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Il caso di Italo Svevo ovvero l'artista può anche essere un bottegaio?
di Maurizio Canauz
Pubblicato su SITO


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Il caso di Italo Svevo ovvero l'artista può anche essere un bottegaio?

"In un molino c’era,
oltre all’asino che menava la ruota,
un pappagallo che sapeva dire poveretto
e il nome del padrone e tante altre cose.
S’ammalarono ambedue e venne il medico.

È per me!, disse il pappagallo.
Si curano di me perché ho delle piume belle.

-Ma no!, rispose l’asino.
Il medico è stato chiamato per me,
perché son io che meno la ruota.
-Ma io so dire poveretto

-Ma io meno la ruota.
-Ma io saluto il padrone quando passa
-Ma io meno la ruota.

Il medico curò l’asino
e lasciò crepare il pappagallo.

È fatto così il mondo ed è da meravigliarsi
che il grigio della pelle dell’asino non ricopra tutta la terra
e non scompaiano del tutto le vaghe piume colorate".
Italo Svevo




1) ANTEFATTO

Una automobile sfidando il maltempo viaggia veloce sulla strada bagnata.
Un uomo sulle soglie dell’anzianità, una donna che l’accompagna da molto tempo e un bambino di sette anni, sprofondati nei loro sedili, rincorrono pensieri che si spandono nell’aria umida
Il padrone si è raccomandato bonariamente con il suo autista: «La vada pian. Lei non la sa chi la porta», ma l’autista si sente sicuro e schiaccia sull’acceleratore.
La berlina OM che guida sembra agevolmente domata dalla sue mani forti che tengono sicure il volante.
Nell’abitacolo si respira un’aria da ricca borghesia.
Si racconta che l’anziano uomo la sera precedente avesse detto: «Dopo tutto posso morire perché sono stato assai felice! ».
Si sa che queste sono spesso solo parole dette alla leggera di chi si sente ancora lontano dall’epilogo, ma tant’è un ombra, forse solo vaga e fugace, aveva attraversato il suo orizzonte esistenziale.
Di fatto le sue condizioni di salute sono piuttosto pregiudicate.
Un cuore fragile, una preoccupante forma di ipertensione da arteriosclerosi e un enfisema polmonare da fumo rendono l’insieme piuttosto compromesso.
Ma si sa che il destino insegue spesso rotte inimmaginabili.
Così mentre l’automobile avanza apparentemente sicura per una qualche ragione si imbizzarrisce sbandando verso destra.
Rapido l’autista cerca di rimetterla al centro della carreggiata sterzando verso sinistra. Le ruote posteriori però tradiscono la manovra non facendo presa sulla strada viscida. L’ automobile inizia così a zigzagare fino a schiantarsi violentemente contro un albero (1).
I giornali così riportano l’accaduto il giorno dopo.
«Quest’oggi verso le ore 15, lungo la strada Adriatica Superiore … e precisamente in località Tre Ponti proveniente da Trento filava verso Trieste un’auto nella quale oltre lo chauffeur, avevano preso posto i signori Ettore Schmitz, fu Francesco, di anni 67, la sua signora Veneziani Livia di anni 64 e un nipotino di sette anni Fonda Savio Paolo, di Antonio, tutti residenti a Trieste» (2).
Dell’incidente si è detto veniamo quindi alle condizioni dei feriti.
«Tutti i viaggiatori dall’urto fortissimo rimasero più o meno gravemente feriti e doloranti. Sopraggiunta subito un’altra macchina pure da Trieste, i feriti vennero in parte trasportati all’ospedale con questa, mentre il resto dei feriti veniva trasportato all’ospedale con una macchina del garage Piai.»(3)
Una volta ricoverati le prognosi seguirono decorsi diversi.
Fauste per la signora Veneziani, per il nipotino e per l’autista.
Infausta e drammatica per il signor Schmitz che, dopo aver cercato un’ultima sigaretta e aver rifiutato l’estrema unzione, spirò il giorno 13 settembre alle ore 14, 30 circa (4).

2) LE REAZIONI

Il 14 settembre il Piccolo di Trieste dava la notizia della scomparsa di Ettore Schmitz meglio conosciuto nel mondo letterario come Italo Svevo.
Sui giornali e nelle riviste si susseguirono commenti e ricordi della figura dello scrittore.
Scrissero di lui tra gli altri Silvio Benco:
«Egli onorò la sua terra natale. La onorò, ignorato con l’opera, dove aveva messo tutto il suo senso della vita con lo schietto vigore e la imperturbata sincerità degli ingegni autonomi. La onorò, nei giorni tardi della gloria, con la luce che ne venne a Trieste» (5),
e successivamente Giani Stuparich:
«Eravamo nel settembre del 1928, ritornavo in treno da Firenze aprendo il giornale fui come soffocato dalla prima notizia su cui mi caddero gli occhi: Italo Svevo dopo un incidente automobilistico a Motta di Livenza. Fra Svevo e me non s’era ancora, né forse si sarebbe mai stabilita una relazione così intima d’amicizia come quella che avevo con Giotti e Bolaffio,; ma sentivo che nessuno quanto lui sapeva portare fra di noi quella signorile cordialità che attenua i contrasti tra i diversi temperamenti. La scomparsa di Svevo significava per il nostro gruppo di amici lo spegnersi del fuoco a cui ci si scaldava in comune» (6).

Come spesso avviene il coro di voci fu pressoché unanime nell’esaltare lo scrittore appena scomparso e le qualità dell’uomo.
Tuttavia in questo panorama uniforme non mancò una voce dissonante.
Era la voce di Bobi Bazlen il quale due giorni dopo la comparsa dello scritto di Montale in memoria di Svevo, scrive al poeta ligure:
«Sono stato molto addolorato dalla morte di Schmitz . E sento molto – la sentono tutti – la sua mancanza. Scorto in libreria il tuo articolo su S. sulla Fiera Letteraria […] ho paura che il tuo articolo si presti troppo ad essere interpretato male, ed a far sorgere la leggenda d’uno Svevo borghese, colto, intelligente, comprensivo, buon critico, psicologo, chiaroveggente nella vita ecc. Non aveva che genio, ed è questo che mi rende più affascinante il suo ricordo. Se puoi, e se avrai ancora occasione di scrivere di Schmitz , metti a posto il più possibile la leggenda della “nobile esistenza” (dedicata unicamente – ad eccezione dei tre romanzi – a far soldi) è troppo penosa e troppo ignobile. Gli ho voluto bene – malgrado tutto – molto bene, come non ne ho voluto che a poche persone.» (7)

Montale fu però restio ad accettare le parole di Bazlen privilegiando sempre l’aspetto letterario di Schmitz, tanto da riaffermare su Solaria, nella primavera del 1929, la verità dell’artista contro la leggenda del commerciante autore, quasi per caso, di tre romanzi.
Personalmente credo si debbano chiarire sia le parole di Bazlen, sia quelle di Montale, ricordando tuttavia che il primo lo conobbe e lo frequentò a lungo e in epoca non sospetta, mentre il secondo lo avvicinò solo attraverso la letteratura (8).
Non ritengo infatti, che sia pur in modo diametralmente opposto, volessero sostenere l’idea di Svevo come l’uomo ad una sola dimensione, fosse quella del letterato o quella del commerciante.
Fin troppo evidente è, difatti, l’idea che l’uomo possa ricordare più un prisma dalle molteplici facce che una figura piana.
Senza scomodare altri campi del sapere penso che autori come Herman Hesse (mi riferisco sopratutto al Lupo nella Steppa) o Pessoa abbiano ben mostrato come l’uomo possieda diverse nature.
Proprio Pessoa può essere considerato uno dei massimi cantori dell’inquietudine dell’uomo di inizio novecento, inquietudine legata soprattutto alla perdita della propria univoca identità sia a livello individuale sia a livello sociale.
Un uomo può essere ed è, di fatto, molti uomini (o molti parti di uomo) che tendono ad un’unione precaria e, a volte, fittizia.
Sicuramente in Schmitz coabitavano e in qualche modo si influenzavano, almeno due uomini: il commerciante-industriale e lo scrittore.
In questo senso si può ricordare la testimonianza di Silvio Benco.
«Italo Svevo amava dipingersi come uomo non nato alla vita pratica e in essa sacrificato e maldestro» mentre «in verità egli aveva anche nella vita pratica qualità molto forti e una coscienza viva, un interesse vivo per ciò che stava facendo».
Proprio per questo continua Benco nelle: «attività pratiche […] egli riuscì eminente ad ora ad ora come impiegato bancario, come industriale avveduto, come uomo d’affari orientato e sicuro, come lavoratore infaticabile» (9).

Partendo da queste considerazioni biografiche si potrebbe giungere a sostenere che, l’opera di Svevo sia risultata originale nel panorama letterario di inizio Novecento. anche grazie a questo accentuato aspetto multidimensionale, unito logicamente al talento naturale.
Tuttavia questa condizione di scrittore – impiegato spinge ad una ulteriore riflessione che affronterò nel prossimo paragrafo.

3) L'ARTISTA PUÒ (ANCHE) ESSERE UN BOTTEGAIO ?

Le considerazioni del paragrafo precedente portano necessariamente a riflettere sullo status dello scrittore, del poeta e dell’artista in genere.
Tutto ciò potrebbe essere riassunto in una semplice, scontata domanda: il commerciante/ impiegato può essere (anche) scrittore?
Scorrendo, sia pur sommariamente, le biografie di alcuni autori di inizio novecento la risposta sembrerebbe affermativa.
Scrittori quali Kafka e Pessoa avevano, accanto alla passione per lo scrivere, un lavoro che dava loro il necessario per vivere.
Così si descrive nel suo abbozzo di autobiografia Pessoa:
«La designazione più corretta sarebbe «traduttore», la più esatta «corrispondente straniero in imprese commerciali». Essere poeta e scrittore non costituisce professione, ma vocazione» (10).
In alcuni casi si trattò di veri e propri impiegati modello, per altri il rapporto con il lavoro d’ufficio fu più tribolato ma occupò, sempre e comunque, una parte cospicua del loro tempo.
A volte l’impiego servì anche per bilanciare il modesto riconoscimento economico che derivava dalla loro opera di scrittori.
Scrive Hannah Arendt:
«Quando Franz Kafka, un ebreo praghese di lingua tedesca, morì di tisi all'età di quarantun anni nell'estate del 1924, la sua opera era conosciuta da una piccola cerchia di scrittori e da una ancora più ristretta di lettori.» (11).

Non si tratta, comunque, di esperienze isolate.
Casi simili si possono trovare, infatti, anche in Italia.
Corazzini, una volta interrotto il ginnasio a causa dei debiti del padre fatti per sostenere una vita dispendiosa, cercò un impiego e lo trovò presso una compagnia di assicurazioni.
Jahier interruppe, invece, gli studi per la morte del padre e s'impiegò nelle ferrovie. Dopo un periodo passato a Bologna venne inviato, come ispettore al movimento, sulla linea a binario unico Porrettana. Infine passò alla direzione compartimentale.
Quasimodo si impiegò nel 1926 al Ministero dei Lavori Pubblici, con assegnazione al Genio Civile di Reggio Calabria.
La sua carriera lavorativa non fu brillante ma rimase, comunque, dipendente del Ministero fino al 1938.
Venendo più specificatamente a Trieste.
Umberto Saba interruppe gli studi a sedici anni perché la madre volle assolutamente che trovasse un impiego. Diventò, così, commesso in una casa commerciale e il suo destino lavorativo ne venne segnato: prima bottegaio di articoli elettrici, poi libraio ed antiquario.
Proprio Saba in una lettera scrisse che «l'artista può anche essere un bottegaio, ma non del proprio ideale» e lanciò così una compiuta teoria del poeta che lavora.
Con questo breve excursus non vorrei che si errasse sulla consistenza del fenomeno.
Lo scrittore e il letterato per professione rimangono, di fatto, delle categorie ben presenti e forse preponderanti mentre il dividersi tra un impiego e la letteratura riguarda (e ha riguardato) solo un residuo, benché qualitativamente importante, numero di scrittori.
Non mancarono, infatti, nella stessa Trieste, come del resto in Italia e in Europa, scrittori che riuscirono comunque a concentrare totalmente la loro vita (in alcuni casi piuttosto breve) sulla letteratura.
Penso a Giani Stuparich che fu scrittore e insegnante, a Scipio Slataper che fu scrittore, traduttore e redattore della rivista La Voce fino ad arrivare al contemporaneo Claudio Magris (12).
Resiste dunque e per certi versi si rafforza, l’idea che la letteratura (un po’ come la poesia per i romantici) sia legata ad un mondo esclusivo e “più alto” rispetto agli altri ambiti della vita”.
Senza arrivare a categorizzazioni esaustive è evidente che si contrappongono i letterati di e per professione agli irregolari o “dilettanti”.
Dilettanti a volte di genio ma, pur sempre, “estranei” al mondo della scrittura.
Non solo perché come ingenuamente pensava Campana solo chi «inossa fantasmi» dormendo la notte all'addiaccio, nei covoni di paglia, sia un vero poeta, ma perché per meritare attenzione degli esperti occorre in qualche modo fare parte del loro mondo.
I due ambiti, quello dei professionisti della scrittura e degli irregolari dilettanti, sono in realtà parzialmente comunicanti (Richard Bach, fotografo e fortunato autore di libri di successo, sosteneva che uno «scrittore professionista è un dilettante che non ha desistito» (13)) ed è sempre possibile un passaggio da una categoria all’altra ma questo può avvenire solo in casi particolari e con enorme difficoltà.
Difficoltà che può essere superata più agevolmente se qualcuno getta una metaforica scaletta per consentire di passare dal variegato mondo del “fai da te” dilettantesco all’empireo degli artisti accademici.

4) TORNANDO A SCHMITZ

Tornando a Ettore Schmitz – Italo Svevo e al rapporto tra l’artista e il commerciante imprenditore che ne rappresentano le due anime, può essere utile dare uno sguardo a La Coscienza di Zeno.
Nell’ultimo capitolo del libro Zeno annuncia al dottore e attraverso di lui al lettore implicito: «Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia».
Facile in questo leggervi il riscatto finale dell’inetto sveviano per alcuni figura assai vicina a quella del schemiel ebraico impacciato e incapace.
Di fatto si tratta di una apertura, di un pertugio che ci riporta al rapporto commercio – letteratura o più in generale a quello tra lavoro manuale e contemplazione speculativa.
Rapporto da sempre problematico come emerge dalle riflessioni filosofiche che ci accompagnano fin dall’antica Grecia.
Così come il filosofo anche l’artista, secondo alcuni pensatori, deve essere in grado di arrestare il corso della quotidianità pratica al fine di consacrare le proprie energie alla creazione sia essa del pensiero o di un’opera artistica.
Ma tornando a Svevo, La coscienza di Zeno romanzo indirettamente autobiografico, rivela attraverso il meccanismo narrativo uno degli aspetti centrali della vita dell’autore a lungo ignorato dalla critica: la propria formazione commerciale e l’influenza che questa esercitò sulla sua scrittura.
Dopo una formazione iniziale come corrispondente estero a Segnitz, in Baviera, Svevo si inserisce nella Scuola superiore di Commercio Revoltella, come studente prima e come insegnante poi. L’influenza delle sue letture e dei suoi contatti con il corpo insegnante della Scuola restano ancora largamente inesplorati.
Così come poco esplorati risultano essere anche gli aspetti legati alla sua professione e alle attività in banca e poi presso l’impresa del suocero, per quanto non manchi il materiale biografico.
Tutto ciò in una città che Elio Schmitz, fratello di Svevo, definisce nel suo Diario:
«Una città borghese, forse la più autenticamente borghese di tutta l’Austria-Ungheria per la pressoché totale assenza in loco di quella nobiltà storica la cui presenza condiziona e caratterizza la vita politica e civile di tutti i territori austriaci».

Contrapporre però i due aspetti, quello letterario e quello lavorativo, così come in un certo senso fanno Bazlen e Montale, privilegiandone uno farebbe, a mio avviso, torto allo spessore dello scrittore triestino, che come ho già sostenuto fu originale anche per la sua capacità di ricoprire diversi ruoli nella società traendone spunti per i suoi scritti.
E’ possibile, anzi probabile, che Svevo sognasse una attività esclusivamente letteraria, un po’ come del resto fece Kafka ma, a tale determinazione, non riuscì mai a giungere per una serie di circostanze oggettive e di considerazioni soggettive.
Tra queste vanno annoverati i doveri verso la famiglia e le responsabilità verso il lavoro che furono amplificate una volta entrato a far parte della ditta del suocero.
Vi fu, inoltre, con tutta probabilità qualche dubbio di Svevo sulla sua vocazione che gli impedì di rischiare concentrando tutte le sue energie in un’unica direzione.
La fragilità della vocazione unita all’avversione a quello che potremmo definire il rischio esistenziale, legato alla scelta di una strada senza possibili alternative, troverebbe conferma sia nella sua biografia sia nell’osservazione di chi lo conosceva.

Si consideri, ad esempio, la riflessione di Lebowitz che confrontando Svevo con Joyce affermò che lo scrittore triestino: «aveva molto poco di quel genere di fede nel proprio talento che sostenne Joyce attraverso i suoi anni di disappunto» (14).
Tuttavia la situazione di insuccesso e la necessità di lavorare nel commercio e nell’industria paradossalmente, non lo limitò nella sua esperienza di scrittore ma ne amplificò le capacità perché lo costrinse, sia pur in parte come osservatore distaccato, a rimanere a stretto contatto con la vita reale consentendogli di coglierne, in un periodo di rapida trasformazione, aspetti e dinamiche difficilmente osservabili e descrivibili da narratori esclusivamente contenuti nel bozzolo dell’arte e della letteratura.
Parte del successo di Svevo non dipende, infatti, dalla purezza dello stile ma dalla capacità di cogliere gli aspetti più comuni della vita (compreso le sue bassezze) misurandoli con la propria coscienza e descrivendoli spesso con un registro ironico e a volte, irriverente.
In realtà ciò che, a mio avviso, non si è indagato sufficientemente è il fatto che non appartenendo Schmitz all’ambiente letterario ufficiale e vivendo in una città di frontiera “senza tradizioni di coltura” come scrive Slataper o come nota Saba in una delle righe di apertura di Storia e Cronistoria del Canzoniere («da un punto di vista della coltura nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850») e come in un certo senso, aveva affermato Stendhal, console a Trieste dall’autunno 1830 (15), non vi fu abbastanza attenzione per cogliere, fin da subito, la bontà e l’innovazione dei suoi scritti.
Si consideri, ad esempio, che Una vita ebbe tre sole recensioni.
La più autorevole fu quella di Domenico Oliva su, Il Corriere della Sera, nel novembre del 1892, le altre due furono pubblicate sui quotidiani di Trieste a firma di Silvio Benco e della scrittrice Haydée, che furono anche tra i pochi nel 1898 ad avvedersi di Senilità.
Solo in seguito, infatti, all’incontro fortunato quanto casuale con Joyce gli scritti di Svevo vennero riconosciuti dal mondo letterario e dalla critica.
Dopo, più di vent’anni trascorsi ufficialmente lontano dalla letteratura, Svevo scrisse il romanzo che gli permise di uscire, finalmente, dalla clandestinità a cui aveva affidato i suoi scritti. La scrittura letteraria era divenuta per lui, infatti, nei cosiddetti anni del silenzio, pratica privata e, senza mai essere abbandonata, si era trasformata in attività segreta, necessario sfogo di uno scrittore deluso, ma non rassegnato. Sembra anzi che questi lunghi anni silenti siano stati un’officina indispensabile alla crescita di uno scrittore che nacque, agli occhi dell’opinione pubblica, solo dopo la pubblicazione de La coscienza di Zeno.
Ma tale percorso fu possibile solo grazie a Joyce.
Quando, infatti, fu pubblicato nel 1923 a cura dell’editore Cappelli, il libro ebbe una accoglienza piuttosto gelida se non proprio ostile.
Valga, come esempio, la critica del tutto sfavorevole, una vera e propria stroncatura, apparsa a firma di Giulio Caprin (16)sul Corriere della Sera.
Solo in seguito, grazie soprattutto all’interessamento diretto di Joyce che aveva trovato il romanzo «di gran lunga il Suo miglior libro», vi fu un interessamento da parte del mondo letterario.
Per ottenerlo Joyce utilizzò alcune sue conoscenze francesi che prestarono un’inaspettata attenzione all’opera di questo ormai attempato scrittore ignorato nella sua patria.
Primo segnale di questa operazione di scoperta dell’ opera di Svevo può essere considerata la lettera piena di ammirazione scritta il ’1 gennaio 1925 da Valery Larbaud allo scrittore triestino.
La vera svolta si ebbe però con gli articoli apparsi il1 febbraio 1926 su il «Navire d’Argent», una famosa rivista parigina.
La rivista dedicò un numero quasi esclusivamente a Svevo in cui vennero pubblicati brani tratti da Senilità (tradotti da Valery Larbaud) e da La coscienza di Zeno (tradotti da Benjamin Crémieux) nonché un articolo di Crémieux in cui si accostava Svevo a Proust (17) e in cui si definiva Svevo come il “primo romanziere d’analisi” dell’Italia contemporanea e si propone un paragone tra Zeno Cosini e Charlot. (18).
Similmente anche in Italia crebbe l’attenzione della critica sempre grazie all’interessamento di Joyce e di Bobi Bazlen nonché alle notizie provenienti dalla Francia portate, tra l’altro, da Giuseppe Prezzolini che vi aveva da poco fatto ritorno.
Chiave di volta della scoperta di Svevo è questa volta Montale che ricevuti, grazie all’interessamento del comune amico Bobi Bazlen e letti i tre romanzi di Svevo ne era rimasto tanto entusiasta da divenire di lì a poco il vero scopritore dello scrittore in Italia, nonché il suo primo grande critico.
Nel dicembre del 1925 usciva sull’Esame il suo Omaggio a Italo Svevo, che doveva costituire la rivelazione di Svevo al pubblico e alla critica.
Come spesso avviene il successo chiama successo e chi prima aveva ignorato o criticato lo scrittore triestino ne diventò in molti casi un estimatore.
Fermo nel suo giudizio rimase Giulio Caprin che sul “Corriere della Sera” restò fedele alla sua, ormai minoritaria, posizione di critica.
L’opera di Svevo iniziò anche ad essere tradotta e commercializzata in diversi Paesi europei.
Come riappacificato con quella letteratura che di fatto lo aveva a lungo emarginato Svevo si dedicò a nuove e vecchie novelle, lesse testi che lo stesso Montale gli consigliò, intrattenne rapporti con numerosi intellettuali, fece rappresentare a Roma una sua vecchia commedia:Terzetto spezzato.
Inoltre, fatto questo abbastanza nuovo per lui, dopo molte esitazioni l’8 marzo 1927 tenne una conferenza a Milano sull’amico (19) Joyce.
Così ricorda Svevo in una lettera questa esperienza per lui nuova e abbastanza traumatica.
«A Milano ove fui tutta la settimana scorsa lessi al “Convegno” su James Joyce. Mia moglie mi disse che lessi bene.
Era un pubblico di donne. Quel signor Ferreri mi fece leggere alle 5 pm- quando gli uomini lavorano … Oggi mando il manoscritto a Joyce e non ci penso più. Penso che in pubblico non leggerò mai più». (20)

Al di là della sua ritrosia è evidente che Svevo sia ormai entrato a pieno titolo, all’età di sessantacinque anni, in quel mondo letterario dal quale era sempre stato emarginato.
Si apprestò così a realizzare un nuovo romanzo riprendendo a scrivere con entusiasmo, forse semplicemente per divertirsi, come si evince da alcune lettere del 1928, inviate a Crémieux:
«mi sono messo a fare un altro romanzo, Il Vecchione, una continuazione di Zeno. Ne scrissi una ventina di pagine e mi diverto un mondo. Non ci sarà niente di male se non arriverò a terminarlo. Intanto avrò riso di gusto una volta di più nella mia vita» (21).

L’appartenenza a quel mondo esclusivo degli scrittori riconosciuti e incoronati con il lauro, della letteratura, della critica colta e del successo letterario venne ulteriormente sancito nel febbraio del 1928 quando Svevo si recò a Firenze ospite dello “Svevo’s Club”, creato da Montale e dalla sua futura moglie triestina, Drusilla Tanzi Marangoni, dove venne festeggiato da giovani scrittori gravitanti intorno al gruppo di «Solaria» e nel marzo dello stesso anno quando altri festeggiamenti lo attesero a Parigi, presso il Pen Club dove incontrò, tra gli altri, Babel, Ehrenburg, Shaw, Benda, Prezzolini, Comisso e Joyce.
Poi, come ho già raccontato, dopo tre anni di notorietà letteraria giunse la fine dei suoi sogni mietuti dalla morte che lo attendeva in quella grigia giornata di pioggia a Motta di Livenza.

CONCLUSIONE

E’ noto che dopo la morte la critica non smise di occuparsi di Svevo e della sua opera con un dibattito che, con alterne fortune, è arrivato fino ai nostri giorni.
Con il passare del tempo Svevo da soggetto è diventato oggetto letterario fornendo, ormai involontariamente, materiale ad una pletora di studiosi e critici che hanno fatto e fanno a gara a scoprire ciò che per negligenza o colpevole accidia avevano ignorato.
Tra i primi studi su Svevo apparsi dopo la sua morte meritano di essere menzionati: il saggio di Giacomo Debenedetti, Svevo e Schmitz, stampato nel 1929; nonché nello stesso anno i numeri delle riviste «Solaria» e «Convegno».
Negli anni Sessanta vennero poi pubblicati i quattro volumi dell’Opera Omnia, a cura di Bruno Maier, a cui la famiglia Svevo aveva affidato l’amministrazione dei manoscritti. Si possono così leggere e consultare, per la prima volta, testi inediti sorprendenti, racconti sconosciuti, saggi, pagine di diario, commedie e un corpus ricchissimo di lettere.
Materiale che similmente al carbone per una caldaia da nuova linfa alla critica.
Svevo viene ammesso così a pieno titolo nel novero degli scrittori italiani più rilevanti del novecento meritandosi un posto di primo piano nelle antologie scolastiche.
Si potrebbe perciò considerare l’intera vicenda come un commedia con un finale lieto.
Tuttavia ritornando alle iniziali parole di Balzen di Montale mi sembra utile riannodare i fili del discorso facendo alcune sottolineature.

La prima sottolineatura riguarda la particolarità di Svevo - Schmitz di essere uno scrittore – impiegato.
Questa appartenenza transita, come ho già sottolineato, direttamente nella sua opera che diviene così, in un certo senso, strumento di conoscenza critica del reale, lontana da ogni culto formalistico della "bella pagina" tanto cara, ad esempio, a Gabriele D’Annunzio.
Diversamente dal tipico letterato italiano a lui coevo, Svevo non ha una formazione umanistica, si interessa poco di poesia, ma ha una vera e propria passione analitica che fa di lui una sorta di osservatore attento della vita quotidiana, che supera le convenzioni del romanzo naturalista ma non rinuncia all’esigenza cognitiva che sta alla base della cultura positivista.
Come ha notato Magris in questo senso, la sua produzione «rientra nella grande tradizione analitica, etico - scientifica della narrativa austriaca e mitteleuropea» (22) e in qualche modo trova contatti con quella di autori mitteleuropei quali: Musil, Kafka, Roth e Werfel.
Le diverse anime di Schmitz si fondono nella pagina da lui scritta in cui rappresenta con attenzione ed ironia il mondo commerciale e borghese mostrandone aspetti e vizi che risultano ancor oggi attuali.
Il suo successo deriva, almeno in parte, proprio dalla tempestività con cui lo scrittore triestino ha saputo cogliere e rappresentare problemi, conflitti psicologici, comportamenti che, eccezionali ai suoi tempi, appaiono oggi comuni e quotidiani, caratteristici del disagio esistenziale contemporaneo.
Scindere i due aspetti, quello letterario e quello commerciale ed industriale, sarebbe quindi erroneo e fuorviante (23).

La seconda sottolineatura riguarda il ritardato successo, di critica e di pubblico, dell’opera di Italo Svevo.
Per quanto Bazlen avesse da sempre sostenuto il suo talento, il suo genio, è probabile che, la non appartenenza al mondo letterario, rese le sue opere di scarso interesse e poco appetibile per i critici a lui contemporanei.
Innovative, almeno in parte, necessitavano di una analisi scevra da pregiudizi e da canoni estetici predeterminati, per essere apprezzate appieno.
Usando quella che egli stesso definisce «una immagine scherzosa» Debenedetti afferma che:
«tutte le spiegazioni di un fama ritardata, o addirittura postuma rientrano nello schema del signore che finalmente prende l’autobus, dopo averlo aspettato per un tempo interminabile a una fermata dove forse esso non sarebbe passato mai più.
In una simile situazione i casi sono due: o il signore era talmente lungimirante da essersi messo alla fermata prima ancora che esista la linea nella certezza intuitiva o ragionata che presto o tardi quella linea sarà istituita; oppure sta lì, aspetta passivamente con l’angoscia quasi kafkiana che la linea, datagli per sicura e regolare, nel frattempo e a sua insaputa sia stata soppressa.» (24).

Ci sarebbe dunque la necessità perché un autore e la sua produzione raggiunga il successo della sincronia estetica tra opera d’arte e critica.
In caso contrario sarebbe necessario attendere il lento recepimento della novità dello stile o del contenuto dello scritto che passa forzatamente per il silenzio e l’attesa, da parte dello scrittore, dell’autobus su cui salire.
Attesa che riguardò, ad esempio, Stendhal che un po’ come avvenne per Svevo fu a lungo ignorato dalla critica e dal pubblico per poi avere tardivamente un successo a lungo sognato.
Anche nel caso specifico di Svevo, questa sincronia non si verificò.
La critica non era ancora pronta per comprendere e valutare appieno la sua opera.
Avrebbe potuto farlo solo attraverso una riflessione approfondita e attenta capace di cogliere una discontinuità con le proposte di altri scrittori coevi.
Probabilmente però questa attenzione doveva sembrare un tributo eccessivo per l’opera di un “venditore di vernici marine”.
Solo l’incontro fortunato e del tutto fortuito con Joyce, avvenuta in età avanzata, modificò questa situazione.
Joyce riuscì a far accreditate l’opera di Svevo presso quel mondo “iperurano” fatto di letterari, colti e professionisti delle lettere, facendo perdere allo scrittore triestino quell’etichetta di dilettante, di bottegaio che lo aveva estromesso ed escluso.
Tale situazione, purtroppo, non è da considerarsi unica.
Molto spesso, infatti, il mondo della letteratura, della narrativa e della critica risultano essere autoreferenziali e i giudizi più che basati sul valore artistico dell’opera sembrano stabiliti sulla celebrità dello scrittore o alla sua appartenenza alla cultura ufficiale o, almeno negli ultimi anni, alla sua popolarità (25).
Perché un’opera sia presa in “seria” considerazione non sempre basta il pregio della stessa.
Sicuramente bisogna possedere del genio e del talento, ma questo non è purtroppo sempre bastevole.
Occorre spesso un Virgilio che faccia da guida per passare dal limbo dell’inedito o del non conosciuto fino, per lo meno, al purgatorio dell’editoria e del successo.
Un Virgilio che trovò Kafka impersonato da Max Brod, un Virgilio che trovò Svevo, impersonato da Joyce (e per alcuni versi, in seguito, anche da Montale).
La domanda che però ci si deve porsi è la seguente: sarebbe stato lo stesso se non ci fosse stata questa figura di riferimento o i capolavori di questi autori sarebbero inesorabilmente scivolati nell’oblio perdendosi per sempre?
Il quesito è meno retorica o banale di quanto potrebbe sembrare e scoperchia innumerevoli problemi di sociologia della letteratura legati al successo e alla diffusione di un’ opera.
Penso, tuttavia, sia evidente come la non appartenenza al mondo letterario ufficiale (o più in generale dello spettacolo) rappresenti un notevole handicap per far conoscere ed apprezzare la propria opera.
Nella Selva Oscura accanto al prescelto Dante chissà quanti altri hanno atteso o attendono invano il loro Virgilio rimanendo, purtroppo e contro i loro meriti, scrittori persi nel limbo della letteratura colta.


NOTE

1) Sull’incidente e sulla sua dinamica si rimanda a: L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Dall’Oglio. Milano 1976.
2) Il Gazzettino, 13 settembre 1928, Auto contro un albero. Si veda anche La Gazzetta di Venezia, 13 settembre 1928, Grave incidente automobilistico. Tre triestini feriti.
3) Ibidem
4) Per una documentata ricostruzione dei momenti estremi di Svevo si veda l’intervista alla figlia fatta da Ottavio Cecchi. O. Cecchi, Un ironico distruttore di certezze, in Rinascita, 15 settembre 1978. Si veda inoltre: G. Stuparich, Giochi di fisionomie, Garzanti, Milano 1946.
5) S. Benco, Italo Svevo nella sua nobile vita, Il Piccolo, 15 settembre 1928, (articolo successivamente ripreso dalla Gazzetta di Messina, 26 maggio 1928).
6) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Garzanti, Milano 1948, p. 101.
7) B. Bazlen, in Adelphiana 1971, Adelphi, Milano 1971 p. 195.
8) L’incontro fra il trentenne poeta e il sessantacinquenne Schmitz avvenne a Milano; ma due mesi prima, da Londra, dove si trovava per affari, il romanziere aveva scritto a Montale, ringraziandolo degli articoli pubblicati sull’«Esame» e sul «Quindicinale» che erano i primi effettivi segni di interesse critico intorno alla sua opera. Il rapporto proseguirà attraverso una fitta corrispondenza, che accompagnerà gli ultimi anni di vita dello scrittore triestino. Montale si occuperà a lungo dello scrittore e amico attraverso una serie di interventi, recensioni e articoli che continuarono anche dopo la morte di Svevo e proseguirono fino alla morte del poeta ligure.
9) S. Benco, Prefazione in I. Svevo, La coscienza di Zeno, Corbaccio, Milano 1938 p. 10 – 11.
10) F. Pessoa, Introduzione, in À memória do Presidente-Rei Sidónio Pais, Editorial Império, 1940.
11) H. Arendt, Il futuro alle spalle, il Mulino, Bologna, 1966.
12) Similmente nella loro vita si dedicarono esclusivamente alla letteratura autori quali (in via del tutto esemplificativa e non esaustiva): Palazzeschi, Govoni, Moretti, Montale, Ungaretti, Calvino.
13) R. Bach, Un dono d’ali, Rizzoli, Milano 1987.
14) N. Lebowitz, Italo Svevo, New Jersey, Rutgers University Press, 1978, p. 1
15) Nel senso di Stendhal e Slataper (Lettere triestine, Dedolibri, Trieste, 1988) si veda anche le riflessioni di Elio Schmitz (Lettere a Svevo. Diario di Elio Schmitz, Dall’Oglio, Milano 1978) e di Giani Stuparich (Scipio Slataper, Mondadori, Milano 1921 p. 21). Slataper aveva esordito a vent’anni come pubblicista e polemista „vociano“ con le Lettere triestine della primavera 1909. Si trattava di un’inchiesta fortemente critica sullo stato delle istituzioni culturali cittadine, che suscitò non pochi rancori municipalistico- Patriottici.
16) Tra l’altro Giulio Caprin che fu giornalista, scrittore , saggista e poeta per quanto trasferito con la sua famiglia a Firenze era di origini triestine.
Anche per questo come critico letterario del Corriere della Sera, con cui collaborò tra il 1919 portatovi da Borgese e il 1942, mantenne sempre una particolare attenzione per gli scritti provenenti dalla sua terre d’origine alla quale rimase sempre legato collaborando anche con Il Piccolo di Trieste. Su Caprin e sulla sua vita si veda: M. Moretti, Il libro dei miei amici, Milano 1960, pp. 259-67; B. Maier, La letteratura triestina del Novecento, Trieste 1969, pp. 217-24.
17) L’’accostamento di Svevo e Proust fu senz’altro funzionale al successo letterario di Svevo ma secondo diversi critici era ed è fuorviante. In questo senso si veda: Debenedetti, Il romanzo del novecento, op cit. Originaria la posizione di Bruno Meier che sostenne che questo accostamento sarebbe stato fatto per avvantaggiare Proust, in realtà già molto famoso all’epoca. B Maier, Introduzione, in Opere, a cura di Bruno Maier, Milano: Dall'Oglio, 1954 e 1969
18) A Le considerazioni del critico francese vengono attualmente accettate anche dagli svevisti italiani grazie al successo che il famoso personaggio chapliniano riscosse anche in Italia tra il 1925 e il 1928 anziché intorno al 1920, quindi con alcuni anni di ritardo rispetto alla Francia. Cfr. G. Viazzi, Chaplin e la critica, Bari, Laterza, 1955, p. 12. A proposito delle considerazioni più recenti si veda E. Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 186-187 e G. Debenedetti, Il romanzo italiano del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 522.
19) Il rapporto tra Svevo e Joyce viene considerato solitamente come amicale. In realtà come è stato messo bene in luce, ad esempio da Serafini, tra i due vi sono stati anche momenti di incomprensione, difficoltà e giudizi poco lusinghieri. Più di una testimonianza ci conferma che tra Joyce e Svevo era presente un sottile rancore, un senso di ammirazione misto a qualcosa di mai detto.
Scrive, ad esempio, Svevo:, con l’ironia che lo ha sempre caratterizzato:«Si capisce che non è una vita facile quella del mercante di gerundi» (I. Svevo, «Faccio meglio a restare nell’ombra». Il carteggio inedito con Ferrari seguito dall’edizione critica della conferenza su Joyce, a cura di G. Calmieri, Milano-Lecce, Lupetti/Piero Manni, 1995, p. 86).
Morto Svevo, Joyce scrive forse con una punta di razzismo:«Il povero Italo Svevo è rimasto ucciso giovedì scorso in un incidente automobilistico. Non so ancora i particolari, ho ricevuto un biglietto da suo fratello e così aspetto prima di scrivere alla vedova. Non so come, quando si tratta di ebrei sospetto sempre un suicidio; benché non ci fosse ragione nel suo caso, soprattutto da quando era diventato famoso, tranne il fatto che la sua salute aveva preso una bruttissima piega. Sono rimasto molto addolorato, quando l’ho saputo, ma penso che gli ultimi suoi cinque o sei anni siano stati discretamente felice.»
C’è poi l’episodio, forse il più emblematico, della mancata prefazione all’edizione inglese di Senilità.
In una lettera del 29 marzo 1932 inviata al fratello Stanislaus, che poi scrisse la prefazione, lo scrittore irlandese quasi a volersi giustificare nega di essersi mai impegnato a scrivere quella prefazione e che i suoi rapporti con la signora Svevo erano sempre stati corretti ma freddi, formali; Joyce indica ancora al fratello che, nonostante la grande disponibilità e liberalità di casa Veneziani nel ricevere, lui non era mai stato considerato un ospite, bensì di avere frequentato la casa solo come insegnante sottolinea la venerazione di Svevo per il denaro e sottolinea inoltre come sua moglie, Nora, si sentisse disprezzata dalla signora Livia, che, incontrandola per strada, fingeva di non vederla9. Inoltre sembra che la Veneziani sparlasse di Nora dicendo che non frequentava la società mercantile di Trieste accanto al marito a causa della mancanza di un guardaroba adatto.
Sui rapporti tra Svevo e Joyce si rimanda a: C. Serafini, La conferenza di Svevo su Joyce, in Scrittori in cattedra, a cura di Floriana Calitti, Studi (e testi) italiani, Semestrale del Dipartimento di Italianistica e Spettacolo dell’Univ. degli studi di Roma “La Sapienza”, diretta da Amedeo Quondam, n. 9-2002, Bulzoni editore, Roma 2002
20) I. Svevo, Epistolario, Dall’Oglio, Milano 1966, Lettera a B. Crémieux, 15 marzo 1927.
21) I. Svevo, Epistolario, op. cit. pp. 876-877.
22) A. Ara e C. Magris, Trieste e la Venezia Giulia, in Letteratura italiana. Storia e geografia Vol. III, L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989, p. 814.
23) Nel senso di non scinderli mi sembra vadano, ad esempio, le riflessioni, di Magris che riprendendo le considerazioni di Bazlen considera Svevo: «un borghese normale, come tutti gli altri, ma con una cosa in più: il genio» e la cui vera grandezza letteraria non è stata, ancora, del tutto compresa. Si veda: Intervista a Claudio Magris (a cura di Federico Ferraù), Rideremo anche noi come il vecchio Zeno di fronte a Mefistofele?, Sussidiario. Net, Lunedì 19 dicembre 2011.
24) Debenedetti, Il romanzo del novecento, op. cit. p. 519
25) Su come il mondo letterario sia dominato dagli accademici e da una certa critica stantia si veda quanto scritto da un autore assolutamente differente, per epoca e genere, da Svevo come Charles Bucowski, che pure ebbe un simile destino vedendo la sua opera riconosciuta solo dopo molti anni di disinteresse. Si veda C. Bukowski, Manifesto in Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze, Feltrinelli, Milano 2012.

A cura di Maurizio Canauz



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