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Postnovecento
di Patrick Karlsen
Pubblicato su SITO
Anno
2005-
Edizioni del Catalogo
Prezzo €
10-
68pp.
Collana Poesia ISBN
n/a
Una recensione
diCarlo Santulli
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Votanti:
341 Media
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Dire poesia è come dire memoria, e la profonda esigenza di ricordare si traduce inevitabilmente in una discesa senza freni verso se stessi. Eppure, l'esercizio della memoria ci è impedito, a volte vietato, come appare in questa raccolta di Patrick Karlsen, da quegli stessi strumenti ed elementi che abbiamo chiamato intorno a noi, direi tacitamente convocato, per chiarificare il nostro intimo pensiero. Il continuo sottofondo della musica, e del pensiero sopra la musica, della televisione e dell'autoreferenziale adorazione che essa in fondo ci trasmette, la storia importante ed universale sempre aggressivamente prevalente sopra la nostra storia personale, non fanno che distoglierci dalle nostre reali necessità di ricordare.
Eppure, il ricordo si insinua: "Resta da chiedere che cosa rimane" (Le ragioni della disperazione); può essere un'estenuata adolescenza: "[…] Vivevo giornate d'autunno/in cui preferivo ferirmi, sperdermi/nelle pagine di tristi romanzi d'amore" (L'immaturità), o una giornate passata al telefono, mentre fuori piove senza tregua: "Mi telefoni che fuori piove e la luce del cielo è obliqua dalle finestre, grigia" (Mi telefoni che fuori piove); può essere infine una città di frontiera come Trieste, che sembra svuotata, fuori dalla sua storia passata, sia politica che, maggiormente, letteraria: "[…] E' vano/sogguardarla da un'erta di Gretta,/da strada del Friuli o dall'ultimo/piano, sinora in piedi, d'un palazzo" (Trieste è). Così la memoria si rivela per quel che è: necessità, ma anche maledizione, impaccio, che spesso sbarra la strada verso la verità profonda, come fisicamente inserisce cesure quasi subliminali nei versi: "[…] Capiresti/allora la nostra prossimità: all'assoluto".
Certo, la memoria consente anche di giudicare polemicamente la nostra percezione della realtà, di rivedersi come in uno specchio: […] Entro ed esco/da me stesso scovandovi distanza/ghiaccio e inferno, quando in noi/di per sé la salvezza è presente/senza il dovere di fedi e di Dio" (L'incomunicabilità). Lo specchio è un'immagine importante nella poesia/prosa (le due si mescolano e si confondono, fino a divenire una cosa sola) di Karlsen, perché è attraverso una riflessione ottica che al pensiero, e quindi al ricordo, viene concesso di rifluire verso la realtà: "Anche il resto, le persone intorno assunsero allora alla vita reale - ma ogni cosa, forse, alla realtà della vita" (Monoliti orizzontali: l'eclissi). La realtà non nasce prima di noi, perché si confonde con la nostra percezione, nella visione dell'autore; addirittura, il diritto di viverla si riconquista, e non senza sforzo né senza angoscia: "Dobbiamo riconquistare una dimensione eroica/sopravanzando l'umano la carne e il sangue/nelle aspirazioni di freddezza e di silicio" (Aurea condizione mediana).
E' una creazione, quella di Karlsen, che sembra far fatica a sbocciare, perché si fonde in una cultura personale ed ambientale, o per meglio dire triestina, molto complessa e stratificata, ma che una volta originatasi, ha fretta di portarsi in piena luce, di effondersi a spiegare la realtà circostante, tra umanità e natura: "Né la bellezza del cosmo smetteva di stupirmi, e la coscienza della mia parte in esso mi riempiva ogni giorno di una gioia pulita e sottile" (Le sette di sera). Una raccolta senz'altro degna d'interesse, la prima uscita presso le nuove Edizioni del Catalogo di Gianfranco Franchi, per una lettura significativamente profonda e ragionata.
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