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Venere io t'amerò
di Monica Cito
Pubblicato su PB17


Anno 2005- Giulio Perrone
Prezzo € 11- 142pp.
Collana Onde
ISBN 8860040256

Una recensione di Carlo Santulli
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 Venere io t'amerò

"Vuoi mettere uno scrittore calmo, non vessato dalla vita, con in testa un'idea precisa di ciò che vuole raccontare ed una come me, che ha dedicato il suo tempo a capire e scrivere una folle biografia?" (p. 140).
E' una frase che, posta quasi alla chiusura del romanzo d'esordio di Monica Cito, "Venere, io t'amerò", punta senza reticenze, ma con una specie di ingenua vitalità, al grande dilemma della letteratura: se si debba raccontare se stessi, e farsi narrazione, o se si debba trascendere la propria autobiografia, e cercare di scrivere altro. In realtà, i due estremi si toccano, e forse si confondono: lasciando libero spazio ai pensieri che vagano su qualunque tema, financo sulla morte, e sulla mancanza di poesia in cui l'abbiamo, modernamente, racchiusa. I morti che diciamo (poeticamente) finire sottoterra, quando invece sono (prosasticamente) rinchiusi sotto una colata di cemento, sono un’efficace metafora dell’apparire, invece che essere, apparire per necessità in quanto schiacciati sotto un giudizio sociale, che non lascia requie né perdono.
C'è una vena trasgressiva in "Venere, io t'amerò" ed una rabbia che sembra sempre sul punto di rompere gli argini della pagina, e di traboccare in un'invettiva piena di livore e, diciamolo, una certa dose di vittimismo. All’altro estremo, c’è anche la dimensione vagamente favolistica, cui Monica Cito non pretende che noi crediamo fino in fondo, ma che, tra demoni troppo umani e moderni e mesi d'invenzione, come ottembre, mese del calendario personale di Luce, ha il risultato di mettere tra virgolette la rabbia e la necessità di esprimere se stessi.
Per questo, non mi piace descrivere questo testo interessante solo in termini di un’esperienza personale di sessualità diversa nell’Italia del sud-est. Piuttosto l’autrice cerca, basandosi su questa sofferenza psicologica e fisica, spesso ai confini della disperazione, di costruire autonomamente il suo romanzo, che superando l’esperienza personale, possa raccontarla realmente. I filtri culturali utilizzati, primo fra tutti una distaccata, a volte acre, ma spesso efficace, autoironia, riescono non a velare la storia, ma a rivelarne il vero significato.
Personalmente, la dimensione trasgressiva di questo romanzo mi colpisce fino ad un certo punto, e stona leggermente, specie nel momento in cui l’autrice vuole denunciare una situazione, la svagatezza e l’assenza di meta precisa che il romanzo alla fine rivela, come in controluce. C’è sì quel senso di soffocamento che pare, in associazione col sole inquieto ed ossessivo dei giorni d’estate, inevitabilmente collegato alla piccola vita di provincia ed alle sue meschinità, familiari e paesane, ma non tutto è nuovo, molte immagini sono nel complesso ben note e quasi stereotipate, e sembra mancare la reale nemesi della protagonista, fortemente autobiografica, ma che resta fluttuante intorno alle sue paure ed alle sue incertezze. Il diario non si evolve, rimane raccolto nella propria natura provvisoria, in attesa di una “bella copia” che non verrà, non ancora. E non verrà perché forse solo lo “scrittore calmo”, di cui si diceva all’inizio, potrebbe produrla: è l’eterno contrasto tra la forza della storia da raccontare, il necessario outing, che non è solo sessuale, ma letterario, e la necessità di riviverla e narrarla a se stessi davanti ad uno specchio, per raggiungere lo scopo che ci si è prefissi. Più in generale, penso che quando l’autrice si sarà “liberata” nella e dalla sua storia, verrà anche quel “primo romanzo” che ella auspica: la capacità di scriverlo mi sembra ci sia tutta, e si coglie senza difficoltà, pur tra le imperfezioni ed a volte le ridondanze di questo “secondo romanzo”.


Una recensione di Carlo Santulli



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