte
Leonardo Casini, Arte, sensualità e liberazione nel pensiero di Herbert Marcuse
Edward Wadie Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere

Articolo già apparso su https://www.comunismoecomunita.org/?p=840

A cura di Rodolfo Monacelli



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