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Questo romanzo di Giovanna Giolla “Vermi”, edito dalla Tea, sono in realtà due romanzi intersecantisi, uno, non privo di fascino, ambientato nell'India delle caste, dei templi e della diffidenza, probabilmente giustificata, per l'Occidente, ma anche dei respiri che sanno di spezie, della festa della luce (o Diwali) e dei treni con ritardo indeterminato, e tendente all'infinito. Poi però c'è una Milano improbabile di un vieppiù improbabile call center erotico, pieno di donne con storie contorte ed anch'esse altamente irreali. E naturalmente coca, fumo, e molto sesso. In una parola: trasgressivo. E qui il lettore (cioè io) si disorienta un po'. Apprezzo alcune finezze stilistiche e la scrittura densa dell'autrice, che, per esempio, parlando della madre della protagonista Monserrat, dice: “E' stupendo quello che succede alle pietre: rubano il calore, il profumo a chi le indossa. Abbracciarla quando ha le pietre è come attraversare un mare di onde senza lo sforzo di nuotare”, in un crescendo molto romantico. E poi ci sono le poetiche pagine su Jaipur, il che va tutto all'attivo di questa lettura.
Tuttavia, mi trovo poi coinvolto, e realmente sommerso (come il mare di cui sopra) in un vortice di vestiti alla moda, incontri con gente elegante, che si sballa d'accordo, ma veste Dolce e Gabbana, insomma consumistico all'ennesima potenza, e finisco in una storia di vibratori ed idromassaggi: si cita “Sex and the city”, ma si tende al concretamente pornografico. E allora mi perdo, anche per alcuni passaggi (siamo nel frattempo tornati in India, e con uno yogi) che mimano Baricco: “Il maestro vuole continuare il gioco degli incantesimi. La seconda volta, azzardo. Scelgo il mare. Lo osservo lentamente. Affascinata”. Siamo passati anche dalle parti di Federico Moccia, evidentemente, perché è successo che “Prima di chiudere Davide ha detto con un dolcissimo sbaglio Ti amo e non ciao. Mi sgorga una felicità così profonda, un travaglio: ti amo, mi ama”. Arriverà anche un anello con diamanti di Bulgari naturalmente.
Il lettore (sempre io) a questo punto è colto da un sospetto: non è che tutta questa trasgressività (sesso e droga, rock and roll poco purtroppo) alla fin fine non sia il più piatto dei conformismi? Certo, un conformismo nuovo, cioè rivoltato, come si faceva coi cappotti. E mi spiace sinceramente che l'autrice, parlando di Monserrat e presentando il suo diario, nel tentativo di narrare una bella storia indiana, molto piena di drammaticità e di suspense, voglia (o debba) inframmezzarci tutta la solita menata della Milano da bere e da drogarsi, della quale, francamente, non c'è più nulla da dire. Viceversa, per “farlo strano”, a rigore, non c'è bisogno di andare in India, né di sballarsi, né tanto meno di vestire con abiti firmati, specialmente poi se alla fin fine si tende ad un sentimentalismo un po' mieloso. Essere obiettivi e non giudicare le solite cose che non vanno giudicate (sesso, droga, ecc.) non significa non avere un'idea propria della vita, e se l'idea della vita è quella di Monserrat, c'è, ahimé, ben poco di nuovo. Anche perché mi allarma l'ennesima volta in cui in un romanzo giovanile si parla a nome di un'intera generazione: “La mia è una generazione di esploratori che non vogliono risposte. Ci muoviamo come un virus, ammalando e ammalandoci”. Anche Moccia parla a nome di una generazione (per inciso, non la sua). Insomma, per concludere, un'occasione perduta per raccontare una bella storia: la tecnica c'è, e credo ci sia anche la storia. Basterebbe liberarsi dalle scorie del conformismo, anche se si vela di trasgressività.
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