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Gramsci, il teatro come “allegoria” della fabbrica dei “produttori”[1]
di Bruno Corino
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Gramsci,  il teatro come “allegoria” della fabbrica dei “produttori”[1]

1. Preciso subito che non è mia intenzione restringere il campo di indagine alla sola attività di Gramsci critico teatrale. Intendo, invece, ripercorrere un lungo giro di orizzonte all’interno della sua riflessione teorica, senza mai perdere di vista l’oggetto principale della mia ricerca. Il mio scopo dichiarato è comprendere quali “intenzionalità” profonde agissero nel pensiero politico di Antonio Gramsci. Paladini Musitelli scrive nella sua interessante monografia dedicata a Gramsci: “Una delle difficoltà maggiori che l’opera di Gramsci ha finora incontrato è, infatti, quella di essere stata indagata e interpretata da studiosi che, per la loro formazione specifica, erano portati ad isolare un singolo settore dell’attività gramsciana, con la conseguenza di fare di Gramsci ora un filosofo, ora un politico, ora uno storico, ora un pedagogista, ora un linguista, ora infine uno storico della letteratura, e di innalzare barriere disciplinari proprio là dove Gramsci aveva cercato di abbatterle”[2].

Anch’io ritengo che il metodo critico più efficace, quando si affronta un pensatore così complesso e per forma mentis portato all’antispecializzazione, sia evitare di isolare il singolo problema all’interno di un ristretto angolo visuale, e tentare di allargarne l’orizzonte sino a connetterlo con la complessità della sua riflessione. In effetti, quando si inizia un lavoro su Gramsci, si è sempre assaliti dal dubbio se ha senso, parafrasando le sue stesse parole, “portare la propria pietruzza all’edificio commentatorio e chiarificatorio”, tanto più se si pensa alla vastissima bibliografia critica che, dal primo profilo critico del suo caro amico Piero Gobetti sino ai giorni nostri, si è stratificata intorno al suo pensiero[3]. Anche la letteratura critica su Gramsci “è così pletorica e prolissa, che l’unica giustificazione a scrivere qualcosa in proposito mi pare sia quella di dire qualcosa di veramente nuovo, con la maggiore precisione e con il minimo di parole possibili”. Le “pietruzze” sono ormai tante, forse è ora di cominciare a portare qualche macigno.

Questo breve saggio ha in sé un insegnamento metodologico, cioè un significato altro da quello che dice esplicitamente, cioè ha in sé un significato “allegorico”. Il lettore alfine si renderà conto che anch’io, parlando di Gramsci critico teatrale, in realtà ho voluto parlare d’altro.

 

2. Sfogliando la bibliografia critica sul tema “Gramsci e il teatro”, pare che non ci sia più motivo di ritenere, come faceva notare De Mauro in un saggio del ’87, “sottoutilizzata dagli studiosi” l’attività di Gramsci critico teatrale[4]. Studi recenti, ma anche meno recenti[5], hanno avuto l’indubbio merito di mettere in evidenza l’importanza che la critica militante di Gramsci ha avuto sia in rapporto a quella specificatamente politica del giovane rivoluzionario, sia in relazione al contesto storico-teatrale intorno ai terribili anni del primo confitto mondiale.

In realtà, oggi l’atteggiamento della critica nei confronti di Gramsci, rispetto al passato, si è ulteriormente modificato: l’opinione che attualmente si registra è che, anche se “sottoutilizzata”, la critica teatrale di Gramsci era tuttavia nei suoi scarsi contributi sovrastimata rispetto al suo reale valore (e il discorso, secondo questa nuova tendenza, si potrebbe estendere a tutta l’attività teorica gramsciana). Perciò oggi si registra una tendenza opposta, che è quella di sottostimarla.

Sintomi di questa fase ulteriore si colgono nelle pagine di Antonucci. Infatti, l’autore, dopo aver evidenziato i “gravi limiti della critica gramsciana nei confronti del repertorio contemporaneo”, scrive che i contributi critici su Gramsci critico teatrale “hanno finito per assumere la fisionomia dello scritto apologetico piuttosto che quella dell’analisi critica”[6]. Facendo proprio un giudizio già espresso da Giorgio Pullini[7], Antonucci parla di una “pregiudiziale antiborghese” di Gramsci, la quale ha pregiudicata la comprensione “della migliore drammaturgia italiana di quegli anni, considerata in blocco espressione appunto dell’ideologia borghese”[8]. E, se ciò non bastasse, agli occhi del critico Gramsci diviene responsabile anche del silenzio che ha circondato “uno dei maggiori critici del nostro secolo”[9], cioè Adriano Tilgher.

Al di là di queste specifiche valutazioni, non dobbiamo dimenticare che Gramsci non è stato un critico teatrale di professione. A questa attività ha dedicato soltanto i primi anni del suo giornalismo, nello stesso periodo in cui il suo impegno politico s’intensificava sempre di più, fino a che, nella grave crisi politica e sociale dell’Italia, che da lì a poco l’avrebbe consegnata in mano ai fascisti, quell’impegno finì con l’assorbirlo del tutto.

Ricordiamo, inoltre, che negli anni in cui Gramsci cominciò a redigere le sue cronache teatrali, il panorama era dominato da critici come Domenico Oliva, Adriano Tilgher, Marco Praga o Renato Simoni, ma anche da un nutrito gruppo di critici improvvisati[10]. Intellettuali come Gramsci, Gobetti, D’Amico si imposero subito per la loro forte personalità. in quanto erano critici “militanti”, che trasformavano le colonne dei loro giornali in campi di battaglia per affermare la loro personale visione del teatro[11], critici cioè “capaci di riscoprire e riaffermare la funzione del teatro e i suoi stretti rapporti con la società”, rispetto agli altri contributi, più tradizionali anche quando sembravano “proporre temi critici nuovi, sistemazioni inusitate, intellettualistiche interpretazioni”[12].

 

3. Prima di proseguire avanti, vorrei per un attimo richiamare l’attenzione del lettore su un aspetto all’apparenza marginale, in realtà di importanza fondamentale per capire con quale ottica bisogna leggere le “cronache teatrali” di Gramsci (ma non solo). Vorrei richiamare l’attenzione sulla famosa lettera che Gramsci scrisse alla cognata Tatiana il 19 marzo 1927, nella quale il “prigioniero” formulò il suo progetto di ricerca für ewig, per sempre[13]. In quel momento particolare, Gramsci non ha più modo di intervenire direttamente e liberamente con la penna di giornalista nel dibattito politico, perciò manifesta alla cognata l’intenzione di concentrare la sua “scrittura” in un progetto intellettuale di grande respiro[14]. Nella nuova circostanza in cui egli venne a trovarsi, Gramsci avverte il bisogno di concentrare la sua riflessione in un progetto di ricerca “disinteressata”. In un inciso, messo tra parentesi, egli scrive che questo assillo è un “fenomeno proprio dei carcerati”: cioè trovare qualcosa che possa impegnare la mente in carcere aiuta non solo a sopravvivere, ma anche ad evitare una lenta trasformazione della personalità. Gramsci era stato arrestato nel novembre del ‘26. Quando scrisse quella lettera era ancora agli inizi della sua esperienza carceraria, e ignorava quale fosse la sorte che lo attendeva, ma sapeva che in carcere si può morire, per mille ragioni.

Un giorno Gramsci aveva scritto che bisogna “operare come se non si dovesse mai morire” (CT, p. 17). Ma quando scrisse queste parole aveva ventiquattro anni. Nelle nuove circostanze, invece, Gramsci doveva operare come se quel giorno fosse l’ultimo giorno, scrivere come se quella fosse l’ultima volta. In carcere, paradossalmente, bisogna scrivere für ewig, per sempre. Non bisogna, appunto, disperdere le proprie energie intellettuali in mille rivoli, ma concentrarle in un unico progetto, anche se si è consapevoli che di quel progetto forse riuscirà a intravedere soltanto la cima. Il pensiero della morte, il pensiero della vita, nella nuova condizione, hanno un significato diverso[15].

Quando Tatiana informò Piero Sraffa delle difficoltà incontrate da Gramsci nel portare avanti il suo lavoro für ewig, l’economista ricordò al “recluso” proprio la sua decennale attività di giornalista: “Una volta Nino rimproverava sempre a me che l’eccesso di scrupoli scientifici mi impedisse di scrivere qualunque cosa: io da questa malattia non sono mai guarito, ma possibile che dieci anni di giornalismo a lui non l’abbiano curato?”[16].

Ma Gramsci fece capire a Sraffa, tramite Tatiana, che le difficoltà non erano dovute soltanto al tipo di indagine che egli si accingeva a compiere in carcere. In quelle condizioni non era possibile portare avanti una ricerca di quel genere senza consultare “grandi biblioteche”. Le difficoltà erano dovute anche a considerazioni di ordine “scritturale. La scrittura gramsciana in carcere è costretta a cambiare orizzonte: non più, come in passato, quando scriveva articoli di giornali che “dovevano morire alla giornata”, spesa nella lotta politica contingente, ma in qualcosa di più duraturo. Non si possono mettere sullo stesso piano le due scritture, quella “scientifica” e quella giornalistica. Nella penna di Gramsci, la scrittura giornalistica nasceva sempre sotto il pungolo di una polemica immediata, era “l’acido corrosivo dell’imbecillità”, era tutta finalizzata alla battaglia politica e culturale. Come aveva un tempo scritto in una lettera a Vincenzo Bianco, secondo Gramsci quando si scrive bisogna distinguere l’elemento “organico” da quello “occasionale”[17]. Nella scrittura giornalistica a prevalere sono gli elementi occasionali[18].

Possiamo, dunque, parlare in Gramsci di due livelli differenziali di scrittura: nel primo, in quello “scientifico”, für ewig, la scrittura è finalizzata ad esercitare una riflessione teorica di “lunga durata”, ed è una scrittura “riflessiva”, meditata, distaccata, in cui l’elemento organico prevale su quello occasionale. Anche lo stimolo occasionale, infatti, cioè la lettura di un articolo o di un saggio, è subordinato al piano organico di ricerca, alla “strategia di indagine” di largo respiro. In questo livello di scrittura, dato la sua sistematicità, bisogna verificare di volta in volta il piano generale nello stimolo occasionale, nel saggio appena letto o nell’articolo di rivista. Nell’altro livello, invece, cioè in quello “giornalistico”, occorre di volta in volta elevare l’elemento contingente, occasionale su un piano “universale”. In questo livello di scrittura, dove tutto è finalizzato alla lotta politica immediata, il giornalista deve saper scorgere dietro ogni fatto occasionale ciò che è organico. L’essere occasionale, agli occhi di Gramsci, significa l’essere “esteriore”, è il modo in cui un fatto si presenta dinanzi a noi. L’esteriorità è sempre sintomo di un significato altro da quello che si presenta. In altri termini, possiamo anche definire questa scrittura giornalistica “allegorica”. Nella scrittura allegorica, infatti, lo spunto occasionale, che ha originato la stesura di un articolo, esprime sempre un significato altro da quello che la semplice lettera dice.

La prosa giornalistica di Gramsci sin dal suo primo apparire ha sempre promanato un suo fascino, avvertito sia dagli amici e compagni di partito che dagli stessi avversari, ma finora non è stato scoperto l’arcano da cui quel fascino scaturiva. In effetti, leggendo le sue cronache non ci si riesce a sottrarre all’impressione che ogni giudizio, ogni fatto riportato sembra essere penetrato da una luce di pensiero, la cui fonte rimanda ad un disegno “organico”. Anche a distanza di anni tra un articolo e l’altro, i suoi lettori avvertivano in quella prosa, inconsueta nella pubblicistica socialista del tempo, un’affinità di temi e di riflessione, come se il loro autore avesse il magico potere di farli dialogare tra loro. Ebbene è questo magico potere che occorre svelare.

 

4. Che le sue cronache teatrali, come è stato notato da più parti, riguardassero non soltanto il testo letterario, ma anche la messinscena, l’industria teatrale, il problema della ricezione, ecc., è ormai un dato acquisito dalla critica. Questa attenzione molteplice per tutto ciò che si richiamava al teatro costituiva una novità assoluta nel panorama della critica letteraria del tempo[19]. Anche Davico Bonino, alla fine del suo saggio, tracciando un bilancio sul contributo che la critica teatrale deve all’uomo politico sardo, scrive queste parole: “[Gramsci] ci ricorda, infine, che un testo teatrale [...] non diviene tale se non viene agito: e che quindi il critico deve puntare la sua attenzione e concentrare il suo giudizio sulla interpretazione, sulla realizzazione del testo: le quali a loro volta nascono da una azione collettiva, da un lavoro comune e paritario che è il solo sigillo, da sempre, del fare teatro”[20].

Anche noi siamo d’accordo nel dire che “tra il critico teatrale e l’attivista politico, il rivoluzionario marxista, il redattore dell’“Ordine Nuovo” e il teorico dei Consigli di fabbrica non c’è alcuna differenza, sì invece una evidentissima unità e continuità”[21], ma si tratta proprio di dimostrare questa continuità, e non a livello superficiale; si tratta, in altri termini, di capire se tra le due attività c’è piena integrazione o semplice sovrapposizione. Altrimenti, quei rilievi critici restano un mero dato di cui prendiamo semplicemente atto.

I critici sono d’accordo nel ritenere originali le schede teatrali di Gramsci, tuttavia, a mio parere, ancora non è stato compresa la fonte da cui quella originalità scaturiva, così come non è stato compreso l’interesse che guidava Gramsci nella sua stesura delle sue cronache, cosa egli vi avesse effettivamente scorto nel teatro rispetto agli altri critici. Se vogliamo comprendere la fonte e l’interesse dobbiamo cominciare ad indagare i significati “allegorici”[22] che, secondo noi, il teatro nella visione gramsciana conteneva. Precisiamo che con ciò non voglio dire ch’egli si battesse per un teatro “allegorico”, semplicemente che il teatro drammatico, a cominciare dal “testo scritto” e dalla sua produzione, e passando per la distribuzione” e la ricezione, quindi in ogni sua fase, si presentava già di per sé come un’allegoria della futura società socialista. Il teatro nel suo insieme denotava un complesso allegorico, in quanto agli occhi di Gramsci si poneva contro la privatezza della significazione simbolica, tipica invece del puro discorso letterario, in quanto il teatro nell’intenzionalità gramsciana esigeva e cercava la dimensione pubblica, corale del suo significare e del suo essere fruita[23]. Se vogliamo “decifrare” questi significati, dobbiamo anzitutto cominciare a riconoscere su quali principi l’intera allegoria teatrale si costruisce. E, in effetti, questi significati si hanno quando cominciamo a stabilire un’analogia tra il momento dell’elaborazione del testo teatrale e della sua messinscena con il momento della progettazione del piano di lavoro industriale e quello della sua esecuzione pratica, tra il teatro costituito da principi estetici con la fabbrica dei produttori. Soltanto attraverso la comprensione di questa serie di analogie riusciremo a capire perché non sia possibile scindere l’attività di critico teatrale o dell’uomo di cultura da quella del politico e teorico della futura società socialista.

Quando Davico Bonino, nel suo fondamentale saggio, si chiedeva perché Gramsci sulle cronache dell’“Avanti” non si fosse occupato di letteratura, come gli sarebbe accaduto, invece, nell’isolamento carcerario, faceva notare come egli, “nel vivo del giovanile impegno”, fosse proprio attratto dalla “socialità del teatro”, dal “suo parlare alla collettività e non all’individuo”[24]. La risposta ha colto indubbiamente un aspetto centrale nell’interesse di Gramsci per il teatro. La “socialità del teatro” costituiva certamente uno dei tratti principali verso il quale Gramsci si sentiva maggiormente attratto. Tuttavia si tratta di specificare meglio il carattere di questa “socialità”.

Anche il cinema, nei primi anni Venti sprigionava delle potenziali risorse di socialità. Come il teatro, il cinema non si rivolgeva al singolo individuo, ma alla collettività. Eppure Gramsci si è mostrato piuttosto critico nei suoi confronti[25]. Evidentemente, la socialità del cinematografo era diversa da quella teatrale. Al giovane critico il cinematografo appariva capace di imitare soltanto i caratteri “esteriori” e “deteriori” del teatro, e di offrire al pubblico le stesse sensazioni del “teatro volgare”. Anzi, in questa sua offerta il cinema risultava essere persino superiore, in quanto questo mezzo espressivo si prestava meglio a portare sullo schermo tutto ciò che Gramsci detestava sulla scena:

Nessuno può negare che la film abbia per questo lato una superiorità schiacciante sul palcoscenico. È più completa, più varia, è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice movimento, a semplice macchina senza anima, a quello che in realtà sono nel teatro. [...] D’Annunzio, Bernestein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la smorfia, il contorcimento fisico, trovano nella film materia adatta alla loro espressione (Teatro e cinematografo, 26 agosto 1916, in CT, 803-04).

Allo stesso tempo però, proprio perché riusciva ad assorbire i caratteri deteriori, l’avvento del cinematografo poteva essere salutare per lo stesso teatro, in quanto a causa della sua concorrenza costringeva il teatro a migliorare la qualità dell’offerta, e quindi il cinema “fungeva, nella polemica gramsciana, da potenziale liberatrice dell’involgarimento della scena industrializzata”[26]. Eccetto l’effetto indiretto ma benefico che il cinematografo poteva avere sull’industria teatrale, rimane tuttavia il fatto che Gramsci, in quegli anni, non ne valutasse positivamente la socialità.

 

5. Il rapido confronto con il cinematografico ci ha fatto capire che non è sufficiente che una massa indistinta di uomini si trovi riunita nello stesso luogo perché si possa parlare di “socialità”. Questo termine ci ha fatto incappare in una prima dicotomia semantica di Gramsci. La socialità è intesa da Gramsci come qualcosa di spirituale, che va oltre il semplice aggregato di uomini. Addirittura ogni forma di “aggregazione” umana si può definire nell’ottica gramsciana di tipo organico o di tipo meccanico, tutto dipende cioè dalle ragioni “intrinseche” o “estrinseche” che sospingono una massa a trascorrere un certo periodo di tempo nell’identico luogo.

La “socialità” di cui Gramsci parla non è una socialità “meccanica”, bensì “organica”. Nella terminologia gramsciana, “meccanico” equivale a “esteriore”, a “convenzionale”, a ricerca degli “effetti sensazionali”, a “superficiale”, ecc. Anzi, nel termine “meccanico”, opposto ad “organico”, possiamo individuare tutto una “famiglia di significati”[27] o dei “paradigmi semantici” di notevole interesse, in grado di chiarire non solo il pensiero giovanile, ma anche quello della maturità. A livello più profondo, il paradigma semantico “Organico/meccanico” rimanda a quello “Vita / Morte” (“biologismo”). Mediante questa serie di paradigmi possiamo rintracciare una equivalenza di contenuto attorno a un’unica radice, cioè un tratto generale della “significazione”, che a livello generale denota una serie di lessemi. Per cui partendo dalle parole del testo e osservando come esse si rapportino in campi semantici omogenei, possiamo identificare dei paradigmi a diversi livelli di profondità. “Meccanico” vs. “Organico” hanno come radice comune il sema “biologico”. Sul versante del “meccanicismo” ha come lessemi “natura”, “fatalità”, indifferenza[28], “inerzia”, “passività”, “quantità”, ecc.; mentre sul versante dell’“organicismo” ha come lessemi “spirito”, “storia”, “volontà”, “attivismo”, “qualità”, ecc. Quindi, è possibile individuare la struttura paradigmatica partendo dalla costruzione semantica del testo gramsciano che si incardina sull’opposizione /Meccanico/ vs. /Organico/; /Morte/ vs. /Vita/; /Capitalismo/ vs. /Socialismo/. Come esempio significativo, nel quale possiamo trovare riassunti tutti i termini del “paradigma dicotomico”, cito un lungo brano di un articolo del luglio 1918:

Tra la premessa (struttura economica) e la conseguenza (costituzione politica) i rapporti sono tutt’altro che semplici e diretti: e la storia di un popolo non è documentata solo dai fatti economici [...] La storia non è un calcolo matematico: non esiste in essa un sistema metrico decimale, una numerazione progressiva di quantità uguali che permetta le quattro operazioni, le equazioni e le estrazioni di radici: la quantità (struttura economica) vi diventa qualità poiché diventa strumento di azione in mano agli uomini, agli uomini che non valgono solo per il peso, la statura, la energia meccanica che possono sviluppare dai muscoli e dai nervi, ma valgono in quanto sono spirito, in quanto soffrono, comprendono, gioiscono, vogliono e negano [...]. gli avvenmenti non dipendono dall’arbitrio di un singolo, e neppure da quello di un gruppo anche numeroso: dipendono dalle volontà di molti [...]. Perché gli individui, nella loro maggioranza, compiono solo determinati atti? Perché essi non hanno altro fine sociale che la conservazione della propria integrità fisiologica e morale: così si adattano alle circostanze, ripetono meccanicamente alcuni gesti [...]. Solo il perseguire un fine maggiore corrode questo adattamento all’ambiente: se il fine umano non è più il puro vivere, ma il vivere qualificato, si compiono degli sforzi maggiori [...]. Gli individui escono dalla loro solitudine e si associano. Ma come avviene questo processo associativo? [...]Il filisteo non vede salvezza fuori degli schemi prestabiliti, non concepisce la storia che come un organismo naturale che attraversa momenti fissi e prevedibili di sviluppo [...] [i filistei] non concepiscono la storia come sviluppo libero - di energie libere, che nascono e si integrano liberamente - diverso dall’evoluzione naturale, come l’uomo e le associazioni umane sono diverse dalle molecole e dagli aggregati di molecole [...] Dalla massa, dal numero si doveva arrivare all’uno, in modo che esistesse una unità sociale, che l’autorità fosse solo autorità spirituale [..]. Il socialismo non si instaura a data fissa, ma è un continuo divenire, uno sviluppo infinito in regime di libertà organizzata e controllata dalla maggioranza dei cittadini, o dal proletariato” (Utopia, 25 luglio 1918, NM, pp. 204-212).

In questa strutturazione semantica, se compiamo un ulteriore scavo filologico, è facile avvertire l’influenza esercitata sul giovane Gramsci dal pensiero hegeliano e crociano[29] e dal pensiero vitalistico dei primi decenni del secolo. Nella dicotomia meccanico/organico si può scorgere in filigrana anche l’influenza determinante della filosofia di Henri Bergson[30], e soprattutto la filosofia di Herbert Spencer. Anzi, secondo la mia ipotesi, più che parlare di bergsonismo in Gramsci, si dovrebbe parlare di spencerismo[31] gramsciano, di una filosofia spenceriana corretta ed integrata da elementi crociani.

Spencer, in un libro molto suggestivo, The Study of  Sociology (1873), aveva esposto minutamente l’analogia che vi è fra una società e un organismo, dove i singoli individui corrispondevano alle cellule. Con ciò non voglio affatto dire che Gramsci sia stato un seguace di Spencer. A me ciò che interessa dimostrare non è tanto l’influenza che il pensiero spenceriano ha esercitato su quello gramsciano, quanto, invece, dimostrare come il “lessico biologico” del filosofo evoluzionista sia trapassato in quello gramsciano sino a costituire una sorta di paradigma di base. Dal punto di vista dei contenuti è chiaro che Gramsci è assai distante dal positivista Spencer, il quale concepiva l’evoluzione come una crescita naturale e spontanea, mentre Gramsci concepisce non l’evoluzione ma il divenire come un processo guidato dall’intelligenza e dalla volontà degli uomini. Il filosofo inglese acquista un’importanza strutturale nella sua terminologia gramsciana soltanto in riferimento all’acquisizione dei principi “evoluzionisti”[32] tra i quali possiamo segnalare:

1) evoluzione come concentramento (l’evoluzione sociale consiste soprattutto in ciò, che gli individui o dei gruppi di individui che prima erano dispersi si stringono gli uni agli altri):

Le grandi masse degli individui socialmente solitari, accostate, addensate in un piccolo spazio geografico, hanno sviluppato sentimenti nuovi, hanno sviluppato una solidarietà umana inaudita (NM, p. 208).

La concentrazione capitalistica, determinata dal modo di produzione, produce una corrispondente concentrazione di masse umane lavoratrici (ON, p. 127).

2) evoluzione come processo di differenziazione (l’evoluzione organica procede dall’omogeneo all’eterogeneo, cioè dall’indistinto al distinto):

La democrazia è la nostra peggior nemica [...] perché intorbida il limpido distacco delle classi (CT, p. 140);

“Il tono degli scritti e della propaganda deve però essere sempre un tantino superiore a questa media, perché ci sia uno stimolo al progresso intellettuale, perché almeno un certo numero di lavoratori esca dall’indistinto generico delle rimasticature da opuscoletti, e consolidi il suo spirito in una visione critica superiore della storia e del mondo in cui vive e lotta” (NM, p. 49);

Essere  vuol dire distinguersi, individuarsi. Ogni organismo sociale, storicamente e idealmente necessario, tende a una sempre maggiore chiarezza e concretezza dei suoi programmi, dei suoi metodi (Per una Nuova Internazionale, 8 dicembre 1918, CF, p. 473).

3) evoluzione come determinazione (Per distinguere l’evoluzione dalla dissoluzione si deve aggiungere che l’evoluzione rende possibile il passaggio da uno stato meno determinato e meno ordinato ad uno stato più determinato e più ordinato. L’evoluzione procede da un caos, le cui parti sono sparse ed omogenee, ad un tutto complesso le cui parti sono di specie diverse e stanno nello stesso in una data connessione reciproca):

Questo processo di distinzione porta con sé urti interni, discussioni, attriti; ma se nei componenti l’organismo il fine ultimo, da raggiungere in comune, prevale sui motivi occasionali di dissoluzione, e una disciplina viene accettata, è necessario sforzarsi di conservare la compagine sociale, è utile che la maggioranza, la quale ha fissato quella disciplina, non provochi, per impazienza e irrequietezza, una disgregazione che potrebbe essere letale per l’organismo intero e potrebbe ricondurre al caos e all’indistinto, dai quali con tanti sforzi si è usciti (Per una Nuova Internazionale, 8 dicembre 1918, CF, p. 473).

I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono instaurare l’ordine in sé (CF, p. 11).

Perché, dunque, un organismo sociale possa essere disciplinato intransigentemente è necessario che esso abbia una volontà (un fine) e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio (Intransigenza-tollerenza, intollerenza-transigenza, 11 dicembre 1917, CF, p. 478).

La borghesia è un momento di caos non solo nella produzione, ma anche nello spirito (NM, p. 45).

Anche se a livello cosciente Gramsci è sempre stato critico nei confronti del positivismo (cfr. Misteri della cultura e della poesia, in NM, pp. 348-351) e delle teorie evoluzioniste trasportate nei fatti sociali, tuttavia appare evidente come il linguaggio biologico di impronta positivista sia stato assimilato quasi “inavvertitamente” dal suo pensiero, sino a costituire il suo bagaglio terminologico, e una componente filosofica del suo modo di pensare così capillare da non poterla neanche documentare in ogni suo passaggio. Il lessico “biologico” si avvertirà persino nella riflessione matura. Perciò capire come funzionano questi paradigmi semantici serve non solo a gettare nuovi fasci di luce sul pensiero giovanile, ma soprattutto su quello della maturità. Per rendersi effettivamente conto di quanto perduri nel tempo questa terminologia, e quindi della continuità a livello lessicale tra il Gramsci giovanile e quello carcerario sarà sufficiente leggere le Note critiche su un tentativo di “Saggio popolare di sociologia” dedicate a Nikolaj Bucharin, contenute nel Quaderno 11, oppure le parole scritte nel Quaderno 13, Noterelle sulla politica del Machiavelli:

“Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumano i germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali”.

Addirittura per Gramsci il “meccanicismo vs. organicismo” diventa sia una posizione dell’essere (umano e sociale) che un modo di osservare i fatti e gli uomini. Potrei persino dire, in effetti, che per Gramsci esiste sia un “meccanicismo vs. organicismo” a livello ontologico[33] che a livello gnoseologico[34]. Si tratta di rovesciare ogni volta all’interno dei fattori umani e sociali le cause meccaniche in cause organiche, o storiche o “spirituali”.

Il meccanicismo è dunque anche una visione filosofica che si caratterizza per il fatto di cercare le cause del movimento e, quindi, dell’azione, sempre all’esterno del fenomeno osservato. Finché l’essere umano o sociale dipende o crede di dipendere da una causa meccanica, esterna, egli si porrà ancora in uno stadio “istintivo” o “animalesco”, cioè in uno stadio in cui non ha ancora compiuto quella “catarsi” che lo trasformerà da essere “meccanico” in un divenire spirituale. E il discorso non vale soltanto per il singolo individuo, ma per le società nel loro complesso. Il divenire delle civiltà, a diversi gradi, è un processo storico in cui gli uomini trasformano i fini della natura (cioè le cause esterne o meccaniche) in mezzi per fini superiori. In sostanza, questi paradigmi semantici possiamo riscontrarli ad ogni livello del testo gramsciano.

 

6. Vita vs. Morte, Organico vs. Meccanico, Socialismo vs. Capitalismo: questi termini dialettici si strutturano quindi nel pensiero giovanile di Gramsci (ma non solo) a qualsiasi livello di discorso. Possiamo rintracciare questi termini tanto nei cosiddetti “organismi sociali” quanto nei suoi “prodotti culturali”: tra gli uni e gli altri si stabilisce una stretta coesione e connessione. Una volta trovata la “formula” del pensiero gramsciano, non sarà difficile tradurre il linguaggio degli uni (degli “organismi sociali”) in quello degli altri (dei suoi “prodotti culturali”), e viceversa. Quindi, dal momento che tra gli uni e gli altri sussistano delle forti analogie, ecco perché allora possiamo parlare in Gramsci dell’attività teatrale (prodotto culturale) come allegoria della futura società socialista (organismo sociale), cosi come possiamo comprendere perché egli abbia privilegiato il teatro su tutte le altre varie forme artistiche.

Anche l’opera teatrale in ogni sua fase (ideazione, esecuzione, distribuzione e ricezione), configurandosi come allegoria della futura fabbrica dei produttori, può essere di tipo meccanico o organico. L’attività teatrale, come il problema della produzione in generale, possiamo divederla in diverse fasi: in primo luogo, abbiamo la fase della “ideazione” (o progettazione), ossia della produzione del testo drammatico; in secondo luogo, quella della sua “esecuzione”, o ciò che un tempo si chiamava “allestimento teatrale”, e che riguardava gli organici teatrali, dal “direttore di scena”, agli attori sino agli scenotecnici, ecc.; in terzo luogo, la fase della “distribuzione”, cioè di coloro che controllavano l’industria teatrale, i cosiddetti “impresari”. Non dobbiamo, infine, dimenticare il ruolo e la funzione del critico teatrale.

Ideazione, esecuzione, distribuzione: ognuna di queste fasi può essere organica o meccanica nelle singole parti così come nel loro insieme. Ad esempio, possiamo avere un testo drammatico organico, ma una esecuzione meccanica, o viceversa: tutto dipende da quale intenzionalità (estrinseca o intrinseca, interiore o esteriore) che in ciascun livello o fase di lavorazione si è mossi. Il critico, da parte sua, ha il compito di valutare il grado di “organicità” o di “meccanicità” che ognuna di questa fase ha raggiunto.

L’organicità ha come risvolto la socialità: sono direttamente proporzionali, perché solo un’opera esteticamente riuscita (organica) è in grado di scuotere dalle fondamenta l’inerzia, la passività, le abitudini e i pregiudizi che un uomo ha accumulato meccanicamente dall’ambiente sociale in cui si vive, perché solo un’opera d’arte organicamente riuscita è in grado di elevare un essere umano dalla necessità puramente meccanica alla libertà “interiore”, e quindi di elevarre alla sua dignità, di farlo sentire partecipe di una socialità più vasta, più grande di quella in cui è sempre vissuto. L’arte è un’attività disinteressata, senza alcuna finalità immediata, e in ragione di ciò solo l’arte può trasformare l’animalità dell’uomo, sublimare i suoi istinti in qualcosa di spirituale[35]. Secondo la nostra ipotesi, maggiore è il grado di organicità maggiore sarà il grado di socialità così come maggiore è il grado di organizzazione sociale maggiore sarà anche quello di socialità tra gli uomini[36]: organicità e socialità sono direttamente proporzionali e hanno come elementi antitetici l’aggregato meccanico e la massa amorfa.

Gli spettatori che frequentavano i primi “cinematografi lussuosi” erano, secondo Gramsci, le stesse persone che prima venivano attratte dagli spettacoli teatrali più triviali, intessuti di “fatti esteriori”, “vuoti di ogni contenuto umano”, con delle “marionette parlanti” che si agitavano variamente, “senza mai attingere una verità psicologica, senza mai riuscire ad imporre alla fantasia ricreatrice dell’ascoltatore un carattere, delle passioni realmente sentite ed espresse adeguatamente” (CT, p. 802). In queste produzioni “si cerca, e nient’altro, di creare nel pubblico l’illusione di una vita esteriormente diversa da quella solita di tutti” (CT, pp. 802-803). Inoltre, queste produzioni rispondono al bisogno di gran parte del pubblico di divertirsi “con una pura e semplice distrazione visiva”. Quindi, il pubblico che frequentava tali spettacoli “volgari” nella terminologia gramsciana formava un aggregato[37] e non era certo espressione di una socialità. La socialità, così come è intesa da  Gramsci, non è mai la somma numerica di elementi esteriormente aggregati, bensì è l’unità di elementi associati organicamente[38].

Il discorso cambia quando si trattava di un numero di uomini che assisteva ad una rappresentazione teatrale perché spinto dal bisogno di arricchimento interiore, quindi da un bisogno “spirituale”. In questo caso, il pubblico non era più un’accozzaglia di persone, ma costituiva una “unità spirituale”. Quindi, lo spettacolo teatrale può soddisfare sia i bisogni (esteriori) di un pubblico inteso come aggregato meccanico, sia i bisogni (interiori) di un pubblico organico. Nelle circostanze storiche è utile aggiungere che per Gramsci il pubblico ideale era personificato dalla classe operaia.

Quando prevalgono ragioni esteriori, occasionali, superficiali, abitudinarie[39], o dettate dalla pura esigenza naturale (come altrettanto elementare è il bisogno di divertirsi, di distrarsi, di ricostituire le proprie energie fisiche), allora avremo un’aggregazione meccanica, un’“accozzaglia”, un “aggregato”. Quando, invece, prevalgono ragioni profonde, interiori, realmente sentite, o puramente “estetiche”, allora avremo un’associazione organica, una “compagine”, una “collettività”.

Anche nei cosiddetti “organismi viventi”, quando vengono  a mancare le ragioni interiori che un tempo legavano i membri di una società in modo organico, i rapporti umani si riducono a pura esteriorità, diventano cioè rapporti meccanici. Il vecchio organismo sociale perde completamente le ragioni che prima lo tenevano unito, e comincia a degradarsi sino a diventare un semplice aggregato meccanico.

Nel momento storico in cui redigeva le sue cronache teatrali, Gramsci credeva di vivere un momento di dissoluzione della società borghese e di “rinascita” dello spirito:

Il periodo di storia che attraversiamo è rivoluzionario perché i tradizionali istituti di governo delle masse umane, che erano legati ai vecchi modi di produzione e di scambio, hanno perduto ogni significato e ogni funzione utile. Il centro di gravitazione di tutta la società si è spostato in un nuovo campo: le istituzioni sono rimaste mera esteriorità, pura forma, senza sostanza storica, senza spirito animatore” (L’Unità proletaria, 28 febbraio 1920, ON, pp. 439-440; corsivo mio).

Negli articoli di Gramsci, scritti tra il 1915 e il 1920, possiamo rintracciare tutte le metafore che avvicinano il significato della società borghese a quello di cadavere (aggregato di atomi privi di vita):

Civiltà esteriore, che ha per base il lavoro, ma degli altri. Si formano necessariamente queste schiume putride, senza fini, senza morale, senza storia. Cosa è la vita per tanti? Animalità corporea, godimento dei sensi, meccanicità nervosa e muscolare (NM, p. 43).

La decomposizione della forma sociale accelera il suo ritmo [...]; la società si polverizza per lo sfacelo di tutti i nessi psicologici che la tenevano in piedi (NM, p. 613).

Nello stadio attuale la classe capitalista è rappresentata da un ceto... d’avanguardia, la plutocrazia; la linea di sviluppo storico della classe capitalista è un processo di corruzione, un processo di decomposizione” (ON, p. 432).

Ad accelerare questo processo di dissoluzione delle forme borghesi, secondo Gramsci, era stato la guerra, la quale obbligava gli uomini a riflettere “sul così detto mistero della vita” (CT, p. 174). Le parti, che un tempo costituivano organicamente la società borghese, cominciavano a disgregarsi. Secondo la valutazione gramsciana, la forma di vita e il modo in cui era organizzata la produzione e la distribuzione della ricchezza erano entrati in crisi, erano cioè entrati in una fase di “decomposizione”. La classe sociale dominante, in rapida fase di decadimento, era preoccupata soltanto della mera sopravvivenza e del puro divertimento. Il ritratto moralistico di una borghesia preweimeriana, degna dei pennelli di un Dix o di un Grosz, che Gramsci fa merita davvero d’essere citato:

Le funzioni tradizionali della classe capitalista nel campo della produzione sono passate nelle mani di un medio ceto irresponsabile, senza vincoli né di interessi né psicologici con la produzione stessa: burocratici del tipo “impiegati dello Stato” venali, avidi, corrotti, agenti di borsa, politicanti senza arte né parte, gentarella che vive alla giornata, saziando bassi desideri e proponendosi scopi ideali adeguati alla sua psicologia crapulona: possedere molte donne, avere molti quattrini da spendere nelle alcove delle prostitute d’alto rango, dei bal tabarin e nello sfarzo vistoso e grossolano, avere una particella del potere di tormentare e far soffrire altri uomini sottoposti (La Settimana politica [XVIII], 21 febbraio 1920, ON, p. 432).

Nel marasma generale, gli uomini regrediscono allo stadio ferino: i suoi interessi sono improntati all’utile immediato, e abbassati a pura bestialità. A trionfare in questo stato di cose è l’individualismo, cioè lo stile di vita conforme alla concezione di vita borghese, ossia l’esaltazione esasperata del proprio io, la valutazione esteriore del proprio Sé. Anche sul piano sociale i rapporti tra gli uomini non potevano che essere inautentici, falsi, del tutto esteriori, cioè meccanici. La produzione industriale, anziché essere al servizio dell’umanità, viene degradata a mezzo di distruzione, anziché essere un mezzo per accrescere il benessere dell’umanità, diventa un mezzo per incatenare l’uomo alla sua potenza. In questa forma di vita non è la macchina ad essere al servizio dell’uomo, ma viceversa: si tratta, in altri termini, del rovesciamento di tutti i valori.

Quel che accadeva nella società in generale, accadeva anche nell’industria teatrale. Anche quest’ultima ormai era guidata da questi “dis/valori”: si favoriva la depravazione del gusto, la decadenza dei costumi, la dissoluzione artistica, la volgarità. Il teatro cadeva in mani di gente senza scrupoli, che aveva come unico scopo il guadagno, quindi veniva diretto da una ragione estrinseca alla sua esistenza[40]. Anche nell’industria teatrale si ricreavano gli stessi criteri che guidavano la produzione industriale in generale, riproducendone gli identici effetti deleteri. La commercializzazione dell’opera teatrale comportava una sostituzione di valori, per cui alle “leggi della bellezza” subentrava il primato del guadagno:

Il teatro, come organizzazione pratica di uomini e di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire del maelström capitalistico. Ma l’organizzazione pratica del teatro è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si può turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo, senza sterilire l’organo “linguistico” della rappresentazione teatrale (ON, 818).

La vita teatrale, a seconda dei criteri che vi predominavano, era sia allegoria della società borghese che di quella futura: ecco perché Gramsci si batteva per vedere trionfare nell’attività teatrale alcuni criteri criticandone severamente e inflessibilmente altri. Il lavoro umano finalizzato al profitto diventava specchio delle condizioni di vita vigenti, ma il lavoro umano finalizzato all’accrescimento delle facoltà spirituali era un’allegoria della futura società socialista. 

 

7. Arrivati a questo punto si comprende perché il giudizio estetico-letterario e quello politico in Gramsci non sono disgiungibili, anche se sono autonomi nella loro formulazione. Per Gramsci valutare esteticamente un’opera drammatica o un uno spettacolo teatrale significa valutare, allo stesso tempo, anche il tipo di socialità che l’opera riesce a raccogliere. Il giudizio estetico ha il suo correlato politico. L’opera è perfettamente riuscita quando l’autore, lasciandosi guidare da criteri puramente intrinseci alla composizione, è riuscito ad organizzare tutti gli elementi che la compongono in una sintesi superiore. L’opera esteticamente riuscita lo è anche politicamente, in quanto ha saputo corrispondere perfettamente al bisogno di nutrire la “spiritualità” umana. Nella valutazione puramente estetica di un’opera drammatica, Gramsci si lascia intenzionalmente guidare dal suo grado di organicità, mentre nella valutazione politica si lascia guidare dal tipo di socialità (meccanica o organica) che l’opera riesce a realizzare. Quanto più un’opera drammatica è organica, in ogni sua fase, tanto più diversa sarà il tipo di socialità che riuscirà ad esprimere.

Anche uno spettacolo teatrale nel suo insieme poteva essere organico o meccanico, tutto dipendeva da quali scelte intenzionali era agito. Se nelle sue scelte, l’autore, la compagnia degli attori o l’industria teatrale si lasciavano guidare dall’intenzione di soddisfare le esigenze di un pubblico “meccanico”, amorfo, passivo, inerte, ecc. allora il testo, la messinscena, quindi l’evento teatrale erano esteticamente privi di qualità e di conseguenza esprimevano una bassa forma di socialità. Invece, quando si voleva soddisfare i gusti di un pubblico omogeneo, non guidato, come nell’altro caso da motivi esteriori, di svago, di distrazione, o di puro e semplice intrattenimento, allora la qualità estetica dell’offerta poteva accrescere il suo valore.

Si tratta allora di capire quali sono secondo Gramsci i caratteri specifici che identificano un’opera o uno spettacolo in senso organico o meccanico e di conseguenza che riesce ad esprimere il suo grado di socialità. Non è difficile intuire che in questa connessione tra valutazione estetica e giudizio politico vi sia già in nuce il punto di superamento dell’unità dei distinti della filosofia crociana: il giudizio estetico e il giudizio politico o economico non appartengono a sfere distinte dello spirito, ma l’uno può convertirsi nell’altro, o, come dirà in seguito lo stesso Gramsci, il linguaggio dell’uno può tradursi in quello dell’altro. Nel passaggio dall’uno all’altro si compie ciò che Gramsci definirà nei Quaderni “catarsi”, “il passaggio dal momento meramente economico al momento etico-politico, cioè l’elaborazione della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini” (Q., 1244).

La valutazione critica sull’organicità o disorganicità dell’opera, e il giudizio sulla sua capacità di esprimere un maggiore o minore grado di socialità sono per Gramsci giudizi complementari. In sostanza, voglio dire che Gramsci nel valutare una rappresentazione scenica in ogni sua fase si lasciava intenzionalmente guidare dal grado di organicità che essa ha realizzato. L’“organicità” è effettivamente la categoria estetica con la quale Gramsci valuta un’opera d’arte e la sua realizzazione. Pertanto, secondo il mio parere, viene a cadere il pregiudizio secondo il quale negli scritti di Gramsci manca “una definizione specifica (o “categoriale”) dell’arte, della poesia, della letteratura”[41]. L’opera drammatica, nella sua traduzione teatrale, svolge un’incisiva azione estetico-educativa solo quando raggiunge il vertice della sua bellezza creativa.

Parlando della bellezza della poesia, in un articolo dedicato alla morte di Renato Serra, il giovane uomo politico e critico teatrale ci dice esplicitamente cosa egli intendesse quando parla di godimento estetico:

La nostra umanità è tutta tesa al bello e solo questo sente. La presa di possesso è rapida, immediata. È un uomo che si avvicina ad un altro uomo e lo sente rivivere in sé come tale e poi come creatore di bellezza. La parola non è più elemento grammaticale, da casellare in regole e in ischemi libreschi[42]; è un suono, è una nota di un periodo musicale che si snoda, si riprende,  si amplia in volute leggere, aeree che ci conquistano lo spirito e lo fanno vibrare all’unisono con quello dell’autore. Le immagini vivono una loro vita propria, stimolano le nostre facoltà creative, agitano tutto il mondo delle nostre esperienze, destano echi lontani di cose passate che si rinnovano e si affermano vigorose nell’atto del nostro leggere. Noi vibriamo in tutte le fibre del nostro essere, ci sentiamo purificati da questa fusione con un altro essere che ci ha scossi, che ci ha fatto partecipare alla sua vita, che ci ha dato l’illusione di essere noi i creatori di quelle armonie, tanto le sentiamo nostre, e sentiamo che mai più cesseranno di far parte del nostro spirito [...] Quanti veli sono caduti, quanti idoli infranti, quanti valori rovesciati (La luce che si è spenta, 20 novembre 1915, CT, pp. 24-25).

Il vero godimento estetico si attua allora quando tra il poeta e il lettore si crea una comunione spirituale. In questa comunione, lo spirito del lettore è creatore egli stesso di poesia. Solo quando nel suo spirito rivivono attivamente le immagini poetiche, senza essere assorbite passivamente, il suo “senso comune”, stratificatosi per inerzia secolare, viene radicalmente rimosso: i pregiudizi, le abitudini subiscono un processo di smottamento.

Ecco perché Gramsci, al di là delle palesi influenze crociane, nel suo discorso estetico sposti subito l’attenzione dalla poesia al lettore; ed è proprio in questo spostamento che si precisa meglio la funzione “politica” che Gramsci assegna all’arte e al teatro[43]. Il teatro costituisce per Gramsci, in ogni sua fase, il modello perfetto del buon funzionamento della vita produttiva. Per le sue intrinseche qualità, anche la rappresentazione scenica diventa il modello integrale per educare esteticamente le masse lavoratrici a pensare in modo organico, in quanto solo l’opera drammatica sa realizzare plasticamente l’armonica sintesi tra pensiero, parola e azione.

Per prima cosa, secondo il nostro critico, occorreva comprendere da quali intenzionalità l’autore del testo drammatico si fosse lasciato guidare: dalla voglia di raggiungere un successo immediato, dal desiderio di colpire, di sorprendere o, invece, da una ragione intrinseca all’opera stessa? Recensendo La falena di Bataille, Gramsci condivide l’accoglienza fredda del pubblico, perché l’autore ha costruito tre atti “lunghi”, “pesanti”, “completamente sul dialogo”, senza creare una “psicologia d’eccezione” che si incarni “in una creatura viva” (13 gennaio 1916, CT, p. 740). In Paolo e Virginia  a Gramsci tutto appare “artificioso, voluto, riflesso”: “Nessun abbandono dell’autore verso le creature della sua fantasia che le renda indipendenti, libere, vive di attività propria, ma invece la sensazione implacabile della preoccupazione del successo, dello sforzo celebrale, e senza possibilità di uno sbocco nell’azione” (23 gennaio 1916, CT, p. 745). “Teatro dell’insincerità”[44], dunque, o della sincerità, che in Gramsci possono essere anche categorie morali, che hanno però un risvolto evidente sul piano estetico, in quanto l’uno o l’altro atteggiamento può pregiudicare il risultato dell’opera teatrale. I testi teatrali sono valutati negativamente da Gramsci perché mancano di organicità: Robespierre di Sardou[45]; Le campane a gloria di Giocondo Fino[46]; L’amante lontano di Roberto Bracco[47]; ecc. Sincerità o insincerità: possiamo a questo punto anche tradurle in atteggiamento meccanico (esteriore) o organico (interiore): “È proprio l’insincerità, la manìa letteraria che impedisce a molti di far qualcosa di buono, anche nei limiti più modesti” (“Il poeta e la signorina” di Berrini, 13 febbraio 1916, CT, pp. 757-758). Nel primo caso è evidente che l’autore nell’elaborare il testo si è lasciato intenzionalmente guidare da criteri esterni alla composizione dell’opera. Pertanto, anche le parole, le azioni, così come i personaggi che li debbono incarnare non possono che essere falsi, come falsi sono i loro autori.

Come si vede, da qualsiasi punto partiamo incappiamo sempre in quei “paradigmi” antinomici, strutturati nella riflessione di Gramsci, che sembrano segnare il ritmo del suo pensiero. Credo che da quanto abbiamo detto sinora sia ormai evidente da quale la radice prende corpo la profonda coerenza testuale degli articoli di Gramsci. A questo punto possiamo anche capire perché Gramsci talvolta si mostrò piuttosto critico nei confronti della drammaturgia contemporanea di quegli anni. Non è certo perché, come ha creduto superficialmente Antonucci, Gramsci considerasse quella drammaturgia “in blocco espressione appunto della ideologia borghese”[48]: il cosiddetto “contenunismo”, il voler privilegiare ad ogni costo il contenuto sulla forma è soltanto un’invenzione di quei critici che si sono occupati di Gramsci in modo superficiale. L’elemento ideologico in Gramsci non pregiudica mai il giudizio del critico teatrale. Il teatro didascalico o retorico a Gramsci non è mai piaciuto, basta leggere la critica severa alla commedia di un giovane e “promettente” autore socialista, Carlo Villauri, che voleva “portare nel teatro la vita pratica di relazione, con la passione dei problemi politici ed economici”[49].

Gramsci non puntava affatto sul contenuto ideologico per esercitare una efficace e concreta azione pedagogica, e non credeva affatto che il teatro dovesse farsi veicolo di diffusione delle idee socialiste: era l’intera organizzazione del teatro, in ogni sua fase, ad essere allegoria dei rapporti borghesi o di quelli della classe dei produttori,. E questa allegoria aveva la sua origine nella fase di creazione del testo teatrale, che, come una partitura orchestrale o come un piano di lavoro, distribuiva ad ognuno il proprio ruolo. Era in base alla sua interna armonia che ogni componente aveva la sua parte: dal capocomico agli attori, tutti partecipavano coralmente alla perfetta esecuzione della rappresentazione.

Gramsci dunque privilegiava nella società come nell’attività teatrale la coralità di intenti, l’organicità degli elementi sulla disarmonia delle parti. Ma proprio questa ricerca continua dell’armonia se per un verso segna la novità maggiore nell’attività critica di Gramsci, dall’altro costituisce indubbiamente il suo limite, in quanto gli ha impedito di scorgere il dramma individuale ed esistenziale che cominciava a farsi strada nella società di massa all’inizio del secolo. Guerra ha parlato di “inaspettata insensibilità”[50]. Ma, forse, più che di “inaspettata insensibilità” si potrebbe parlare di istanze non conciliabili tra la concezione teatrale di Gramsci e le moderne problematiche che cominciavano ad affiorare e ad affermarsi con sempre maggior virulenza nell’immediato dopoguerra. Se Gramsci giudicò severamente la produzione teatrale dei suoi giorni era perché, secondo i suoi criteri, quella produzione risultava “disorganica”, e se era tale era perché gli intellettuali borghesi, produttori di quei testi, non esprimevano più una concezione organica della vita: erano intellettuali che avevano perso con la vita reale ogni contatto, che non erano più capaci di seguire criteri puramente estetici e che nei loro lavori si lasciavano guidare da ragioni esterne, dal mito del successo, da valori effimeri e transeunti, ecc.

Si potrebbe obiettare che tutto sommato era sempre l’elemento ideologico a prevalere nella sua valutazione. In realtà, come abbiamo detto l’elemento ideologico era estraneo alla valutazione estetica del dramma. Gramsci valutava “ideologicamente” un testo, ma per comprendere sino a che punto la concezione dell’autore fosse “organica” alla classe sociale che la esprimeva, fino a che punto fosse coerente con essa. Quindi anche quando un autore si allontanava da essa per abbracciare “meccanicamente” una diversa concezione, fosse anche quella socialista, senza però capire e penetrare i principi che la sostenevano, risultava lo stesso nel suo giudizio falso e insincero.

Ma occorre aggiungere a tutto ciò il fatto che Gramsci negli anni in cui scriveva era profondamente convinto “che la cultura borghese e le sue forme artistiche e letterarie, esaurita ormai la loro funzione reale, sopravvivessero solo grazie al monopolio culturale della borghesia che ne riproponeva le ultime stanche imitazioni”[51]. Il giudizio estetico che Gramsci dava sulle commedie borghesi era senza dubbio anche un giudizio politico, ma non nel senso banale in cui è stato inteso. Per Gramsci la mancanza di organicità dell’opera drammatica si traduceva in mancanza di coralità, e in questo senso, a suo parere veniva a mancare l’elemento stesso della socialità dell’arte. Ma ciò era soltanto il risultato di una società putrescente.

Gramsci credeva che la fine del conflitto mondiale fosse solo il preludio di una nuova epoca, l’annunzio di una nuova era: il teatro dei produttori era pronto ad essere una realtà concreta, perciò Gramsci privilegiava un certo tipo di teatro, inteso come luogo di armonia, e un certo tipo di letteratura drammatica, più consono ad esprimere l’armonia delle parti. Le ansie e le inquietudini dell’individuo, di cui, con diverse modulazioni, alcuni drammaturghi si facevano interpreti coscienti e, allo stesso tempo, partecipi, sembravano a Gramsci più tentativi di evasione dai reali problemi sociali; e, in coerenza con i suoi assunti politici, Gramsci di queste testimonianze coglieva o, quantomeno, valutava più l’istanza “sociale” che non quella “individuale”.



[1] Le opere di Gramsci saranno citate con le seguenti abbreviazioni: [CT], Cronache torinesi (1913-1917), a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1980; [CF], La Città futura (1917-1918), a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1982; [NM], Il nostro Marx (1918-1919), a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1984; [ON], L’Ordine Nuovo (1919-1920), a cura di Valentino Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1987; [Q], Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 1975.

[2] Marina Paladini Musitelli, Introduzione a Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 3-4.

[3] Cfr. la bibliografia curata da John M. Cammet, Bibliografia gramsciana 1922-1988, prefazione di Nicola Badaloni, Roma, Editori Riuniti - Fondazione Istituto Gramsci, 1991; e Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, a cura di John M. Cammett e Maria Righi, Roma, Fondazione Istituto Gramsci, 1995. I contributi critici italiani e stranieri su Gramsci hanno raggiunto quasi ottomila titoli.

[4] Tullio De Mauro, Vicende linguistiche e teatro del Novecento, in L’Italia delle Italie, Roma, Editori riuniti, 1987, p. 47.

[5] Tra quest’ultimi, segnalo anch’io quello Gian Carlo Ferretti, Sulle cronache teatrali di Gramsci, in “Società”, II (1958), pp. 287-303; Nikša Stipcevic, Gramsci e i problemi letterari, Milano, Mursia, 1968; quello ormai “classico” di Guido Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Einaudi, Torino 1972; Edo Bellingeri, Dall’intellettuale al politico. Le cronache teatrali di Gramsci, Bari, Dedalo, 1975; Franca Angelini, Il teatro del Novecento. Dal grottesco a Dario Fo, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta Carlo Muscetta, vol. IX, Il Novecento. Dal decadentismo alla crisi dei modelli, t. I, Bari, Laterza, 1976, pp. 445-506. Tra i contributi più recenti, oltre a quelli che citerò più avanti, segnalo Maurice A. Finocchiaro, Gramsci critico e la critica, Roma, Editore Armando, 1988.

[6] Giovanni Antonucci, Storia della critica teatrale, Roma, Edizioni Studium, 1990, p. 115.

[7] “Gramsci esemplificava, nella maniera più evidente, i limiti di una critica refrattaria al fatto teatrale per una pregiudiziale politico-ideologica che la rifiuta programmaticamente” (Giorgio Pullini, La critica militante nel teatro italiano del primo Novecento, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, Liviana, 1970, vol. II, pp. 351-354).

[8] Antonucci, Storia della critica teatrale, cit., p. 116.

[9] Ivi, pp. 104 e 243. Quando un critico dimostra tanto astio nei confronti di un autore nasce spontaneo il sospetto che dietro ci sia un’antipatia politica o ideologica. A conferma di ciò aggiungo che Antonucci, in un altro pagina, ha modo di ricordare l’atteggiamento “aperto” e “disponibile” di Gobetti, “meno strumentale di Gramsci” (Ivi, p. 130). Un tempo si faceva carriera nelle redazioni dei giornali o nelle aule accademiche scrivendo articoli o saggi celebrativi su Gramsci; evidentemente, oggi i tempi sono cambiati! Sembra, infatti, che il vezzo di tanti “intellettuali” italiani di essere apologeti o iconoclasti, soprattutto quando gira il vento della politica, non sia stato sradicato. Essere sì di parte, come insegnava Gramsci, ma serbare la propria onestà di studioso pare un esercizio difficile da praticare. Inoltre, noto che tutta l’attività di Gramsci critico teatrale nelle pagine di Antonucci è ridotta alla sola drammaturgìa. e è il caso di riflettere su queste parole ancora attuali di Alberto Asor Rosa: “Ad una fase di eccessiva fortuna [...], ha fatto seguito una fase di sicuramente esagerata eclissi, che è ancora in corso” (Il Principe e i poveri, in “La Repubblica”, 11 aprile 1987).

[10] Una descrizione spietata della critica teatrale nei primi anni del Novecento è offerta da Silvio D’Amico, Domenico Oliva. Nel primo anniversario della morte, in “L’Idea Nazionale”, 16 novembre 1918; ora in La vita del teatro. Cronache, polemiche e note varie (1914-1921), a cura di Alessandro D’Amico, Roma, Bulzoni, 1994, p. 92.

[11] Il critico cattolico Silvio D’Amico, ad esempio, tentava di ricondurre il Teatro in Chiesa. Era la frase di Eleonora Duse con la quale il critico chiudeva il saggio L’Attore e la Grazia: “Il Teatro è nato in Chiesa, io vorrei ricondurvelo” (Silvio D’Amico, in Tramonto del grande attore, Firenze, La Casa USHER, 1985 [1929] ), p. 174.

[12] Angelini, Il teatro del Novecento. Dal grottesco a Dario Fo, op. cit., pp. 99-100.

[13] Antonio Gramsci-Tatiana Schucht, Lettere. 1926-1935, a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele, Torino, Einaudi, 1977, pp. 61-62.

[14] Questa condizione ci ricorda, per alcuni versi, quella vissuta da Machiavelli. Anche lo scrittore fiorentino scrisse il Principe in un momento di inattività politica. Entrambi gli scrittori politici, resi inoperosi da circostanze esterne alla loro volontà, scrissero per lasciare un segno più incisivo del loro pensiero.

[15] Mi riferisco in particolare alla lettera del 24 luglio 1933: “Ero persuaso di morire e cercavo di dimostrare l’inutilità della religione e la sua inanità [...] Pare che una intera notte ho parlato di immortalità dell’anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie e come un incorporarsi di esse, al di fuori della nostra volontà, al processo storico universale”.

[16] Piero Sraffa, Lettere a Tania per Gramsci, Introduzione e cura di Valentino Gerratana, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 23.

[17] Cfr. 2000 pagine di Gramsci, vol. II, Lettere edite e inedite, a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Milano 1964, pp. 40-41.  

[18] Perciò Gramsci “era contrario a raccogliere  in volume i propri articoli, perché in tal modo essi avrebbero avuto soltanto la forma esteriore del libro, mantenendo tutti i caratteri di occasionalità e contingenza con cui erano stati pubblicati in origine” (Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937. Guida al pensiero e agli scritti, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 23).

[19] “La sua [di Gramsci] critica teatrale in atto si discosta nettamente da quella di Croce (e dei crociani), ferma alla lettura “letteraria” o, diremo con Luigi Russo, “lirica” dei singoli testi; e investe, invece, una molteplicità di elementi, e precisamente l’autore, la sua ideologia, la sua posizione politica, sociale e di “classe”, l’opera come testo letterario e artistico e insieme come spettacolo e realizzazione scenica (capocomico o regista, attori, compagnia); la reazione del pubblico e la definizione sociologica di questo; ed eventualmente le connesse questioni d’industria culturale, o il rapporto tra programmazione teatrale da parte degli impresari e le diverse opere rappresentate” (Bruno Maier e Paolo Semana, Antonio Gramsci. Introduzione e guida allo studio dell’opera gramsciana. Storia e antologia della critica, Firenze, Le Monnier, 19822, p. 155).

[20] Bonino, Guido, Gramsci e il teatro, cit., p. 138.

[21] Maier e Semana, Antonio Gramsci, cti., p. 161.

[22] Nella retorica, l’allegoria è correntemente intesa come metafora prolungata, che raffigura una realtà astratta nascondendola sotto immagini particolari o sotto un vero e proprio sistema di immagini. Mentre nel simbolo si dà un legame intimo e inestricabile tra ciò che è significato e la figura che lo significa, nell’allegoria i due piani restano separati. Le immagini allegoriche possono costruire vere e proprie narrazioni autonome, che nascondono un senso astratto da esse indipendente, che si può decifrare solo quando se ne possegga la chiave e si sappiano riconoscere i principî su cui l’allegoria è costruita. Cfr. Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1961 [1923]; Gian Paolo Caprettini, Allegoria, in Enciclopedia Einaudi, vol. I, Torino, Einaudi, 1977; Romano Luperini, L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990.

[23] Precisiamo che l’analogia tra l’“industria teatrale” e la “fabbrica dei produttori” non è mai stata direttamente posta dallo stesso Gramsci. Con ciò voglio dire che sebbene egli non abbia pensato a porre esplicitamente questa analogia, tuttavia, come documenteremo analiticamente, quando si passa da un ambito all’altro essa appare evidente in ogni particolare. Preciso ciò perché non vorrei “sollecitare testi”, far dire cioè “ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono” (Q, p. 838), pratica ritenuta dallo stesso Gramsci deprecabile.

[24] Davico Bonino, Gramsci e il teatro, cit., pp. 14-15.

[25] Non dobbiamo dimenticare che questa teoria dell’inferiorità del cinema rispetto al teatro si sono formate in un periodo in cui il cinema era ancora muto: al teatro la parola, al cinema l’immagine. Gramsci, in seguito “nei Quaderni avrebbe colto, almeno in parte, l’importanza del cinema, collegandolo con la letteratura popolare [Q, pp. 1812 e 2122], rilevando il peso delle didascalie del muto e, in seguito, del parlato sulla creazione del gusto e del linguaggio melodrammatico [ivi, 1676] e vedendolo come espressione di una onda “sentimentale e passionale”” (Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 16-17. Insistere nella distinzione, anche dopo la comparsa il cinema sonoro, significava trasformarla da “tecnica” qual’era in “idealistico-estetica” (cfr. Gian Renzo Morteo, Idea della regia teatrale in Italia dal 1920 al 1940, Torino, Giappichelli Editore, 1974, p. 93). Questo articolo sul cinema costituisce anche un primo contributo di riflessione sulla nascente industria di divertimento di massa.

[26] Edoardo Sanguineti, Cronista teatrale: Pirandello lancia bombe nei cervelli, in AA.VV., Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Roma, Editrice l’Unità, 1987, p. 157. Che il cinematografo potesse avere degli effetti benefici su teatro, aumentandone la qualità estetica, era un’idea condivisa anche da Lukács, il quale in un articolo del 1913 aveva scritto: “Potrebbe accadere - parlo qui di una mèta forse molto lontana e che tuttavia risponde alle aspirazioni più profonde di tutti coloro cui il dramma sta veramente a cuore - che questa concorrenza colpisca a morte la letteratura teatrale puramente ricreativa. In questo caso, il teatro verrebbe costretto ancora una volta a coltivare quella che è la sua vocazione autentica: la grande tragedia e la grande commedia” (György Lukács, Riflessioni per una estetica del cinema (1913), in Scritti di sociologia della letteratura, Premessa di Peter Ludz e traduzione di Giovanni Piana, Milano, Mondadori, 1976, p. 27)

[27] Uno studio storico-semantico sugli scritti giovanili di Gramsci è stato tentato tempo fa dal sacerdote Franco Pierini, Gramsci e la storiologia della rivoluzione (1914-1920). Studio storico-semantico, Roma, Edizioni Paoline, 1978. Peccato che tutto l’apparato concettuale elaborato dallo studioso sia stato utilizzato al fine di dimostrare che “la mancanza di una filosofia dell’essere” ha compromesso in Gramsci “sia la metodologia della ricerca, sia il possesso di solidi fondamenti speculativi e pratici, sia la fondazione stessa della fede” (ivi, p. 463)! Atteggiamento tipico di alcuni studiosi che non comprendono che i problemi della fede e della trascendenza possono essere analizzati anche da un altro angolo visuale diverso dal proprio.

[28] “Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia [...] L’indifferenza opera potentemente nella storia, opera passivamente ma opera. È la fatalità” (Indifferenti, 11 febbaio 1917, CF, p. 13).

[29] Ricordiamo che il filosofo napoletano rappresentava per Gramsci “il più grande pensatore d’Europa in questo momento” (Due inviti alla meditazione, 11 febbraio 1917, CF, p. 21). Croce, nella sua Logica (prima edizione 1905), dopo avere dato varie definizione del significato del termine “natura”, scriveva: “Natura, in questo quarta significato, è contrapposto a civiltà e umanità, ripartendosi l’unica realtà in due ordini di enti, gli enti naturali e gli enti umani (i quali si chiamano anche talvolta spirituali rispetto ai primi, che sarebbero materiali). La qualità affatto pratica di tale distinzione si avverte subito nella impossibilità di tracciare confini chiari e rigorosi tra civiltà e naturalità, umanità e animalità [...] E se organiche non sono quelle che si chiamano cose, una montagna, per esempio, o una zappa, gli è che non sono individui reali, ma aggregati, ossia concetti empirici; come organica per l’appunto non è una foresta, benché composta di vegetali, né una folla, benché composta di uomini”[29]. In una pagina precedente, il filosofo aveva scritto: “Tutta la filosofia che andiamo svolgendo comprova che nulla vi ha di esterno allo spirito, e perciò che non vi sono di fronte ad esso “posizioni” di sorta; e che i concetti stessi di mondo esterno, meccanico o naturale non sono già posizioni dall’esterno, ma posizioni dello spirito stesso, che foggia quel cosiddetto “esterno”, perché gli giova foggiarlo, salvo a riannullarlo quando non gli giova più” (Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1971, p. 205 e p. 104). Gramsci però, a differenza di Croce, è più propenso ad accentuare la tensione e la drammaticità che si creano all’interno di questi paradigma, cioè a spostare l’accento più sul momento della lotta e non, come Croce, su quello della sintesi o composizione. Non dobbiamo dimenticare che per Gramsci il socialismo rappresenta “uno Stato in potenza, che va maturando, antagonista dello Stato borghese, che cerca, nella lotta diuturna con questo ultimo e nello sviluppo della dialettica interiore, di crearsi gli organi per superarlo e assorbirlo” (Neutralità attiva e operante, 31 ottobre 1915, CT, 10).

[30] Cfr. Leonardo Paggi, Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 351 e sgg.). Sul bergsonismo di Gramsci cfr. Roberto Paris, Gramsci e la crisi teorica del 1923, in AA.VV., Gramsci e la cultura contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, a cura di Pietro Rossi, II, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 29-44: “Quanto a Gramsci, propenderei per la seguente ipotesi: durante un primo periodo (Scritti giovanili e Ordine Nuovo), Croce gli darebbe soprattutto delle risposte ai problemi della cultura e del mondo così com’è, mentre lo spazio del movimento operaio e delle istanze trasformatrici è, al contrario, occupato dalla coppia Sorel-Bergson. Il periodo della maturità, i Quaderni del carcere, sarebbe contrassegnato al contrario da un vero “ritorno a Croce”” (ivi, p. 31). In generale sul problema cfr. Edo Bellingeri, La cultura francese nella formazione di Gramsci, in “Micromégas”, n. 1, gennaio 1975, p. 65 e sgg.; e Giancarlo Bergami, Il giovane Gramsci e il marxismo 1911-1918, Milano, Feltrinelli, 1977.

[31] Le poche volte che Gramsci cita Spencer negli articoli giovanili non lo fa mai in termini lusinghieri. Nell’articolo  Il nostro Marx, 4 maggio 1918 (NM, pp. 3-7), Gramsci riecheggia il brano di Antonio Labriola sul “significato della biografia dei così detti uomini grandi”, nel saggio Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, 1902 (ora in Saggi sul materialismo storico, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 154). Credo che la lettura di Spencer, per incidere così profondamente nel lessico gramsciano, sia stata fatta in un’epoca anteriore agli anni universitari. Nei primi anni del secolo l’influsso di Spencer, specialmente su un piano di media cultura fu larghissimo: “In quel tempo – scriverà nel ’18 il Croce alludendo al tramonto del secolo XIX – il filosofo che godeva maggior fortuna e séguito in Italia era lo Spencer (adesso quasi del tutto dimenticato), e con lui tanti altri positivisti ed evoluzionisti, forestieri e nostrani; e dominavano le menti, amici come sempre, sensismo e intellettualismo” (citato in Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. In appendice Quindici anni dopo 1945/1960, Roma-Bari, Laterza, 1975 [1a ed. 1962], p. 187). Nella filosofia di Spencer, criticata da Gramsci, l’individuo era concepito come costituzionalmente isolato dagli altri: non attraversato da nessun valore ideale, che potesse elevarlo al di sopra della propria quotidiana contingenza, egli si trasformava in un atomo di vita, irrelato da tutto il tessuto vivente della società. Perciò, durante gli anni della guerra, Spencer era diventato, secondo Gramsci, il filosofo preferito dalla borghesia, in quanto Spencer aveva concepito la società sugli egoismi umani e quindi era il filosofo capace di tradurre perfettamente le istanze fondamentali della società borghese: “Spencer: la natura, l’evoluzione, astrazione meccanica e inanimata. L’uomo: atomo di un organismo naturale, che obbedisce ad una legge astratta come tale, ma che diventa concreta, storicamente negli individui: l’utile immediato (NM, 4).

[32] Sul positivismo in generale cfr. Stefano Poggi, Introduzione a Il Positivismo, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 92-105.

[33] Il principio consiste nel non lasciarsi guidare dall’istinto o dal piacere immediato, ma dalla ragione e dalla volontà. Lasciarsi guidare dall’istinto significava per Gramsci affidarsi a cause puramente meccaniche. Da ciò l’atteggiamento che Gramsci riservò ai “mondi primitivi”: sono epoche da comprendere razionalmente, ma una volta comprese non bisogna provare nei loro confronti nessuna forma di nostalgia.

[34] “Questa concezione non era scientifica, era solo meccanica, aridamente meccanica” (Margini, 17 febbraio 1817, CF, p. 25).

[35] La classe operaia, secondo Gramsci, è la “naturale” alleata dell’arte. Si legga l’articolo, vibrante di indignazione, scritto per protestare contro la censura che aveva voluto cancellare una poesia di Walt Whitman: “Il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia: bisogna comprendere lo slancio con cui gli operai si sentono portati alla contemplazione dell’arte, alla creazione dell’arte, come profondamente si sentono offesi nella loro umanità per il fatto che la schiavitù del salario e del lavoro li taglia fuori da un mondo che integra la vita dell’uomo, che la rende degna di essere vissuta”; contro, invece, i “mercanti avidi di ricchezza e di sfruttamento che esplicano la loro attività essenziale nel distruggere barbaramente la vita e la bellezza, il regime dei trafficanti che apprezzano il genio quando si è convertito in valore monetario, che hanno elevato la falsificazione dei capolavori a industria nazionale, che hanno soggiogato la poesia alle loro leggi dell’offerta e della domanda [...]” (Cronache dell’“Ordine Nuovo” [IV], 14 giungo 1919, ON, pp. 78-79).

[36] Socialismo e cultura, apparso su “Il Grido del Popolo”, il 29 gennaio 1916, è uno degli articoli di Gramsci più significativi di questo periodo. Qui il rapporto è tra l’arricchimento della propria cultura, “intesa come organizzazione, disciplina del proprio io interiore”, in contrapposizione a cultura intesa come “sapere enciclopedico”, come “certa quantità di dati e di date” ammassate “nella memoria” (cioè cultura organica la prima, e meccanica la seconda), e la consapevolezza del “proprio valore storico”, della “propria funzione della vita”, che si traduce nella consapevolezza di far parte di un organismo sociale più vasto: “E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta la classe” (in CT, pp. 99-103).

[37] “La massa amorfa che ondeggia perennemente fuori di ogni organizzazione spirituale, è preda buona per tutti” (Stregoneria, 4 marzo 1816, CT, p. 175).

[38] L’organicità è per Gramsci sempre il risultato di un elemento coscienziale unito alla propria volontà (coerenza tra pensiero e azione), che supera il momento della necessità meccanica. L’animalità, l’istinto sono elementi meccanici in quanto non sono toccati né dalla coscienza né dalla volontà: “Non si  evade dal dominio della necessità storica, e la necessità storica, nel regime capitalista che domina il regime degli uomini, è generata incoercibilmente dalla forza meccanica” (Il Crepuscolo degli Dei, 26 aprile 1919, in NM, p. 613).

[39] “Così avviene che le abitudini, che dovrebbero servire solo a rendere meccaniche certe necessità, e quindi a tagliarle fuori dalla nostra vita attiva, diventano delle tiranne, e quali orribili tiranne” (Le buone abitudini, 27 febbraio 1916, CT, p. 161).

[40] Si legga l’articolo Melanconie..., 26 agosto 1916: “Torino si è abbiosciata, ha perduto completamente ogni fisionomia intellettuale. È diventata ormai, per quanto riguarda i teatri, una sezione del gran feudo del trust, che fa e disfà, ordina e scompone a seconda dei suoi interessi immediati, e quasi sempre, come avviene, anche contro i suoi interessi, per incapacità industriale e ristretta visione delle cose” (CT, p. 801).

[41] Maier - Semana, Antonio Gramsci, cit., p. 109.

[42] La parola quindi non è qualcosa di meccanico, ma un mezzo di comunicazione spirituale.

[43] Anche nell’attività politica, scriverà Gramsci in un articolo del 1917, occorre possedere la forza di drammatizzare la vita: “Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere” (Una verità che sembra un paradosso, 3 aprile 1917, NM, p. 109). 

[44] È anche il titolo di uno dei capitoli del saggio di Davico Bonino, Gramsci e il teatro, cit., pp. 37-40, nel quale si trovano citate alcune commedie criticate di Gramsci alla luce di queste categorie. Interessante, ai fini del nostro discorso, cfr. dello stesso Davico Bonino il capitolo sul caso “Dario Niccodemi” per ritrovare dei riferimenti puntuali: “La bravura di Niccodemi lascia spazio ad un sospetto di calcolo, di speculazione estranea al fine artistico: e il precipitare degli avvenimenti bellici mette a nudo il suo disegno” (ivi, p. 46).

[45] “Il dramma che egli escogita per cercare effetti sensazionali, rimane una superficiale successione di scene, di dialoghi [...] Così i cinque atti e due quadri passano nella loro puerile e convenzionale meccanicità teatrale” (CT, p. 815).

[46] “...mancanza di fusione e di organicità che lascia perplessi e fa deviare continuamente l’attenzione” (CT, p. 824).

[47] “I tre atti sono un susseguirsi disorganico e disordinato di parole che non creano, di aggettivi magniloquenti, di vuoti pneumatici. Il dramma rimane allo stato intenzionale, senza che la fantasia dell’autore riesca ad attuare la sua intenzione in una azione concreta e avvincente” (CT, p. 836)

[48] Antonucci, Storia della critica, cit., p. 116.

[49] Gramsci non si lasciò incantare dall’effettivo valore estetico della sua commedia, e non si astenne dal giudicarla senza infingimenti, sebbene indulga ad una bonomia comprensiva per incoraggiare il giovane esordiente: “La commedia è di accenni, perciò, più che una elaborazione compiuta e definitiva. Gli scorci, le impostazioni di luci e di rilievi sono ottenuti meccanicamente, ma esistono tuttavia, e pur senza avere tutta l’efficacia rappresentativa, dànno dei buoni risultati scenici. L’autore non ha ancora spogliato la sua concezione di ciò che di grezzo e immaturo essa trascina con sé; ma questa stessa ingenuità artistica è, in un primo lavoro, promessa di ulteriore elaborazione e di superamento progressivo” (“Racanaca” di Carlo Villauri, 12 maggio 1918, NM, pp. 624-27).

[50] “Inaspettata insensibilità, si potrebbe osservare, davanti alle nuove forme del teatro moderno, il quale rifletta e lamenta in definitive quelle stesse disarmonie e assurdità dell’ordine sociale, quella stessa mancanza di ordine e di continuità razionale nella vita collettiva, contro cui Gramsci combatte” (Guerra, Storicismo ed etica libertaria nel giovane Gramsci, in AA. VV., Gramsci e la cultura contemporanea, cit., II, p. 144).

[51] Palidini Musitelli, Introduzione a Gramsci, cit., p. 18.

A cura di Bruno Corino



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