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«Esodi» (AndreaOppureEditore, Roma, 2003) e «Il lumino» (Nuova Impronta Edizioni, Roma, 2001): due sillogi a confronto, due libri di liriche (indubbiamente ottimi ed esemplari, questo è indiscutibile, però se vogliamo antitetici) scritti rispettivamente dal critico di ascendenze croate Roberto Dobran (affettuoso conoscitore e studioso della civiltà istriana) e da un autore davvero prolifico, Armando Romano, attivissimo come operatore culturale e già apparso in un’altra occasione sulle pagine elettroniche di «Progetto Babele».
Ma (dopo le presentazioni di circostanza e, quindi, i doverosi cenni biografici) torniamo pure ai volumi in oggetto e paragoniamoli brevemente, osservando innanzi tutto che nel primo – fra eleganti paronomasie, a tratti dissimulate o sottintese, che alludono con astuzia a riflessioni epigrammatiche in cui l’ironia e la speranza si fondono, per ricombinarsi in un particolare humour filosofico – la vita viene inderogabilmente classificata come esilio cronico e ininterrotto: come viaggio eterno (cioè inconcludente, labile e senza meta), che non sa portare ad una risposta (certa, probabile o anche solo abbozzata) i vari coraggiosi che lo intraprendono, perché inizia regolarmente proprio quando si è persa ormai la strada e, dunque, ogni possibile risposta o spiegazione. Invece Armando Romano trova un sentiero infallibile che, identificandosi esclusivamente con Dio, si traduce in una fede tracciante e sincera, da professare quotidianamente con insistenza evangelica, così che si dilati fra segni e sogni fino alle dimensioni di una risposta alla vacuità della vita: una risposta d’emergenza, ma ferma e sistematica, che – attraverso le cadenze sagaci e scarne dell’aforisma o quelle più ampie del salmo biblico – trasfigura la poesia in un pane quasi mistico, da spezzare e condividere insieme per dare origine ad un rito comune che affratelli gli uomini, lettori o scrittori che siano, nella chiesa della gioia. O, almeno, della speranza.
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