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 Sergio Galindo


Rinascite
di Sergio Galindo (1926-1993)
trad di Caterina Camastra

Frammenti di vita. Vita solo a tratti compresa. Vita subita. Aver vissuto quaranta e… e… e una mattina sentirsi completamente inesperti, come un fiume che non avesse mai visto i suoi paesaggi né sentito le sue proprie acque, il proprio tepore e meno ancora l'allegria innocente o equivoca (ma allegria!) dei corpi che in esso si erano immersi. Clementina Pereda, non sei nemmeno un fantasma, perché i fantasmi una volta sono vissuti in questa valle di lacrime in cui tu non hai pianto. Dio ti salvi Clementina, sei piena di grazia. Clementina non nata, tu, infinita gestazione del niente, tu, invano puntualmente sanguinante,
estranea ad angosce e paure e dolori, tu, navigante di una nave senza scia, tu, Clementina; rinchiusa nella tua immensa casa. Eccoti vagare da una stanza all'altra, di angolo in angolo, di ombra in ombra, di silenzio in silenzio. Apri innumerevoli cassetti desiderando una sorpresa che non arriverà, conosci tutti i ritratti, tutti i vestiti, tutti i ricordi di cui hai stipato inutilmente un armadio dietro l'altro.
Di nuovo tra le tue mani le foto del dottor Pereda, tuo padre, Don Edmundo, bombetta, bastone, sparato e polsini finti, per sempre lì, di trenta infiniti anni, solo scoloriti nel seppia che proteggi, temendone la scomparsa. Temendo? No. Ne collocò una al centro del tavolo dal piano di marmo, togliendovi dei giocattoli, e il ritratto rimase sotto i raggi del sole che in perfetta diagonale penetravano attraverso la finestra. Si sentì felice, aveva decretato la morte dei trent'anni di suo padre. Qualcosa, per volontà sua, sarebbe successo.
Frammenti di vita. Non importa quaranta e quanti anni, la libertà di scegliere persiste, o nasce oggi?… In questo giorno particolare in cui tutto sembra sconvolto da una luce nuova e più intensa. Oggi che scopro fioriture insolite, oggi? Aveva sete. Camminò fino al corridoio, dove, con una lentezza da malata, si accomodò sul sofà di vimini e prese un bicchiere di karkadé freddo tra le due mani, con un esagerato sentimento di solennità (come se lei fosse stata Efrén, mentre officiava), e così, come se fosse sacrosanto, ma, certamente, estranea all'idea che lo fosse, bevve a piccoli sorsi, pochi, che la nausearono. E l'eccesso di zucchero nell'infuso non poteva che dipendere da quella trascuratezza, o piuttosto dalla negligenza, che ormai governava i suoi atti.
All'improvviso la solitudine le divenne insopportabile, corse al telefono e compose ansiosamente il numero di Hermila. Prima che se ne rendesse ben conto si erano già salutate, reciprocamente aggiornate su Efrén, ed erano passate a parlare del tempo.
- Le camelie! -la sua voce risuonò esageratamente alta, come impaurita.- Non è possibile. Sta succedendo oggi quello era naturale a marzo, o atteso per novembre… Non capisco, Hermila! C'è qualcosa di strano nei fiori…
- Sei stata a messa oggi? -chiese Hermila con acredine.
- Come? -e per la mente di Clementina passarono una ventina di giustificazioni plausibili, ma, non si sa come, le dimenticò e con sollievo incongruo aggiunse: - Ha detto qualcosa il padre su questo…? Ho sofferto tanta insonnia ieri notte che oggi non mi sono svegliata in tempo. Prima i gatti, perché la Duchessa è in calore, e come diceva papà, quando stanno così… Sai che io… Ho preso delle pastiglie, due per essere esatti perché una sola non mi fa mai niente… Che cosa?
- Stai parlando troppo in fretta, ecco cosa! Ed è la terza volta che te lo ripeto. Clementina, mi senti?… Non hai la febbre?… Va bene, fatti subito un tè, verrò a trovarti tra un momento. Pedro sta per uscire e può accompagnarmi a casa tua… E, Clementina, per favore, non uscire in strada.
Curioso, pensò Clementina, passando lo straccio della polvere sul piano. - Curioso che abbia chiamato proprio lei… -e strofinò la vernice nera fino a farla brillare dello stesso scintillio degli occhi di un gatto.
Perché… aver chiamato Hermila non sembrava molto logico. Anzi, si poteva dire che era… (non volle dire la parola)… Contenta io!… Sì (si disse convinta) … c'è qualcosa di strano in tutto… In ogni angolo e in ogni finestra, e nei fiori.
Perché Hermila, fin da bambini, ci ha sempre traditi. Hermila la precoce, l'innocentina: gonna azzurra, camicetta bianca, e quel suo dono speciale di ricordare i nomi di persone grandi e informarsi sulle malattie. Adottava atteggiamenti materni con tutte quelle che avevano cinque anni meno di lei, e che detestava. Con il suo candore poté ingannare… Ma non uno solo. Li aveva abbindolati tutti. Perfino Borrito. Naturalmente, scelse Ferrón: ricco, adulto (ma non molto vecchio). Abile, Hermila. E traditrice. Mai aveva taciuto qualcosa che le veniva confidato in segreto. Dio mio, dimmi!, a chi avrà voluto bene, Hermila? A chi? Perché nemmeno a suo figlio ne ha voluto. Efrén ha voluto bene a me perché lei non lo amava. La strana Hermila, come ci ha avvolti tutti in una rete e come ha tessuto, molto finemente, il proprio destino, risucchiandoci nella sua scia e riservandosi il ruolo di giudice e di testimone e di difensore (quando, per malignità, è stata benevola). Proprio strana! Perché mai le avrò telefonato?

Il bicchiere di infuso era vuoto e la sete non era diminuita. Adesso non provava solo sete, bensì una specie di arsura da avvelenamento; quel tipo di sensazioni, legate a spaventi, a malattie, che aveva patito così intensamente e realmente e, allo stesso tempo, così in solitudine, così segretamente. Perché lei non voleva essere una delle tante zitellone piene di acciacchi immaginari. Un giorno sarebbe morta senza aver fatto sceneggiate. Solo per se stessa. Era l'unica soddisfazione che le rimaneva, l'unica vera forza. Perché il resto… l'essere orfana… non essere sposata… troppi se n'erano impicciati, troppi a Xalapa. Ed era stufa. Sarebbe morta tranquilla, protetta dalla pace di tre, quattro o cinque giorni senza che lo sapesse nessuno. Quando sfonderanno la porta non lo saprò… Forse era un po' egoista non avvisare Borrito… Dopotutto, lui era il più vicino per età e con lui aveva diviso i momenti migliori (anche se mai il vero affetto), sì, i momenti più luminosi, e, anche, molti di quei momenti che si vivono solo in due, da soli, un po' in penombra e quando si sa di essere capite… Ma non sto per morire e non sono avvelenata. È solo questo caldo. E (rifletté) non era nemmeno il caldo, semplicemente era sfinita da una grande e tirannica debolezza… Che non venga Hermila. Dio mio, e chi la sopporta. Come se non mi bastasse questa mattina che non finisce mai…
Certo, c'è sempre un lato positivo, perché erano anni che non si sentiva padrona di una lunga mattina. Succedeva solo in gioventù, quando si aspettava qualcosa di imminente e tre ore (o un quarto d'ora) potevano essere decisive ed eterne, una vita estranea e incompresa. Così si sentiva quella mattina, e non era giusto che (per imbecillità propria) arrivasse Hermila a distruggere tutto. Era necessario che se ne andasse presto.
A ogni veleno il suo antidoto.
Lentamente, con la lentezza con cui aveva fatto tutto quella mattina, compose il numero di Pilar, doña Pilar Beteta.
Fu Zenaida a dire:
- Pronto…
Una bella voce fresca che non assomigliava a quella della madre. Clementina le fece un complimento e Zenaida rispose con quella risata come di cascata, la risata di Leandro quando era bambino. Quel suono prezioso che lei voleva udire ancora e ancora, più spesso, e (in qualche luogo di se stessa) custodirlo per sempre, come se Leandro non dovesse morire mai… Così.
- …Come mai così felice?
- Felice? -ripeté Zenaida-. No, niente di tutto questo. Sto ridendo da matti con Carlín. Adesso ce ne andiamo al suo orto, a raccogliere jinicuiles .
- Portamene qualcuno -supplicò Clementina, già col sapore di velluto bianco in bocca, con il ricordo di un'ombra protettrice dopo una lunga corsa, con la paura di un bruco peloso che improvvisamente poteva caderle sulla camicetta, e con l'allegria di tutti quei ricordi negli occhi- È da anni che non ne mangio… prima con Bartolomé e Leandro… -ma non finì, a Zenaida sicuramente non importava-. E la tua mamma?
- Mamma! Ti vuole Clementina!
Clementina immaginò i gridolini di Pilar, la corsa tre volte interrotta per qualche sciocchezza; come il rassettarsi la gonna e la pettinatura prima di prendere la cornetta e dire con la sua voce eternamente dolce:
- Ciao, tesoro! Stavo proprio pensando a te, non ti ho chiamata perché…
Clementina non bevve un altro bicchiere di karkadé, era troppo dolce e lo vuotò nel gabinetto. Ogni volta che buttava qualcosa nel bagno si ricordava di una puerpera del dottor Pereda, che, non rendendosi conto di quanto stava accadendo, partorì precisamente lì. Clementina non l'aveva visto, ma gliel'avevano raccontato. Era entrata più tardi, quando l'infermiera aveva già cosparso la tazza di alcol e disinfettato tutto col fuoco. "Quasi dava alle fiamme il bambino…", disse lei e suo padre rise rumorosamente. In generale, i parti assistiti dal dottor Pereda non erano un tema di conversazione tra loro e si parlava ancora de' "il bambino che ha portato la cicogna", quando Clementina aveva già trent'anni (o di più?) ben compiuti e inutili.
Anni inutili: no. Forse non era successo molto, ma chiamarli inutili… poi…
Un giorno era venuto Bartolomé (il timido Bartolomé di quindici anni) a chiederle una ricetta perché aveva… con tanta paura! e lei, Clementina Pereda, lo aveva curato… Praticò perfino la chirurgia la notte che Efrén si tagliò il polso. Solo con i bambini, perché le bambine… Beh, le bambine no, ma non ce ne fu bisogno, e il dottore non le chiese mai perché non aveva amiche (e forse non glielo chiese perché era d'accordo con lei e sapeva fin troppo bene che le bambine…) La lasciava uscire alle cinque della mattina con il gruppo dei maschi. Ah, indimenticabili le tante sere consumate nel progettare, fino alla decisione che il venerdì sarebbero usciti all'alba. Così, pregustava quell'alba molte volte prima di viverla, e viverla era ancora meglio. Un cielo di migliaia di frammenti freddi (gelati a volte) cadevano in faccia e la fine della notte era la morte più attesa e dolce. Una sciarpa le copriva il petto e la bocca; quelle parole umide, brevi e affettuose con cui si ricevevano l'un l'altro nell'androne del dottor Pereda, mentre esaminavano quello che ognuno aveva portato per l'escursione. La partenza, quel chiudere il portone con dolcezza per non rompere il sonno del padre e, all'improvviso, ad un passo da quei battenti, la libertà. I passi e le risate che risuonano in ogni parete vecchia e addormentata e soprattutto in quei recessi in cui, testarda, permane una notte agonizzante. Dal cielo piove la mattina liquidando stelle tenaci. Sì, una vita completa: camminare per le conosciute strade di ciottoli della città, e lì (non si sa esattamente dove) comincia la campagna. Molti uccelli cantano e volano in quel momento. Poi, tenendosi tutti per mano, cominciano a correre come matti; tremano sonoramente i recipienti delle limonate, i latrati dei cani li accompagnano come voci amiche; quel momento così freddo, quella freddezza che ha solo la campagna appena sveglia, sarà ricordato di notte nel soffice tepore del letto. Così lei lo ricordò tante volte. E quei giorni in cui dopo essere tornati in città, alle quattro o alle cinque del pomeriggio, restavano tutti a casa sua. Veniva il dottore a offrir loro un po' di vino jerez, e tutti lo bevevano morti dal ridere ed eccitati dalla trasgressione. Continuavano le chiacchiere, ripetendo mille volte le peripezie del giorno e rettificando ricordi e trasformandoli in fantasie molto più vivide e reali dei fatti. Arrivavano le sette; sul tappeto del salotto, bevevano caffelatte e scherzavano. Il dottore offriva un altro jerez e loro capivano che era solo uno scherzo e che, se qualcuno avesse accettato, gli sarebbe toccato un tremendo rimprovero e forse non sarebbero più usciti con Clementina. Il primo che venivano a prendere era Efrén e piangeva sempre prima di andarsene. Una sera dimenticarono Bartolomé e Clementina pensò che avrebbero dormito insieme, ma il dottore lo portò a dormire con sé. Ricordi! Quanti ricordi! Bartolomé, Leandro, Genaro, Efrén… e Fili. Ma Fili morì… C'era anche Eugenia, a volte, ma nessuno le voleva bene. Eppure, si era sposata con Genaro.
Quelle passeggiate. Si era nel millenovecento… quaranta più o meno. Poco dopo che Leandro era rimasto orfano di padre (di madre lo era già)… Povera Adela! Povera? … Che strano che qualcuno possa vivere pochi anni e, ciononostante , vivere una vita completa (come quella di sua sorella Adela); che strano che si vivano migliaia di anni (lei: Clementina) senza che la vita si chiuda in cerchio, in forma perfetta. Come una rosa di pallini da un fucile: dispersa con un sol colpo in molte direzioni, ma, assurdamente, senza fare centro. Come se la vita esigesse un solo bersaglio, una sola mira, ma la molteplicità di quelle direzioni ne negasse inevitabilmente la congruenza.
Gli occhi di Clementina tornarono a cadere sulla camelia. Fiorisce. Indiscutibilmente fiorisce.
Il suono del campanello segnalò l'aprirsi e il richiudersi del portone, e lei rimase immobile ascoltando i passi, la voce.
- Clementina…?
Lei, muta, cercò di non sentire niente e non le fu difficile: un'ape brillante e piccola (troppo giovane) si posò sull'immacolato bocciolo della camelia, e con orrida grazia avanzò, o nuotò o scivolò sulla tersa superficie.
La realtà non si può rimandare. Senza muoversi, rispose:
- Qui…

- Clementina! Stai diventando sorda! Ho strillato per tutta la casa. Questa tua abitudine di non avere cameriere… e in questa casa. Ah, Clementina, un bel giorno ti ammazzano e non se ne accorgerà nessuno! O perlomeno, ti rapiscono -la baciò-. Sei caldissima…
-Sono stata tutta la mattina al sole. Che strano che ci sia tanto sole! Vero?
-Strano? -chiese doña Pilar ad un inesistente pubblico-. Perché?
Pilar si ricordò che per anni aveva voluto essere un'attrice. Ma non più. Il peggio era che nemmeno Zenaida lo sarebbe stata, perché ormai… perché no! È così sciocca!
-Siamo in estate, è logico che faccia caldo, molto caldo…, oltretutto, non fa nemmeno così caldo.
Un silenzio di tomba cadde loro addosso. Un silenzio come di morte prematura, di negazione delle loro vite; un annichilimento del quale, con disperazione, solo potevano essere testimoni.
Di nuovo suonò il campanello del portone.
- Chi viene? -chiese Pilar, rassettandosi la gonna.
- Hermila -rispose Clementina, prendendola sottobraccio.
- Dopo che se ne sarà andata-mormorò a voce bassa Pilar- devo parlarti; mi ha chiamato un'amica… Poi ti racconto.
A braccetto, avanzarono lungo il corridoio fingendo un affetto reciproco che risultò del tutto superfluo quando videro che non era Hermila, ma quella ragazza con i capelli corti corti. Quella, come si chiamava… Margarita.
- Di Rentería…
- Sí, Rentería… Conosco tua suocera, e anche Luisito.
La casa improvvisamente si riempì di rumore. Settantasette scampanellate: sette orologi annunciavano le undici del mattino, e in quella confusione nessuno sentì entrare Hermila.
Hermila, vestita di grigio e con una collana di perle che manca poco che si confonda con il biancore lattiginoso del collo. Una Hermila che avrebbe potuto avere vent'anni di meno senza sforzo, se solo avesse sorriso. Ma continuava ad essere dalla parte della virtù: niente trucco, niente scollature, niente colori squillanti, niente di allegro. ("Ma quel vestito non è un po' scollato per lei…?"), si chiese Clementina nel momento in cui vide la nuova arrivata. Pochi secondi, solo qualche secondo, e gli occhi delle due si incontrarono.
Clemen rivide quel fulgore di molti anni prima, di una notte di maggio, quando coricate entrambe (non le riuscì mai di ricordare perché era andata a dormire con Hermila), lei (Clemen) disse all'altra: "Mia sorella Adela si sposa il mese prossimo con Leandro Montes". "Che?" Hermila le si afferrò alle braccia e la costrinse a sedersi sul letto. "Ripetilo! Ripetilo mille volte e giurami per la Santissima Vergine che è vero." Clementina lo giurò molte volte finché la pressione delle dita di Hermila cedette. Allora Clementina, spaventata, si mise a piangere. Hermila cercò di calmarla promettendole regali e nuove gite e assicurando che sarebbero state più amiche che mai, e, come invasata, disse: "Ti voglio bene, non piangere, ti voglio tanto bene." Cominciò a baciarla , ad asciugarle le lacrime. Poi sotto le lenzuola continuò con carezze e consolazioni. Hermila era già da allora devota della Vergine del Perpetuo Soccorso. Teneva la candela accesa di fronte alla sacra immagine sul baule. Mezzo volto di Hermila era illuminato da quella fiamma palpitante. E quel corpo (non era più Hermila, era un corpo) cadde sul suo e con gli occhi chiusi tornò a mormorare : "Ti voglio bene." Hermila dormiva già quando disse : "Leandro… Leandro." Clementina non si mosse per molto tempo e, rigida, osservò quegli strani cambiamenti che sui capelli e sulla pelle di Hermila disegnava la luce della candela. Quando la respirazione di Hermila divenne regolare, il corpo aveva perso la tensione, fu allora che, molto lentamente, si spostò verso il bordo del letto, turbata dalla facilità con cui l'altra riusciva a dormire. Erano quasi bambine tutte e due. Hermila al massimo aveva tredici anni. Dell'accaduto Clementina conservò sempre l'orrore inaudito per la facilità dell'amica a scivolare nel sonno. E anni dopo, in altre circostanze, vide di nuovo dormire Hermila di quel sonno profondo e terribile.


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