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Guardare in se stessi, come con una lente rovesciata, può sembrare di primo acchito un inutile esercizio: in realtà è forse addirittura banale osservare che soltanto rispetto agli altri che veniamo rivelati a noi stessi. Più inconsueto è che in un libro di liriche si parta dagli altri per approdare alla consapevolezza della propria importanza ed unicità (“e crederai di amarti/soltanto perché/ti hanno risposto sì”).
Tuttavia, bisogna riflettere sul fatto che la poesia, quando non è artificio, è vita. E quando è vita, tende, o aspira, alla verità. Non è detto che la raggiunga sempre, a dire il vero, ma lo sforzo, l'anelito per così dire, è parte del gioco e lo rende interessante. E' un po' come la persona che tra la folla si tocca incredulo per esser certo di esserci e di essere se stesso. Alla fine si può sentire, piuttosto che la propria presenza, la propria mancanza, il vuoto di sé. Invece, contro la finzione di una vita in maschera, è urgente una nuova conoscenza di sé, anche se debba apparentemente portare in un inferno, da dove costruire la nostra rinascita.
In questo contesto, questa rinascita è verità, necessità di incontro e luce, da cui credo il titolo della raccolta di Paola Dallardi, “Incontroluce”, una raccolta, devo dire, di insolita coerenza e necessità. In quest'ambito un inno al sole non può che esser rivolto quasi verso se stessi, verso quell'anima intima, nella quale, una volta conseguita la certezza sensibile, la verità desidera e richiede di potersi specchiare (...”non temo/la luce che inonda/il mio sguardo”). Purtroppo però anche il viso può raccontare un falso, perché la realtà finisce per riavvolgersi in sé, e la verità può essere più incrocio di diverse esistenze che sbocco verso la vita vera.
Dalla scelta tra testa o croce, non si può a quel punto rispondere come l'autrice: “Testa e croce”. Je choisis tout in un certo senso. Lo scegliere tutto, l'accettare la complessità, di cui oggi sembra ci sia un rifiuto, che ha indubbiamente radici psicologiche (ed aggiungerei, preoccupanti), diventa così necessità per tendere ad un risveglio (“Ma stiamo ancora dormendo”), alla rinascita di cui dicevo sopra.
Non è una poesia di consolazione questa, ma è poesia che onestamente suggerisce che ci sono ore migliori ed ore peggiori nella nostra vita, e che non possiamo nasconderlo, anche cercando la nostra salvezza nel nostro stesso smarrimento (“ci siamo smarriti/nei colori della paura”). Ci può salvare, dopo il vero risveglio, solo una quasi panteistica fusione nel tutto, che ancora una volta riporta verso la luce, verso il volo dei gabbiani nell'azzurro.
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