Lo so, lo so che siamo già in Quaresima, ma purtroppo il Carnevale, come ogni anno, coincide con uno dei periodi di maggiore produttività (o di minore improduttività, se la vedete come l'attuale ministro...) del mondo universitario. Beh, è un'excusatio non petita (so anche questo): però è tanto per dire che certamente non mi dispiace riparlare di Rosa Tiziana Bruno e delle sue favole, e poi “Sogno di Carnevale” non è un libro stagionale, ma ha una sua validità anche al di fuori del tempo dei mascheramenti e dei coriandoli. Non è soltanto che sto cercando un'attenuante a buon mercato (un'altra attenuante, a dire il vero, è che ho dovuto aspettare che mia figlia avesse terminato di leggerlo), ma è la verità. Questo in vari sensi: primo, perché parla dei difficili rapporti che alle volte i bambini in classe hanno (l'autrice non è una che dipinge, come già visto in precedenza, un mondo per forza color di rosa, ma nemmeno lo copre di una coltre nera): insomma, si parla di bullismo, un qualcosa di brutto e fastidioso che c'era anche ai nostri tempi, ma non aveva un nome preciso. Qui abbiamo Beatrice, che il “bullo”, di nome Mirko, se lo trova in classe. Mirko tira con la cerbottana quelli che intorno a Roma vengono definiti come “cartoccetti”, quei temibili pallini di carta, per lanciare i quali si utilizzava, almeno negli anni '70, quando (sventuratamente) ci sono capitato io, l'interno delle penne biro, svuotato del serbatoio dell'inchiostro e ovviamente del tappo. Devo anche ammettere che simpatizzo con Beatrice, perché io non avrei reagito molto meglio di lei alla bisogna.
Il secondo motivo per cui val la pena di riparlare di Rosa Tiziana Bruno, è che allarga con successo il discorso dal Carnevale alla cultura che lo genera (perché c'è una cultura dietro il Carnevale, anche se sembra ormai diventato una questione di uova marce e bombolette con la gommina). Le maschere in effetti ci dicono molto di quello che eravamo, anche della nostra povertà, ma della saggezza dei nostri contadini di un tempo, delle enormi differenze di classe dell'epoca, insomma del mondo in cui eravamo immersi. Non era molto diversa l'idea di Mascagni e di Illica quando, oltre un secolo fa, portavano in scena “Le maschere” per ritornare all'uso del vecchio teatro italiano e della Commedia dell'Arte. Le maschere hanno una storia, nascono e si sviluppano, spesso cambiando carattere, e naturalmente sono legate agli usi e i costumi regionali, ma la storia delle maschere non è sempre ben nota, se si escludono quelle più famose, come Pulcinella o Arlecchino, ma anche qui miticamente ed in modo un po' approssimativo. Un ricordo è opportuno quindi: però, parlando di maschere umbre, il libro cita il solo Bartoccio, che è una maschera perugina. In verità, nelle zone del Reatino e del Ternano c'è per esempio la maschera della Racchia, che si dice fosse la parodia di una principessa, Reparata, alle prese con nobili recalcitranti alle nozze (giustamente, direi...). Anche se mi dicono che un'altra Racchia è diffusa nel Messinese, quindi in Sicilia.
Poi, l'autrice ci riporta ad un altro dei suoi, direi meritori, interessi, che è la multiculturalità: in effetti, il Carnevale è una festa che esiste in tutto il mondo ed il breve excursus esce efficacemente dalle solite vie della scuola di samba e della parodio dei politici a Viareggio: anche qui, vorrei dare il mio modesto contributo, nel ricordare che in Belgio, e precisamente a Binche, ci sono i cosiddetti gilles, che sono dei pagliacci, però coloratissimi con un cappello bianchissimo ed alto, molto più di quello di uno chef, un efficace contrasto di colori nell'euforia carnevalesca. Si dice che l'origine dei "gilles" sia nel '500, quando un gruppo di cortigiani della corte spagnola, sotto la quale i Paesi Bassi e quindi anche il Belgio erano all'epoca, si siano travestiti, un po' fantasiosamente, da Incas per celebrare la conquista del Perù da parte di Pizarro (maggiori informazioni a: http://www.carnavaldebinche.be, in francese: Binche è nel Belgio vallone).
Dico queste cose, per dare un'idea di quanto si potrebbe allargare il discorso, anche per efficacia didattica, ed anche per sollecitare, ove le copie, come immagino, di questo libretto andassero esaurite rapidamente, una seconda edizione ampliata (di cui mi onorerò, se l'autrice vorrà, di essere il recensore).
In tutto questo, vi starete chiedendo che cosa ne sia stato di Beatrice, di Mirko e dei pallini lanciati con la cerbottana. Beh, in pratica, come nella tradizione dei film western, sono arrivati i “nostri” (qui ovviamente si trattava di maschere, ma il concetto è sempre valido...). E dopo, nulla è più stato lo stesso (neanche il “bullo”).