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Nuova scuola filosofica di Tadeusz Rozewicz
traduzione di Aldona Palys
Pubblicato su SITO


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I racconti di Progetto Babele

Testo revisionato da Marco R. Capelli
(28/10/2014)

1

Era la fine d’ottobre o forse la fine di novembre del  1945.

Bussai ad una porta bianca. Da dietro la porta si udì un mormorio, come il grugnire di un grosso animale. Entrai nel gabinetto del filosofo. Era il più insigne filosofo moderno polacco, si mormorava addirittura che fosse discepolo di Husserl.

Mi sono iscritto in autunno all’università. Il professore insegnava, in quell'anno accademico, l’introduzione alla teoria della conoscenza. Ardeva in me la strana ambizione di scavalcare tutti i gradi intermedi dell’iniziazione scientifica e di iscrivermi al seminario.

Feci l’inchino al filosofo, spiegai coincisamente chi fossi, come fossi spuntato nel suo gabinetto e lo pregai  di farmi entrare al seminario. Il professore sorrise. Con voce rauca e calda spiegò che prima avrei dovuto iscrivermi al pre-seminario. Feci una smorfia. Il professore mi scrutò più attentamente e disse: "E allora, caro signore, cosa ha letto di filosofi, cosa conosce? Mi racconti."  Cominciai febbrilmente a rammentare. Mi piaceva assai la bella testa dello scienziato. Era una macchina di precisione, costruita forse cinquant’anni addietro nei famosi atenei tedeschi. Malgrado le devastazioni della guerra lavorava ottimamente. Era un formidabile fenomeno. Solo a volte, durante la lezione il professore dava un’occhiata alla finestra e per un istante taceva. Dietro la finestra si vedeva uno scorcio di muro, il cielo novembrino. Stavo davanti a lui negli anfibi portati dal “ bosco” e ricordavo i nomi dei filosofi.

-  Ho letto Socrate. – dissi con decisione e tacqui.

Il professore sorrise e chinò la testa.

-  Veramente non Socrate ma Platone su Socrate.  - mi corressi. – Ho letto Platone, Nietzsche…

Il professore di nuovo sorrise benevolmente.

 - Ho letto anche L’evoluzione creativa di Bergson. - aggiunsi con orgoglio.

Non riuscivo a rammentare né altri nomi né libri e il professore, come se attendesse qualche altra cosa,   aspettava … Pian piano mi stavano venendo in mente altri nomi dei vecchi tempi. Nomi dei “ filosofi” e dei colleghi con i quali si parlava del senso della vita, dello scopo  delle nostre azioni, di Dio.

- Ho anche letto Spencer e Draper. – Entrambi questi nomi avevo pronunciato con una certa insicurezza perché non mi ricordavo bene di che cosa scrivessero. Tuttavia uno di loro lo leggevamo con Zbyszek nel parco. Un anno prima dello scoppio della guerra. Era un libro, o meglio una brochure, dalla copertina verde, strappata. Era scritto da Spencer o da Draper. In questo momento non ricordo purtroppo né il titolo né il contenuto di quel libro. L’ho dimenticato durante l’occupazione hitleriana. Può darsi che il libro lo abbia scritto qualcun’altro. Adesso mi sono ricordato un frammento, in esso si parlava dei dogmi della fede cattolica e l’autore domandava sarcasticamente : “Qualcuno ha visto il dito dello Spirito Santo? “. Mi ricordo di quel dito ma non sapevo cosa voleva dire quel filosofo per cui avevo lasciato perdere e non dissi nulla di tutto questo al professore. Dopo un attimo di silenzio,  di nuovo pronunciai un nome: Freud. Il professore si mosse. Qui stranamente e chiaramente rammentavo degli scherzi sul tema di un sogno in cui il dormiente apriva il cassetto del comò posto in basso e faceva il bisognino dentro quel cassetto; questo doveva significare la voglia sessuale di un rapporto, con la balia, repressa nell’infanzia. Ma questi erano degli scherzi.  Per quel che invece riguarda la gamba, ero sicuro di aver letto qualcosa nel libro di Freud  sul ruolo della gamba nella vita sessuale. Le deduzioni dello scienziato ci sembrarono cosi ridicole che con Zbyszek ce le siamo imparate a memoria. Ancora in quel momento, ero in grado di citare al professore i frammenti riguardanti la gamba: “La gamba è un eterno simbolo sessuale, cominciando già dai miti, e rispettivamente, ad essa la scarpa o la pantofola è il simbolo degli organi sessuali femminili; per questo motivo, nella perversione che corrisponde al feticismo, soltanto se sporca e maleodorante, la gamba è un oggetto sessuale... La gamba di una donna è intesa come membro maschile, la cui mancanza viene fortemente avvertito dai bambini…”
Naturalmente alcune parti di queste dotte deduzioni erano da noi omesse e di conseguenza  derivavano da questo delle storie così dementi che ci sbellicavamo dalle risate. Il professore chinato verso di me aspettava, apparentemente, i nuovi nomi. Purtroppo avevo elencato quasi tutte le posizioni filosofiche da me conosciute. Menzionai il pessimista  Schopenhauer. Come da un immenso buio, da un profondo pozzo della nebbia d’infanzia, riemerse ancora un altro nome. Ma non ho detto quel nome al professore. Quel nome aveva un suono estraneo e non ho letto di esso da nessuna parte dal tempo dell’uscita dall’infanzia: Mulford. Così si chiamava quel misterioso filosofo. Non leggevo Mulford, perché all’epoca non conoscevo le lettere dell’alfabeto, lo leggeva sul talamo di quercia un vecchio che aveva una moglie dai focosi occhi neri. Purtroppo, di Mulford sapevo pochissimo. Non mi ricordavo se scriveva dell’ipnosi, se dell’igiene, forse scriveva degli ippopotami, o forse dell'hascisc. In ogni caso era probabilmente inglese. Questo era l’ultimo nome che ho menzionato o, meglio, pensato. Mulford lo confondevo con  muflone. Ma non ero ben sicuro di come fosse fatto un muflone. Dove viveva questo animale e di cosa si cibava? Tuttavia riguardo al muflone avevo qualche certezza, che ha le corna circolari e una lunga e lanosa pelliccia. Forse produce latte. Ma queste sono solo delle ipotesi. Di Mulford, invece, non sapevo nulla. Naturalmente si sapeva  pure  di Kant, ma soltanto negli scherzi. Sembra che Kant abbia detto qualcosa come: “Cielo stellato sopra di me, legge morale dentro di me“. Questo era probabilmente tutto. Adesso aspetto quel che dirà il professore. Gli occhi grigi del professore si illuminarono per un momento e poi si spensero. Era esausto, ma forse dentro di sé si era divertito magnificamente; o forse era solo stanco e meravigliato.

- Voi avete lottato con le armi in mano, noi salvaguardavamo il pensiero umano. Voi, nei boschi, noi, dove capitava …lei è stato ammesso al mio pre-seminario. Adesso stiamo leggendo il Trattato  sulla natura umana di Hume. – Mi tese  la mano. Mi chinai ed uscii dal gabinetto del filosofo. Dopo la conversazione andai a pranzo nella mensa universitaria. Stavo dietro la sedia di uno studente e aspettavo, sbattendo il cucchiaio sulla scodella di latta, che finisse la sua razione. Tutti qui mangiavano velocemente, perché sopra le loro teste stavano in piedi o con lo scontrino o con il cucchiaio nelle mani gli altri affamati. La ressa e l’afa erano fastidiose.

Tornai a casa nel pomeriggio. Mi sdraiai sul letto e guardai il soffitto. Socchiudevo le palpebre. Pensavo. Parlavo da solo delle questioni probabilmente  più importanti nella vita dell’uomo. Ribadii ancora una volta: “ Tutto questo non ha nessun senso”. Tutto. La vita. Si può aggiungere qualcosa a tutto ciò? Già diversi mesi prima avevo stabilito una data. Il giorno in cui mi sarei suicidato. Stabilire con precisione l’anno, mese, giorno e persino l’ora mi diede una sorta di sollievo. Mi era sembrato che una simile decisione mi lasciasse le mani libere rispetto agli uomini e mi desse la libertà di comportami come meglio credevo. Mi dicevo: “Non sono legato a nessuno, non m’ importa niente”.

Soprattutto, non  sopporto la gente. La mancanza di benevolenza per gli individui della stessa specie è evidentemente la caratteristica dell’uomo moderno. Fino a che tutti hanno le loro comodità, sorridono, ma basta entrare in un autobus affollato… Tutti si guardano con rabbia e ribrezzo. Soltanto gli idioti scherzano e mostrano facce serene. Tutti gli altri guardano con ottusa indifferenza attraverso i vetri sporchi. Nei momenti di cattivo umore, considero la gente come un ammasso di un sterco vivente. Naturalmente non mi escludo. Se io stesso mi considero una nullità e mi guardo spesso con odio, allora perché dovrei stimare e amare gli altri? 

Non sono peggio di me, ma neanche meglio.

Questi sentimenti, tuttavia, non influiscono sul mio comportamento. Non sono capace di dare un calcio ad un bambino anche se so che nei pressi non c’è nessuno che mi guarda. Per quanto pieno di pensieri cattivi e di ribrezzo, mi chino per raccogliere un guanto ccaduto a qualche babbiona imbellettata. Comunque, ci sono nell’uomo delle possibilità nascoste di fronte alle quali il gesto di Raskolnikov sembra il peccato di un debole, bravo ragazzo che ha rotto il vaso con i fiori. Del resto il tempo dei demoni è finito. Adesso, anche i più grandi criminali si rivelano alla fine soltanto miserabili stracci, pronti a giurare che solo le coincidenze della vita li hanno resi assassini. Rudolf Hess, il comandante di Auschwitz scrive nella sua biografia:

“Pregherei tuttavia, nell’uso di queste annotazioni, di non portare alla luce dell’opinione pubblica ciò che riguarda mia moglie e la mia famiglia, tutti i miei gesti di clemenza e i più reconditi dubbi. E che l’opinione pubblica veda in me soltanto una sanguinaria bestia, un feroce sadico, un trucidatore  di milioni di uomini. La masse non possono immaginarsi diversamente un comandante di Auschwitz. Non  capiranno mai che anche egli aveva un cuore, che non era cattivo”.

Ritengo che queste parole siano il più orrendo atto d'accusa all’uomo contemporaneo. Cadono le braccia. Anche egli aveva un cuore. E’ la verità. Ma torniamo alle nostre piccole, quotidiane, un po’ noiose vicende. Mi pongo una domanda e fornisco la sincera risposta. Forse queste contemplazioni di uno studente della facoltà umanistica permetteranno a vari psicologi, sociologi, teologi e altri scienziati di orientarsi meglio nel mondo in cui viviamo adesso. Sono uno di voi, anch’io sono un uomo. Parlando sinceramente, mi sono imbattuto in uomini che erano peggio di me. Sono un mediocre, giovane uomo che quale aveva diciotto anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale.

Adesso ero sdraiato sul letto nella mia stanza e pensavo. Pensavo che se avessero messo alla distanza di cento metri una folla con in mezzo “vecchi, donne e bambini” e se mi avessero dato una mitragliatrice e se mi avessero ordinato di sparare a quegli uomini, lo avrei fatto senza domandare nulla. Mi sarebbe bastato che quest’ordine fosse impartito da un superiore. Che portava la divisa. Mi sembra chiaro che gli hitleriani erano degli assassini, ma anche noi, le loro vittime, privati della nostra volontà, ci trasformavamo in assassini. Avrei sparato una lunga raffica su quei “vecchi, donne e bambini” e sarebbe finita. Da lontano, si può far fuori una massa di gente senza nausea e senza i capogiri… I piloti che facevano sprofondare intere città si distinguevano addirittura, fra gli altri soldati, per una certa eleganza e cavalleria. Per cui questo è in un certo senso il problema: la distanza fra il carnefice e la vittima. Si tratta del fatto che il sangue non  schizzi sulle mani e che i nostri piedi non calpestino le viscere della vittima. Questi sono problemi di natura, direi, estetica, igienica. Naturalmente non tutti sono capaci di lottare con le baionette, di torturare. Ma ogni normale uomo è capace di uccidere, se si mantiene alla giusta distanza. Sventrare con le proprie mani un bimbo, è del tutto diverso dallo sparare dalla distanza di un centinaio di metri. Del resto, anche in tempi più pacifici, capita che le mogli squartino i mariti e portino i loro corpi squartati nelle valige per stazioni ferroviarie, sale d’attesa, persino cinema. E allora, anche con questa cosa della guerra non bisogna esagerare. Forse si tratta solo di una questione di quantità e non di qualità.

Adesso posso continuare a parlare di me. Stavo sdraiato sul letto vestito e pensavo. Pensavo che qui ci sono vari mobili, giacciono dei libri, sono appesi dei quadri, ma tutto ciò non ha senso. Anch’io giaccio qui, e anche questo non ha senso. Se appena smetto di mangiare, di lavarmi, di leggere, conversare, comprare, allora cosa devo fare di me stesso? Peccato che non riesco di esprimerlo in modo più chiaro. Forse nel seguito del racconto tutto si spiegherà da sé.

Adesso sto a letto. Ma come ci sto? Sto sdraiato così intensamente, così forte sento di essere coricato che sono tutt’uno con il letto. Mi rallegro e godo di questo essere sdraiato. Ho girato la chiave nella serratura, ho acceso la lampada, coperta da un cappuccio fatto con un vecchio giornale. Nessuno verrà da me, nessuno mi caccerà dal letto, nessuno mi ordinerà di andare al buio e sotto la pioggia. Nessuno mi darà dei calci, dei pugni sul viso. Posso starmene sdraiato qui un‘ora, due, cinque. Dopo mi alzerò e mangerò. Bollenti, succosi wurstel. Adesso si stanno cuocendo nel pentolino. Nessuno mi toglierà i wurstel, il pane, il te. Ho ingoiato due wurstel, mi sono avventato su di essi; gli altri due me li sono gustati, succhiando la salsa. Da qui a mezzanotte posso mangiare ancora una dozzina di wurstel. E domani posso di nuovo comprare salumi, panini, vino fatto di frutta. Posso rinchiudermi e mangiare e stare sdraiato e leggere un vecchio giornale con cui era rivestito un qualche libro. All’improvviso sembra che le notizie di un anno fa siano tanto interessanti quanto quelle di ieri. E forse, addirittura, ancor più interessanti. Sembra che gli eventi siano illusori. Tutto si è fermato. Ma come è bello. I morti sono stati seppelliti. I vivi non muoiono più. Forse non moriranno mai. Laggiù, nella mensa si può ancora chiacchierare con la cuoca, con le ragazze che puliscono. Si possono fare due risate. Sono serene, allegre, queste donne. Come se fossero nate ieri, come se provenissero da un altro pianeta. Basta fare qualche battuta sul tema di quel che ha fra le gambe e quasi scoppiano dal riso. La vita vince la morte. L’amore vince la morte. Povera morte. Tutti le voltano le spalle. E’ venuta a noia alla gente.

Ma non scendo giù. Sto seduto nella mia tana. Giaccio sul letto e leggo il vecchio giornale. Socchiudo gli occhi e penso se ho ancora dei desideri. Non ho desideri. Uno solo: che nessuno si infili qui da me. Voglio stare coricato così. Non voglio andare né in America, né sulla Luna. Non voglio andare all’Opera, non voglio chiacchierare in un caffè, non voglio  essere né un re né un attore del cinema. Non voglio niente. Mi sento così bene che neanchemi accorgo di esistere . Adesso posso semplicemente esistere, senza bisogno di lottare per sopravviere. Ho casa, cibo, vestiti, letto, stufa, legna dietro la stufa. All’imbrunire sono uscito per altri wurstel. Correvo verso casa come un cane che, con la carne in bocca, scappa dal macellaio. Sento costantemente una grande gioia quando mi procuro cibo. Ho sempre paura che mi mancherà il cibo, che la mia casa crolli. Quando torno a casa dopo un viaggio, sono spaventato; ho paura di vedere la parete con le finestre bruciate o un mucchio di macerie e un groviglio di tubi di scarico. Questa, che dopo una settimana di assenza trovo la casa a posto, che di nuovo apro la porta della mia stanza, è per me sempre una buona novella. E sempre mi rende felice. Ho una chiave e, per giunta, anche una casa!

Apro l’armadio e, ancora una volta, verifico il contenuto della scatola di cartone coperta di scritte nere in lingua inglese. Da due giorni dispongo sul letto e sul tavolo scatolette, bustine e barattoli. C’è anche la gomma da masticare.                                            

Queste contemplazioni notturne non hanno nessun valore. Non portano da nessuna parte. Alla luce del giorno svaniscono assieme alla Luna. A volte mi capitava di scrivere una lettera d’addio. Ma anche questo è passato. Perché, in verità, non ho niente da dire alla gente. Nulla di saggio, nulla di disperato. Adesso la gente dovrebbe congedarsi in silenzio. Così è più decente. Veramente, si dovrebbe pronunciare nella vita soltanto il numero di parole strettamente indispensabile. Me ne andrò, dunque senza condividere con nessuno nessuna saggezza e nessun grido di disperazione; del resto non mi è capitato nulla di male. Non mi sta cadendo nulla sulla testa. Me ne andrò semplicemente perché sono giunto alla conclusione che potrei essere qui domani, ma potrei non esserci.

Posso morire io o possono morire quei cinque uomini e due donne che adesso fanno baldoria al buffet. Possono morire tutti e non venire più in questa casa. Possono vivere, possono morire. Questo non ha nessun significato per l’altra gente, ovvero se qualcuno è vivo o no, perché non si può assemblare un insieme sensato dai singoli gesti, parole, idee.

Spesso mi ponevo una domanda: se  prima di morire mi avessero concesso un qualche ultimo desiderio, cosa avrei chiesto? Ho sempre risposto: no, niente. Sospetto che in questa risposta ci sia un significato profondo, la spiegazione di questi nostri tempi. Per coloro che verranno dopo di noi, tutto ciò sarà incomprensibile. Una volta la gente che lasciava questo mondo scriveva lettere d’addio, testamenti e, addirittura, componeva le scritte per la propria lapide funeraria. La nostra generazione è morta modestamente. Questo insegnamento ci accompagnerà per tutta al vita.

Sbagliano coloro i quali dicono che adesso, dopo la guerra, sono sorti pesanti problemi morali. C’è solo la vita, ed essa non conosce moralità. Ci sono dei residui, piccoli ricordi della moralità che fu, ma gli si vive accanto. La gente vive e muore. Tutto è stato spiegato fino alla fine alla nostra generazione. Dopo questa guerra, tutti siamo sospettati. Gli eroi e i traditori, cospiratori e incettatori, ricattatori e ricattati, provocatori, carnefici e le loro vittime. Anche i morti sono sospettati. Tutti sono stati avvelenati. I morti e i vivi. Può darsi che la mia visione sia falsa, non lo nego. Io dico soltanto quel che penso. Vorrei tuttavia depositare questa confessione prima della morte, forse essa sarà utile a coloro i quali credono nell’uomo e nutrono delle speranze. Io non vedo nessuno in cui credere.

Ma non bisogna parlare di altra gente. Qui si tratta solo di me. Parla per te. Che ognuno parli per sé. Forse esiste gente saggia e buona. Ma questo non ha oramai nessuna importanza. E che esista. Noi andiamo avanti. ”Moriamo miseramente sulla riva della fonte della vita e della verità”. Questo ho letto da qualche poeta del secolo scorso. Da quei tempi è stato ben chiarito che non esiste nessuna “fonte della vita e della verità”.

Penso che non ci fosse nessuno nel corridoio quando cominciai a parlare a voce alta. E anche se ci fosse stato qualcuno… Parlavo a me stesso come se stessi parlando con un altro uomo, con un nemico, un mascalzone. Parlavo con disprezzo e con odio. E le mie parole non avevano senso.

“Mucchio di sterco – dicevo - mucchio di sterco, mucchio di sterco. Porco. Maledetta vita. Orrore. Che tutto finisca, una volta e per sempre. Prendi, bestia. Codardo.” Mi schiaffeggiai. Poi mi misi a piangere. Piangevo sul cuscino e in quel pianto c’era una soluzione, una spiegazione. Del resto sono i bambini quelli che piangono più spesso.

Lavai il viso con l’acqua fredda. Volevo correre da una persona che conoscevo. “Gli racconterò tutto – pensai  - tutto”. Cominciai persino a mettermi il cappotto, ma poi lo tolsi e lo appesi al chiodo. “Nessuno ti aiuterà. Ricordati che proprio chiedeva aiuto a tutti, andava per locali, beveva vodka, si impiastricciava il viso con la mostarda e tu... vuoi correre da lui. Stai qui. Qui. Piangi, ma rimani qui. Lui è un moralista. Così ha definito il senso della vita: mangiare, dormire, scopare. Io lo apprezzo. Quell’uomo è capace, laborioso, onesto. Ha veramente molti pregi. Nonostante ciò, ha definito in quel modo il senso della vita. Rimasi esterrefatto. Avevo forse frainteso le sue parole? No. Questo aveva detto, e con convinzione profonda.

 

2

La mia vicina morirà tra breve. E che muoia. Nel frattempo ha ancora la forza di starsene, sdraiata, a ingiuriare la gente. Anche di me dice che sono una bestia. Urla dietro la porta : “Bisogna essere una bestia…” - so benissimo che parla di me. Non me la  prendo con lei e, persino, sorrido con una certa benevolenza quando attraverso il corridoio buio e sento quella voce stridula. Cerco di sforzarmi, più che posso. Cammino in punta di piedi, chiudo prudentemente la porta, non ho la radio, non  porto ragazze, non mi ubriaco. So che ella, in odio a tutto il mondo, mormora: “Bestie, bestie, bestie” Comunque, la sua vita volge alla fine. Soffre. Evidentemente non ha nulla di interessante e simpatico da dire alla gente. Brava, vecchietta! Sei sincera. Sul letto di morte non si mente. Concisamente e in modo lapidario bisogna esprimere i propri sentimenti verso “l’umanità”, la quale del resto non si offende. L’umanità è buona, meglio, è indifferente. “Il Bestiame“ vive, ed è così occupato che non si accorge delle tue male parole. Il conto è pareggiato. Muori. Non mancherai a nessuno.

Dunque, così sembriamo. Conoscete questo detto : “Oh! Se dovessi rinascere, la mia vita sarebbe del tutto diversa”. Questo è la frase più stupida della terra. Non sono un uomo cattivo. So che questo non significa nulla, tuttavia lo ripeto: non sono un uomo cattivo. Non sarebbe meglio per me vivere e lavorare con fede nel solare futuro dell’umanità, anziché pensare che bisognerebbe affogarsi o impiccarsi? Forse in bagno.

La notte è sempre più profonda. Nel cielo le nuvole e i pioppi neri e allungati. Si sente un sussurro. Si spengono le luci, la gente va a dormire. Non voglio dormire, ho paura del sonno. L’uomo dovrebbe, adesso, vivere senza interruzioni, stare seduto con gli occhi aperti e pensare. Perchè mettersi a dormire per poi svegliarsi senza speranza? Io vivo e intendo vivere ancora per un certo tempo, ma non ci sono più. Una orribile sensazione. Preferirei che qualcuno in questo momento mi sputasse, che qualcuno mi calpestasse e che mi coprisse dei peggiori insulti; sentirei di essere vivo. La mia esistenza debbono confermarla gli altri.

Giù nel buffet tutto tace. Le luci sono spente e le ragazze sono andate a dormire. Piove. La pioggia rimbalza rumorosamente sulle lastre di cemento del cortile.

Lasciare  vestiti, libri, documenti. Lasciare il proprio cognome, le persone che si conoscono, “l’ambiente”. Lasciare il passato. Ci sono solo il presente e il futuro, che nasce minuto per minuto e che non conosco.

Devo, da solo, imparare a sopravvivere al mio passato. Strappare le catena e fuggire. Non voglio andare domani a lezione. Non c’è l’università, non c’è l’architettura del Rinascimento italiano. Non c’è la città di Parigi. Quando ancora vivevo volevo vedere la città di Parigi. Una città lontana. Se conoscevo qualcuno che veniva da lì, lo guardavo come fosse di un altro pianeta. Gli chiedevo di mandarmi nelle lettere la descrizione dell’aria, delle svolte delle strade, dei fiori e della morte, dei quadri e dei cappelli. Adesso non mi interessa più niente di tutto ciò. Non è vero che sei tornato da Parigi. Ti prego di non raccontarmi di questa città. Io lo so, non esiste questa città. Tutta quella gente si era data appuntamento per raccontare dei teatri, delle mostre dei quadri, del fiume Senna e del vino rosso. Ma io lo so. Questa città non c’è. Se Parigi ci fosse, la mia strada non sarebbe stata così grigia e io sarei più allegro. Né mio padre né mio nonno hanno mai visto quella città. Qui nel cortile c’è un muro di mattoni rossi, ogni mattone è così ermeticamente fuso con l’altro che, attraverso, non si può vedere nulla. Io sono sempre stato girato con il volto verso quel muro.

Il mio vicino di casa di primo mattino corre col volto sbiancato e tremante che si trasforma nel muso di un cane. Corre incollerito su e giù per il corridoio, porta una lattina - che prima  conteneva succo di limone - e porta acqua in bagno. Lo sciacquone si è rotto di nuovo e gli abitanti del palazzo sentono i propri spiacevoli odori troppo fortemente per poter dirsi, con un  sorriso, “buon giorno”. La piatta figlia del vicino di casa, triste, con un  luccicante  grembiule nero, sorveglia la porta del bagno per vedere se qualcuno lascerà dietro di sé della sporcizia. Scoppiano liti furiose. I bei volumetti, editi da “Insel - Verlag”, "Leipzig", i piccoli  tomi di Rilke, Platone, Schopenhauer giacciono sugli scaffali della biblioteca di quel signore. Per tutta la sua anemica vita si è nutrito dei nettari della poesia di Claudel, Mallarmè, Nerval… e adesso con la rabbia di un paesano bastardo corre sul corridoio puzzolente digrignando i denti. Credo che morsicherebbe volentieri qualcuno. Sto a letto e sento il cagnesco viavai dell’ acculturata famiglia. Poco prima era andata in bagno la vecchietta e non ha pulito la sporcizia lasciata dietro di sé. Anche se fra poco morirà adesso trema di paura nel suo letto.

Il raffinato signore finalmente urla: “Porci, porci!” Non si tratta solo di me e  dei vicini, sta gridando all'umanità intera.

“Pover’uomo" – penso con compassione e con un po’ di cinismo  - "con i suoi blateramenti culturali ha passato cacando i suoi anni migliori e adesso vuole rifarsi. Peccato che non abbia i denti, avrebbe potuto mordere la maniglia o la parete."

Silenzio nel corridoio. Silenzio in tutta la casa. La pioggia ha cessato di cadere e si vedono i pioppi scuri sullo sporco, argenteo cielo.

 

3

Viviamo come morti. Intraprendenti, malvagi, perfidi, disponibili, decomposti come i morti. Ci conosciamo bene tutti e conosciamo bene questo nostro mistero. Ho sentito dire che i poeti ribelli e gli artisti della fine del XIX secolo scappavano in Africa… E noi possiamo ribellarci? La vedi questa gente tranquilla con un espressione da  idiota sul volto? Anche loro sono dei grandi ribelli, ma nessuno lo sa. Sono oramai calmi, domati, attendono sulla strada un segno del vigile, che si accenda la luce verde. Solo gli ubriachi, a volte, vomitano e minacciano i loro nemici, l’arte e il Signore Dio. Di solito basta qualche moglie per richiamare questi ribelli alla realtà. Scappavano in Africa, sulle isole dell’Oceano Pacifico. E noi dove scapperemo? Forse anche noi nell’Equatore? No, noi scapperemo in bagno. Nel frattempo sembra che neanche nella toilette sia tutto così tranquillo, calmo, come una volta. Tutti guardano l’un l’altro col sospetto. Chi pagherà la riparazione? Tutti si scrutano con uno sguardo torvo. Non si sa chi lasca nella tazza del water tutta quella sporcizia. Allora forse ci rifugeremo dentro a noi stessi? Ma è meglio rinchiudersi nella sala d’attesa della terza classe della stazione di Gorzkowice* che in sè stessi. Noi sappiamo come siamo fatti dentro, sappiamo come è fatto dentro l'uomo moderno. Chi reggerà virilmente una serata solitaria, una notte insonne? La mia vita è stata privata di ogni senso. Nel momento della prova lottai con l’arma in mano, “facevo scorrere il sangue”; ora sto a posto con me stesso, con la gente, con la patria. Ma non ho salvato il senso della vita. Tutto finirà una volta per tutte, qualsiasi cosa farò, sono morto. Chi parla di nuovo di musica? Chi parla di poesia? Chi parla di bellezza? Chi blatera sciocchezze sulla natura dell'uomo? Che pagliacciata, che commedia. Morti, sono con voi. Che bello.

Questa povera vecchietta contava sulla ma stanza. Sapeva che avevo intenzione di andarmene da quella grande casa. Già da molto pensava di allestire una cucina nella mia stanzetta. Morì il giorno in cui stavo preparando le valige. Sembra che abbi agonizzato per due giorni e due notti. Ma non ne so molto di più, è successo tutto in silenzio, dietro la porta chiusa.

Il corridoio era stretto e pieno di anticaglia. Sentivo dei rimbombicome se qualcuno stesse spostando delle casse di legno. Aprii la porta, ma subito dovetti rientrare. La porta si era appoggiata contro la bara in cui stavano portando la vecchietta. La bara si mise per traverso e non sapevano come raddrizzarla. Sbattevano contro alle pareti, contro ai mobili e la porta. Ho visto la bara luccicante di vernice gialla e ho sentito la gente ansimare. Alla fine, dopo molto tempo, riuscirono ad uscire e udii i loro passi per le scale. Stavo seduto sul letto, sul materasso che sembrava fatto di legno. Avevo dormito qui, vissuto qui per un certo tempo. Forse qualche anno. Le mie due valige, fatte e chiuse stavano accanto alla parete. Quando venni qui nutrivo la speranza che in questa casa nuova, in mezzo a sconosciuti, avrei trovato qualcuno che mi avrebbe aiutato a tornare alla vita. Invece essi piangevano, vomitavano, si confessavano con le loro donne. Iniziai presto ad avvertire un ribrezzo crescente. Poi inziammo ad evitarci, per anni. Ci furono lunghi periodi in cui tutto mi sembrava irreale. La gente, per me, era fatta soltanto di pelle e di carne, sospettavo che dentro non ci fosse nulla; intendo nessuno spirito. Erano degli orribili manichini. Ho visto letterati i cui corpi terminavano con le teste. In quelle teste c’era la bocca, che non si chiudeva mai, in quella bocca avevano denti marci. Tutta quella gente parlava molto, a quel tempo. Erano i primi anni dopo la guerra. Parlavano cosi tanto che alla fine tutto ciò che dicevano non aveva più senso. E per tanti anni alla fine di ogni discussione (o conversazione), nessuno sapeva di che si fosse parlato. C’erano tra di loro cattolici, comunisti e anche coloro che, davanti agli occhi dei radunati, da cattolici si trasformavano in comunisti; cerano anche le comuni cimici, spugne, il diavolo sa chi altri; vecchi, giovani, idioti, moralisti… Le mie osservazioni non riguardavano quasi mai, la gente che abitava in questa casa, di essi tendevo a scordarmi; decisamente mi interessavano poco, non più di quanto mi interessasse la gente di fuori. Se li ho menzionati è stato forse soltanto perché, all'epoca, li incrociavo molto più spesso degli altri. Ho sempre avuto la vista troppo acuta. Nelle teste della gente cercavo subito gli occhi, all'epoca. Essi avevano spesso un'espressione selvaggia, dura, irriverente e crudele. Ai lati della testa la gente aveva le orecchie. Le orecchie avevano semore qualcosa di comico nei maschi che indossavano il cappello. Apparivano nude, bianche o rosse. Una per parte, su ogni lato della testa. Debbo confessare che anche i nasi, in certi momenti, mi sembravano qualcosa di inaudito. Apparivano all’improvviso tra gli occhi e la loro forma sembrava una bizzarria della natura. Quei nasi sporgevano aggressivamente da visi per il resto completamente piatti. A parte questo, la gente aveva due gambe e due mani. Con le gambe avanzava normalmente, modestamente, ma per quel che riguarda le mani, esse sembravano procurare loro un visibile imbarazzo. La gente non sapeva cosa fare con le mani. Anche quella molto intelligente ed istruita. O le tenevano nelle tasche oppure intrecciate e poste su deretano… A volte le appoggiavano spavaldamente sui fianchi, ma anche questo non aveva un granchè di senso. Una soluzione niente male per uscire da quella situazione era il tenere in mano o un giornale, o  i guanti, o  un bastone da passeggio. Si poteva anche tenersi sotto braccio. Nel momento in cui le mani rimanevano vuote, ricominciava di nuovo il problema e si notava uno stupido smarrimento. Le mani cadevano lungo il busto e spesso ciondolavano senza senso. Le teste erano coperte dai capelli. Di tanto in tanto, vedevo gente che portava sopra il labbro superiore un paio baffetti. Ma questa, tuttavia, è per me una terribile storia. Cerco di descrivere, di spiegare quegli stati del “vedere acuto” e mi accorgo che creo soltanto ulteriore confusione. L’uomo muore, ma non riesce a raccontare le cose più importanti. Si muore muti. Si chiacchiererà per cinquant’anni, ma tutte queste parole, dalla prima all’ultima si trasformano alla fine in un mostruoso blaterare. In verità, tutta la gente parla contemporaneamente. Tutti attendiamo la possibilità di poter, finalmente, sfogarci.
Passavo accanto alla gente come si passa accanto alle edicole chiuse. Dal momento che i miei conoscenti avevano gli abbonamenti per entrare alla Filarmonica, andavo ogni tanto ai concerti. Se mi ricordo bene, ero andato una sera ad ascoltare la IX Sinfonia di Beethoven. Vidi sul podio i membri dell’orchestra nei loro vestiti scuri. Stavano seduti davanti ai leggii e tenevano vari strumenti. Dopo si misero a suonare. Stavo seduto e guardavo il coro. I vecchi, poveri angeli nelle camicette bianche… il coro cantava un patetico canto e sembrava quasi che tutti loro, mal pagati esecutori, volessero ascendere al cielo. Nell’ultima fila dei musicisti stava seduto un uomo con un baffetto nero accuratamente pettinato. Quest ‘uomo batteva con inamovibile solennità sul tamburo. Somigliava a Hitler. Un po’ mi annoiavo e un po’ mi sentivo affaticato. La sinfonia mi pareva decisamente troppo lunga. Del resto, nella sala faceva molto caldo e mancava la ventilazione. Avvertivo che era una musica gigantesca, molto grande, ma per me era priva di senso e di significato. In quanto non ascenderemo mai fino al cielo, nonostante lo straordinario sforzo dei martiri dell’arte. Quella musica era come la cattedrale che è situata sulla collina e domina all’apparenza la città, ma che alla fine, conta meno della macelleria cittadina, dello stadio sportivo, del cinema “Apollo” o del gasometro e dell'acquedotto. Ovviamente mi rendo conto che anche il paragonare la sinfonia, o la Cattedrale, alla macelleria cittadina è forzato, demagogico e semplicemente stupido.

Nonostante io avessi già venticinque anni, volevo sapere e capire per quale scopo vivessi. Con fanciullesca caparbietà attendevo la rivelazione. C'era stato un tempo in cui interrogavo la gente, per capire, poi mi ero reso conto che anche questo non aveva senso, che era ridicolo. Per cui avevo smesso di farlo.

Attraversavo lunghi periodi di completo torpore. Non c’ero. E poi cominciavo a muovermi precipitosamente e addirittura ad agire. Volevo sentire di esserci. Per cui cercavo di fare nuove conoscenze, sul treno, per strada. Addirittura attendevo la gente per le scale per parlare con loro. Mi sembrava di dover pronunciare qualche discorso o di dover prendere parte ad una discussione oppure posare la mano sulla gamba di una donna che avevo conosciuto. Allora facevo la valigia e andavo alla stazione, giravo per le sale d’attesa e poi tornavo esausto a casa.

Correvo persino verso i bagni pubblici per sentire anche lì, in quell’eterno ronzio, le voci della vita.

 

LA SUPPLICA

Voglio stare solo e cerco la solitudine. Quando sento bussare alla porta, trattengo il respiro e non mi muovo. Qualcuno sta dietro la porta della mia stanzetta e attende perché apra. Ma io faccio finta di essere partito. La gente mi è venuta così a noia che sono rimasto solo. Io stesso mi odiavo, ripetevo a volte a lungo: “ Perché non sono crepato? Perché non sono crepato, perché non sono crepato?. Sono dei momenti orribili quando sento di non esistere. Sto soltanto seduto sulla sedia, sto soltanto sdraiato, leggo, sento le lezioni, ma non ci sono. L’ambiente, la natura mi era venuta così a noia che per interi anni non sono stato in un bosco, sui campi. Non ho visto i fiori, le api, le farfalle; fissavo soltanto la parete annerita e una pila di vecchi giornali ingialliti, per ore.

Solo. Pensavo che l’uomo può stare solo. Adesso scappo di casa, adesso sono vicino alla follia. Adesso corro per stare più vicino alla gente. Com’è bello essere spintonato, com’è bello trovarsi in quella cattiva, sudata, impaziente massa di corpi. Ah! Sono con voi, sono per sempre con voi. Tutto ciò che mi farete ci legherà. Il male e il bene. Ma non mi lasciate solo. Ero presuntuoso e stupido. Sto seduto nella mia stanzetta e aspetto. Ho nostalgia di un uomo vivo. Attendo la sua venuta. Ogni voce nel cortile, ogni rumore per le scale accelera i battiti del mio cuore. Fermo il respiro. E che sia pure quel piccolo zozzone a cui puzza orribilmente l’alito. Né nuove terre, né stelle, né cime delle montagne avrei salutato con un urlo di gioia come avrei fatto con lui. Sto aspettando proprio lui in questa giornata autunnale, a tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale.

Non mi serve Dio, l’oro, la fama. Quell’uomo che si scomoderà per venire da me non deve essere Socrate, Einstein, Napoleone… Se solo mantenesse la sua promessa questo mio collega, invecchiato, amareggiato, furioso con la gente che puzza di birra e di vecchi stracci. Ci metteremo seduti attorno ad un tavolo, fumeremo orribili sigarette, ripeteremo ancora una volta le nostre povere verità, malignità, pettegolezzi, rancori. Lui mi racconterà di come sia coraggioso, servizievole, nobile e talentuoso e di quanto sia differente da tutti gli altri nostri conoscenti. Non gli verrà nemmeno in mente quanto io gli sia grato per avermi fatto visita. Non verrà mai a sapere che lo guardo come fosse un dio d’oro, il mio creatore, benefattore e salvatore. Lo guarderò con gioia celata, gli sarò per sempre grato di essere seduto a questa tavola, che c’è.

Ma non arriva.

Non sa di essere atteso come l’aria, l’acqua, cibo e luce.

Se sapesse sarebbe venuto da me.

Intorno alle undici di notte fa freddo e non c'è più nessuno in giro.

Sto seduto nella luce elettrica, dietro la finestra c’è buio.

Chiudo la porta a chiave, scendo pian piano le scale. Mi fermo. Origlio.

(1956)

Note: Gorzkowice ( la parola gorzko in polacco significa amaro) - località della Polonia nel Voivodato di LodzDurante la Seconda guerra mondiale la stazione di questa località fu luogo dell’attentato ad un commando tedescoL’azione finì senza rappresaglie per la popolazione grazie anche alla collaborazione degli abitanti volta a sviare le indagini.

Tadeusz Różewicz (Radomsko9 ottobre 1921) è un poetadrammaturgo e scrittore polacco
Le sue prime poesie risalgono al 1938. Durante la Seconda guerra mondiale, militò nell'esercito nazionale di resistenza polacco assieme al fratello Janusz (egli pure poeta), che fu ucciso dalla Gestapo nel 1944. L'esperienza della guerra ebbe su Różewicz un effetto devastante, che si avverte soprattutto nelle prime opere. Con il passare degli anni, la sua ricerca poetica si orientò alle tematiche sociali e ai problemi del mondo contemporaneo. I numerosi volumi di poesia pubblicati dal primo dopoguerra ad oggi hanno riscosso un notevole successo di pubblico e di critica. (fonte WIKIPEDIA)

© Tadeusz Rozewicz
Traduzione a cura di Aldona Palys







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