La ripetizione liberamente sensuale e caldamente ossessiva nelle poesie di Maurizio Piccirillo spiega l'amore come frammento, come scheggia di una vita che in realtà è “altra”, altra nelle sue fobie, da cui l'amore libera, o altra nella solitudine, che sopisce l'anima e che rappresenta l'ineluttabile destino da cui l'amore aiuta a fuggire. Il consumarsi di una candela, la sincope di una danza, la musica di un violino e lo scendere della sera possono essere tutte metafore di questa condizione umana, che aspira all'amore infinito ed è sempre compressa, se non raggelata, dalle circostanze della vita reale. In tutto questo, nell'immagine della donna amata, che può essere uguale e sempre diversa, lungo un sentiero fittizio, ma luminoso, che la poesia stabilisce, si spegne e si esaurisce la persona del poeta “In un angolo di una stanza vuota/si accartoccia/la mia presenza”. E' un'alternarsi presenza/assenza, un inseguirsi voluttuoso non meno che conviviale, misterioso, ma palpabile ed appunto sensuale “scorgo il tuo passaggio felice/celato/tra dietro gli alberi”, dove l'amore è leggenda, ma la leggenda non ne impedisce lo svolgersi ed il dispiegarsi tra le circostanze dell'esistenza. Il gioco dei rimandi e degli inseguimenti da un'immagine all'altra e da un incontro ad un altro, si interrompe in un'attesa, dove l'ansia dolorosa è mitigata da una sottile e vivace speranza: “ora attendo/in pacato silenzio/il tuo ritorno”. C'è una malinconia persistente ed insieme una voglia di vivere, di “truffare la morte” in certo senso, come nell'immagine dei giovani abbracciati sulla panchina “nella speranza/di invecchiare insieme”. Si sente, da parte del lettore, la necessità di fermarsi, di interiorizzare queste brevi liriche, che pur muovendosi su un piano di totale estroversione ed aperta dichiarazione d'intenti, hanno un loro significato, una loro bellezza un po' sfrontata. E allora si comprende che il referente di Piccirillo è nella classicità, nella sincerità assoluta, un po' catulliana dei carmi d'amore, e che è all'amore classico che l'autore chiede, forse inconsapevolmente, di liberarci da quella vita moderna che, pur complessa e ricca, può evolversi in angoscia e disincanto. Sta al recensore, con un certo superficiale rossore, ammettere che in “Sentieri”, tra gli alti e i bassi di una natura poetica giovane ed esuberante, esiste un senso di misura, seppure irrequieto, una misura che porta ad un gradito ritorno a valori ed a sentimenti che conosciamo e che non possiamo impedirci di apprezzare. Sono versi che sembrano a volte consueti, antichi, ma che ripetute letture ci garantiscono come solidi e meditati, oltre che musicali e sonori, al di là della fretta apparente dello schizzo lirico. Una silloge breve, che si legge d'un fiato, e che ha la voce della sincerità, una sincerità ingenua, ma non banale, velata di un amore intenso, che solo può salvarci dalla dispersione e dall'oblio.