La persistenza dell'immagine dei cantanti d'opera è, per quanto oggi appaia strano pensarlo, molto legata alla trasmissione della loro voce nel disco, che si tratti dei primi cilindri di ceralacca, o dei primissimi settantotto giri dei primi del '900, o delle successive registrazioni.
La storia che Leda Rivarolo narra è da questo punto di vista molto emblematica: Giovanni Bambacioni, il tenore “che non fu Caruso", non riuscì a creare il mito per i propri limiti caratteriale: umorale, arrogante, sempre pronto alla fuga, ma in fondo un insicuro, che teme il lungo viaggio in mare verso l'America. Tornando alle incisioni, forse Bambacioni ne intuì l'importanza (le registrazioni, per quanto imperfette, ancor oggi icastiche ed efficaci che Enrico Caruso effettuò al Grand Hotel di Milano l'11 aprile 1902, pur con un certo scetticismo, iniziarono a sostanziare in modo definitivo un mito che non muore neanche oggi), tuttavia ritenne di essere troppo importante per chiedere una cifra ragionevole, per cui la voce di Bambacioni rimane oggi avvolta nell'ombra del ricordo, e non è possibile averne un'idea. Canio nei "Pagliacci" e tenore principalmente verdiano, Bambacioni finì, come tanti, a calcare quei palcoscenici di provincia dove un tempo fiorivano degli allestimenti minori, ma non meno curati in molti casi (anche per questioni di orgoglio stracittadino) fino al tramonto nella casa di riposo per vecchi musicisti "Giuseppe Verdi" a Milano.
E' una storia narrata con una prospettiva laterale: in effetti, più che dal protagonista, si parte dalle conseguenze delle sue azioni sulla vita di tante altre persone, a cominciare dalla giovane valdostana Mary, amata, poi lasciata, e dai suoi figli, in particolare il primo, Giulio, mai riconosciuto. Conseguenze che, dato il suo carattere, non possono che essere prevalentemente negative (va ammesso, anche se non senza un certo rimpianto: alle volte la superficialità produce più danni che una cosciente avversione). Ne resta l'impressione di un enorme spreco di talento, direi quasi drammatico, e forse non potrebbe essere altrimenti, perché ogni azione di Nino è esagerata, caricata, come probabilmente si conviene ad una personalità di quel genere, un uomo che fugge con una donna come se stesse provando un duetto d'amore, e possiamo anche pensare che qualcosa della professione scelta penetri nel suo animo, svagato e un po' guascone, ma non necessariamente per superficialità, forse invece per confuso desiderio di vivere una vita unica ed irripetibile.
La scelta dell'autrice di vedere la storia dalla prospettiva di Mary costituisce quindi uno dei principali motivi di interesse del romanzo. Non sarebbe possibile immaginare maggior contrasto tra il carattere un po' chiuso e consapevole di lei e la frivolezza un po' roboante, che era propria in certo senso dell'ambiente operistico dell'epoca, ancora teso ad un'ultima estate di San Martino, prima che il cinema ne riducesse drasticamente il raggio d'azione e conseguentemente il contorno divistico (anche se, pur concentrato su pochissimi nomi di grido, dura fino ad oggi).
“L'uomo che non fu Caruso”, mostrando efficacemente come gli uomini tragicamente a volte costruiscano effimere (ma anche meno effimere a volte) fortune sulle macerie affettive e morali che lasciano attorno. E questa è senz'altro una riflessione di grande respiro, che fuoriesce con chiarezza dalle pagine di questo romanzo.