Credetemi, più delle armi e dell'inquinamento, qui in Italia, ci uccidono i luoghi comuni: «Si stava meglio quando si stava peggio», «Bisognerebbe tornare alla terra», «I giovani sono tutti fannulloni», «E' colpa delle famiglie» e molti altri che non mette conto il mentovare, come direbbe il Poeta. D'altro canto, ciò che non uccide rafforza: ed Alessia Bottone, l'iper-qualificata e precaria autrice di «Papà mi presti i soldi che devo lavorare?», cerca di approfondire e chiarire la questione, non soltanto di questo problema generazionale col lavoro, ma dell'arretratezza culturale che in fondo ne è la causa. Non pensiate però che sia passata ad una saggistica un po' pretenziosa: c'è sempre lo stile che abbiamo conosciuto dai suoi blog e dal precedente «Amore ai tempi dello stage», pieno di umorismo, spesso messo tra parentesi con un po' di amarezza, ma anche di determinazione.
Ricordo anch'io gli inviti, anzi le forti pressioni in certi casi, ad aspettare non si sa bene che cosa, dato che ero giovane. La mia rabbia dell'epoca si è da tempo stemperata, ma mi è rimasta una sensazione chiara di quello che occorre fare in situazioni del genere: non ascoltare i consigli, più o meno interessati, a rallentare il passo, a spegnere il cervello, a lasciarsi vivere (a Roma dicono chettefrega : ecco, appunto a me frega sempre, e vedo di non essere solo...). Purtroppo, a volte, invece di incoraggiare i giovani a trovare la propria strada, li si spinge lungo i sentieri soliti, per tranquillizzare la nostra pigrizia mentale, più che per aiutare loro.
Alessia è una persona avventurosa, ha fatto esperienze molto significative in vari luoghi nel mondo ed oggi si trova a lottare con un sistema italiano, che in realtà è dominato da chi non ha nessuna voglia di investire in niente (non parliamo di rischiare). Poi, vivendo suo malgrado nel modello che ci hanno imposto da qualche decennio (dev'essere una maledizione che ci tocca per i nostri peccati), cioè della pura forma e niente sostanza, una donna che ha uno spessore e delle idee proprie è destinata purtroppo a trovare qualche problema.
In positivo, c'è che questo libro non è l'opera di una persona che si arrende (so che non crederete mai che una tipa così positiva lo faccia, ma lo dico per sgombrare il campo dagli equivoci), ma è un viaggio interiore (anche se con notevoli ricadute esteriori) di maggiore consapevolezza, nel quale si trovano alcune tragiche macchiette italiane (l'ossimoro è voluto) come quello che vuole chiudere tutte le facoltà, esclusa informatica e (forse) ingegneria, anche se gli ingegneri d'oggi non valgono quelli di una volta (e si ritorna da capo) e quello che salta su come una biscia (o come un biscione?) appena sente parlare di umanisti: tutta gente che perde tempo, che non si alza presto (unica e sola caratteristica di chi fa un buon lavoro, oggi abbiamo appreso che una seconda caratteristica è andare dall'estetista) e così via soavemente calunniando. D'altronde, come sapete bene, la ricerca (per dirne una) non serve, perché noi produciamo scarpe: e, come ben sapete, corriamo ancora con le scarpe di cuoio con la suola inchiodata (o coi calzari?), perché appunto noi non usiamo i risultati della ricerca nelle calzature. E quelli che ragionano così (e sono tanti) hanno imparato a leggere da soli, senza bisogno di umanisti, come argutamente commenta l'autrice.
E' un libro divertente, in buona sostanza, ma dà anche un ritratto operativo e dall'interno (sperimentale, direi) del dramma che stiamo vivendo e perché, al di là di un chiacchiericcio diffuso, le cose non si evolvano, non abbastanza almeno. Possiamo fingere di crearci delle alternative, dei piani B come si dice, tanto per mettere a tacere quelli che non smettono di fare prediche e darci consigli, ma la realtà è, come Alessia sa, al punto da metterlo in dedica a questo suo libro, è che non ci sono alternative all'inseguire i propri sogni, perché sono proprio i sogni a tenerci svegli in questa vita.