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Caverne/Cavernes
di Serena Stefani
Pubblicato su SITO


Anno 2005- Gazebo
82pp.

ISBN

Una recensione di Mirco Servetti
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 Caverne/Cavernes

Caverne - cavernes è il libro bilinque di esordio in poesia, di questa scrittrice di Pitigliano (Grosseto) che vive e lavora a Gand, in Belgio. Ha 33 anni e alle spalle diverse pubblicazioni critiche sulla pittura e il cinema (si è laureata in lettere moderne all’Università di Firenze, con una tesi sulle figure dantesche nel cinema di Pasolini. Collabora anche con la società Dante Alighieri).

Il luogo, lo sguardo La raccolta di Serena Stefani segna un esordio poetico di compiuta maturità stilistica e semantica configurandosi come luogo aporetico di una paradossale potenza della disseminazione. Venendo a mancare una topologia, questa fallirebbe fin dall’inizio se tentasse di assegnare delle coordinate in un territorio fatto di spaesamento; la topica dell’ebbrezza, in quanto topica dell’immaginario ebbro, trova ovunque casse di risonanza. La Caverna: amplificazione che non perde nulla di ciò che va a diradarsi, nel gioco antieconomico di un fragore che non subisce le cosiddette leggi dell’entropia. Dialettizzare l’ebbrezza per (co)involgerla nella spinta rivoluzionaria significa procedere per accrescimento (F. Masini – La via eccentrica – Marietti – 1986) contro il dettato hegeliano del “togliere conservando”. La Caverna diviene il terreno di coltura dell’immaginario, la sovversione dell’economia dei concetti, la potenza non già del ‘negativo’ ma della disseminazione stessa come affermazione vitale (“Mi empivano, allora quei discorsi-caverna/contro un sospetto di disgregazione./E dentro covavo le protesi, l’identità/di femme spartita,troncone – pag. 61). Ne va del concreto, della corporeità. E secondo questo sguardo, la mano poetante si erge a figura ebbra per eccellenza; aprendo un varco da cui fuoriesce la percezione messianica (e profana) portatrice di una ‘rivelazione’ immanente. Qui sta il senso del “meraviglioso”, non nell’apertura mistica ad un altrove (l’Altro, l’Es, e tutte le teologie residuali), bensì nell’affiorare della contraddizione che resiste ad ogni tentativo di risoluzione. Il meraviglioso appartiene alla superficie, alle increspature che pervadono come un brivido il corpo metamorfico della caverna-labirinto (“Ci sono caverne più grandi del mondo./L’Uno contiene il binario e l’orizzonte si chiude./Caverna significa fine del viaggio,/fine persino dei naufragi.” – pag. 19). Tutto consiste in un rivolgimento dello sguardo, forse nell’adozione di quella che gli espressionisti amavano chiamare “seconda vista”. Lo sguardo “storicistico” non vede altro che il feticcio di un passato ricostruito a propria immagine e somiglianza, non la Storia, quindi, ma la sua finzione. Un prodotto di laboratorio. Riscrivere la funzione stessa della memoria, riaprire la ferita che appartiene al corpo dei cosiddetti “ricordi”: è il tratto specifico di questa poetica (“Da eroe ho vissuto,/scegliendo di esserlo fuori di me./In patria, ho combattuto battaglie di altri:/avevo orrore del personale, dei vasi comunicanti,/degli uteri vuoti (che pure esploravo)./Tutti hanno amato il riflesso/che solo lasciavo apparire, come Medusa.” – pag. 39). Superata l’adiacenza tra pubblico e privato, si mostra pertanto che non esiste un “vedere” individuale separabile o separato dall’ambito del collettivo, nella misura in cui quest’ultimo non venga poi omologato con la dimensione anonima del “pubblico”. Non c’è dubbio che lo sguardo che diventa politico sia innanzitutto malato, ebbro (“Dov’è questo dire(“…nature… bla bla…”)?/Lo voglio vedere graffito sul libro del mondo/di fronte alle spose e ai guerrieri, di fronte ai dottori.) La dialettizzazione dello sguardo ebbro finisce con il ricominciare ogni volta da capo, come se l’infinito diventasse un basso ostinato, e lo sguardo un canto che ne raccoglie la luce nascosta nel fitto delle pieghe più oscure. La “rappresentazione” storicistica è sempre stata sorda. Caverne: labirinti dei ricordi Il ricordo, assenza di libro, assenza di opera, disfa e scompagina gli ordini testuali faticosamente costruiti attraverso la rimozione. Se è caratteristico del rimosso il ritornare, il riaffiorare tra le pieghe del dire in corso come una seconda voce nella prima, il ricordo assomiglia piuttosto alla “pausa” nel senso musicale del termine. Voce senza suono che ferisce il tessuto mnestico senza lasciar intravedere nulla “al di sotto”(“Era caverna illusione del Nero/senza statuto d’essenza(Non era) – pag. 23). Il rimosso è complementare al lavoro di rimozione, è la controparte della memoria. I due sono inscindibili ed abitano sotto lo stesso cielo, territori limitrofi e distinti ma entro una sola legislazione. Ammesso che sia valida la distinzione freudiana, potremmo dire che il rimosso, in quanto figura della nevrosi, sfugge al carattere distruttivo insito nel ricordo, in quanto figura della psicosi (“Siamo nel cieco. Pur senza Edipo/questa è una storia di madri, di padri./E di figli, bien sûr.” – pag. 21). Qui lo strappo è sberleffo, non si produce per esibire un’altra versione dell’accaduto, per raccontare altrimenti ciò che il memoriale non riporta o falsifica. Il ricordo non “fa testo” e si rifiuta al lavoro mnestico (“Non posso che fare cappello a beffa cotanta./Beffa di terra e di sangue. La legge del genos/respira,/è qui nel nanosecondo, nel bit./Come spiegarlo a noi bianchi, fatti comunque di carne?” – ibid.) Alla versione alternativa del rimosso, alla sua pretesa di porsi come discorso sottostante, inter/testo piagnucolante, il ricordo “rammemora” l’impossibilità di stilare “versioni”, comunque si voglia chiamare l’esito del vaniloquio difensivo. E ciò in quanto il ricordo è intransitivo, asimmetrico e riflessivo (“Non ero una donna all’origine, ma un continente/che lascio a suo figlio/(mi solcherà, per partenogenesi) – pag. 33). Disattende se stesso con un gesto suicida. Una scheggia. E quando il linguaggio cessa di esistere nella sua forma servile, vien meno anche il sistema difensivo sul quale si instaura la sintassi. Non c’è più un tempo vuoto e omogeneo da riempire con le sedimentazioni dell’esperienza e del significare. Dissenso dal parlare, allora: da cui scaturisce una scrittura inattesa, impossibile, costellata di ricordi senza alcuna presa sulla memoria (“Ti proverai ad essere pietra/- qui lo siamo da sempre ./Più che vedova bianca: schermo perfetto/per il sistema, pianto ultra-emisfero.” – pag. 79). 


Una recensione di Mirco Servetti



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