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Come fotoreporter, Andrés Falques ne ha viste di cotte e di crude, essendo stato per decenni attivo sui principali teatri di guerra: Cambogia, Cipro, Sudamerica, Africa, ex Jugoslavia... Un giorno ha detto "basta!" e, appesi al chiodo la fida Laica e gli altri suoi strumenti di lavoro, si è ritirato a vivere in un'antica torre di avvistamento nella cala di Arraez. Lo stesso Pérez-Reverte è stato inviato dal fronte per giornali ed emittenti televisive prima di mettersi a fare lo scrittore a tempo pieno. Per finire questo romanzo, che contiene diversi aspetti autobiografici, ha impiegato dodici anni. Il pittore di battaglie è una lettura interessante anche se impegnativa; un libro da leggere con lo stesso "polso lento" con cui è stato scritto. Ottima la traduzione di Roberta Bovaia, anche se sporadicamente appaiono termini "esotici", una deformazione professionale tipica di chi ha assorbito perfettamente la lingua straniera - in questo caso il castigliano -; un esempio su tutti: un cartello avverte "Cani pericolosi" anziché "Attenti al cane"... Ma queste sono piccole étrangetés che arricchiscono, anziché depauperarlo, il testo. Così come l'autore, anche il protagonista è un uomo di mezz'età. Rispolverando la sua antica passione per la pittura, trascorre i suoi giorni dipingendo sulla parete circolare della sua torre-eremo un affresco che si ispira non solo alla realtà che lui tanto bene conosce, ma anche a scene di guerra, duelli epici e scontri assortiti eternizzati da pittori di svariate epoche. Questo processo di creazione dovrebbe servire a rendere tutti gli orrori che l'obiettivo fotografico, ormai divenuto un media perfetto e dunque algido, insensibile, non riesce più a cogliere. Falques è arrivato a comprendere che la fotografia ormai non può considerarsi un'arte poiché non possiede più "l'innocenza" di una volta; ed è arrivato a tale conclusione grazie anche a Olvido Ferrara, una ragazza italo-spagnola che ha voluto seguirlo nelle sue avventure di "occhio volante" e che è saltata in aria dopo aver calpestato una mina mentre era in servizio con lui nell'ex Jugoslavia. E' più una questione di immaginazione che di ottica, aveva detto. Poi era rimasta zitta a guardare quel posto cupo, il corpo della macchina fotografica aperto tra le mani e il rullino montato solo a metà. Aveva chiuso il coperchio con uno schiocco, azionato il motore di trascinamento e sorriso a Faulques, distratta, come se avesse allontanato dalla propria mente tutti i pensieri che in quel momento l'affollavano. Quei due, Géricault e Rodin, avevano ragione: solo l'artista è portatore di verità. E' la fotografia che mente. La perdita della compagna è uno dei drammi personali che hanno segnato la vita del protagonista; l'altro dramma, ancora in corso, lo si può facilmente intuire dalle fitte di dolore che lo affliggono con spaventosa regolarità e contro le quali non c'è altro rimedio che ingoiare pillole analgesiche. Falques sembra aver rinunciato alla vita mondana, rimanendo fuori dall'intreccio di convenzioni e rinunciando ai rapporti interpersonali. Ogni mattina fa una nuotata (trecento bracciate) e di tanto in tanto scende in paese, i cui abitanti lo considerano un tipo alquanto singolare; uno "strambo". Lui non si difende contro i pregiudizi: si è consacrato anima e corpo alla sua attività solitaria e l'unica cosa che gli importa è completare l'opera pittorica, anche se è conscio di non possedere un talento straordinario. Finché davanti alla vecchia torre di vedetta non si presenta Markovic. Questi è un ex soldato croato che Falques ha immortalato molti anni addietro, subito dopo la caduta di Vukovar, mentre i miliziani sopravvissuti ripiegavano in ritirata. Markovic gli annuncia che è venuto fin lì per ucciderlo. La foto, pubblicata su una celebre rivista, ha cambiato la vita del croato in maniera tragica: sua moglie - serba - è stata violentata e trucidata dagli abitanti serbi del villaggio, e con lei è stato ucciso anche il figlioletto. Tra i due uomini inizia una serie di dialoghi filosofici. Entrambi sono alla ricerca di un ordine superiore che tutto spieghi e tutto giustifichi (Falques ha individuato il senso finale nell'arte, mentre Markovic crede nella vendetta come unica soluzione). Servendosi di questo confronto dialettico, Arturo Pérez-Reverte ragiona su quello che ancora ai nostri giorni sembra essere un tabù: il destino della morte e la sua ineluttabilità. Esiste davvero un piano originario o siamo schiavi di cieche casualità? Detto per bocca di Andrés Falques, siamo tutti protagonisti di questa vita e nel contempo non contiamo niente (siamo "formichine"), poiché, quando "il piede del gigante" si abbatte, basta una frazione di secondo (il medesimo tempo di chiusura di un otturatore) per decidere se a morire dobbiamo essere noi o chi ci sta vicino. Siamo niente, eppure ogni nostra azione può avere delle conseguenze inimmaginabili. "Se una farfalla sbatte le ali in Brasile, dall’altra parte del mondo si scatenerà un uragano." Un filo di simpatia si instaura tra il vendicatore Markovic e la sua vittima predestinata. Falques è disincantato e non sembra oltremodo terrorizzato dalla minaccia incombente. Del resto, lui osserva la guerra - e ogni altra forma di morte violenta - come normalità connaturata all’uomo e al suo destino. Fece un mezzo giro. Con un gesto abbracciò la gente seduta nei bar all'aperto e i turisti che passeggiavano sul molo, con le loro abbronzature e i loro calzoncini corti e i loro bambini e i loro cani. "Li guardi. Così civilizzati nei limiti del possibile e finché non gli costa troppo sforzo. Chiedendo le cose per favore, quelli che ancora lo fanno... Li metta in una stanza chiusa, li privi del necessario e li vedrà sbranarsi fra di loro." Intanto, il dipinto murale sia avvia a compimento. Repliche di eroi omerici, cavalieri medievali in armature robotiche, Ak-47, stupri, impiccagioni, duelli all’arma... E' una sorta di "guerra di tutte le guerre" che abbraccia ogni epoca: dall’assedio di Troia fino ai conflitti attuali. Lo stile compositivo farebbe pensare a Picasso, senonché è il medesimo protagonista a rifiutare il paragone, puntualizzando che c’è più guerra in un angolo di tela di Goya o di Brueghel o nello sguardo di un cavaliere di Paolo Uccello che in tutto il Guernica. E ci ricorda che Picasso non fu mai su un campo di battaglia. Combattimenti truci, paesi incendiati all’orizzonte (sono le Torri Gemelle quelle che svettano laggiù?), corpi sventrati... e, in mezzo a tutto, un vulcano in eruzione. Il "barbaro" Markovic osserva l'affresco con sguardo sempre più interessato e va sviluppando un sorprendente senso critico. Questo senso critico lo applica anche alla persona di Falques: lo accusa non solo di avergli causato tante afflizioni, scegliendolo come soggetto di una fotografia, ma di non essere stato sempre imparziale e innocente nel suo lavoro come invece avrebbe dovuto. "Anche il fotoreporter è un combattente" è la pallida giustificazione di Falques. Il romanzo ha un finale abbastanza prevedibile, ma sarebbe assurdo rimproverare all'autore di non aver voluto o potuto sorprenderci inventandosi un espediente meno conforme alla logica umana. Resta nitido il messaggio di fondo: la cultura, oltre a renderci maggiormente consapevoli delle atrocità che impregnano la nostra realtà, è in grado di mettere ordine nel caos; ma rimane pur sempre un analgesico, non è una forma di salvezza.
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