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La marina del mio passato
di Alejandro Torreguitart Ruiz
Pubblicato su PBSR2006
Anno
2003-
Il Foglio
53pp.
ISBN
Una recensione
di
Salvo Ferlazzo
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Il libro di Torreguitart Ruiz riesce a cogliere un aspetto della condizione umana da una prospettiva diversa, nella quale si trova immerso l’uomo in rivolta contro l’assurdità, la sofferenza, l’ingiustizia. In questa sua attività iconoclasta, egli si sforza di creare un valore morale fondato su un’idea: l’integrità dell’individuo che si muove lungo un percorso che è politico, morale, emozionale, legato più ai ricordi che alla memoria, perché è lui stesso la memoria.
Intanto parte da una constatazione “ Ma vivere si sa, non è come pescare. Non ci sono trucchi e tecniche infallibili, non ci sono esche da dosare e lenze da tendere con particolari accorgimenti”.
Il libro non è un pamphlet sull’esistenzialismo. E’ un diario dell’esistenza che in maniera sinuosa, si muove tra un presente che deideologizza l’atteggiamento remissivo di un io narrante, che non può lasciare la rivolta dell’esistente a una vuota tensione che ripete se stessa; e un passato fatto di miseria e umiliazione che è la preparazione di uno spirito di rivolta contro l’ingiustizia sociale.
“ Solo pesca e piccoli commerci. Affari da un dollaro la libbra con vecchi stranieri che dormono e mangiano in posti da trecento dollari al giorno”.
Il pescatore è la forma stessa della vita. Lui ha scelto. Compie l’atto di riappropriazione del mondo, come dimora esclusiva della coscienza.
Come allo stesso modo scelse la vita del ribelle per “ sopravvivere, non per la rivoluzione”.
Egli vive questa rivoluzione, e la vittoria finale, non come un fattore di modificazione dei vecchi dogmi, cui contribuiscono l’impegno, l’atteggiamento di lotta del guerrigliero, ma piuttosto come una cesura tra il passato trascorso sui monti e il presente che lo vede nella sua casa”…protesa davanti a Miami”. E Miami non si vede, perché gli Stati Uniti sono lontani. Irraggiungibili.
I giochi dei fanciulli scoprono l’America nel mito dei cowboys e degli indiani, con quest’ultimi che rimangono confinati nelle riserve, sconfitti, ma fieri del loro passato.
Ebbene, il pescatore ha anche lui la sua riserva: è la sua casa. Quella casa dalla quale lui non si è più mosso da quando ha conosciuto Clara.
In lei ha creduto. Per lei ha vissuto. Con lei ha diviso tutte le sue giornate, mentre si affacciavano sul mare del loro presente. Vivono con loro le forme e i colori di quel mondo racchiuso dall’oceano, le palme, le mangrovie salmastre, il cielo.
Paradossalmente la morte di Clara si muove all’interno del personaggio-pescatore su due livelli apparentemente contrapposti: come fatto individuale, che gli assicura, temporaneamente, la certezza della sopravvivenza, e come fatto apocalittico legato alla contingenza umana, che assorbe l’aspetto negativo dell’esistenza.
L’esistenza si ancora disperatamente al ricordo amaro, che fa male al cuore, e il suo ricordare è quasi una certificazione dell’abisso tra l’essere e il mistero.
In questo abisso il pescatore trova la sua Guernica.
La disperazione dell’uomo-padre (…Un figlio maschio, che dopo mi avrebbero ucciso in Angola) è il margine estremo cui costringe la dolorosa sensazione fisica di aver perso un figlio in un paese lontano da quella terra che adesso ne giustifica l’appartenenza.
Così come ne giustificò l’appartenenza a quelle dottrine infallibili che, disordinatamente, portavano all’inevitabile miglioramento del genere umano, sotto il controllo ossessivo dell’istituzione, in una esibizione arbitraria del “politico” nella realizzazione di tutti gli ideali di giustizia e libertà.
Il pescatore comprende, nella sua semplicità, che i due termini della rivoluzione, per quanto antinomici, sono stati pressoché neutralizzati da due pericoli: una “pretention a l’eternel” che lo costringe all’accettazione di un valore sovrumano che vuol dire tacere, o divenire null’altro che “il portavoce o l’eco della divinità” (…ribelle per sopravvivere, non per la rivoluzione); il secondo è il pericolo del realismo politico con il quale si giustifica la menzogna, la crudeltà nonché l’assassinio degli oppositori, ma che in lui diventa ricerca di emozioni antiche (…io ritornai su quei monti a caccia di traditori. Non per la patria o per Fidel, ma per me stesso).
Per un attimo la coscienza-pescatore riprende la dimensione di una coscienza che offre una costruzione privata della felicità, la quale smaschera l’identità dello Stato (…allora lavoravamo tutti per lo stato, perché credevamo…), per ritrovare la propria identità nella lotta.
Una lotta che è la prosecuzione, in antitesi, di quella sulla Sierra, al fianco di Camillo, padre per caso, dove il pescatore mette alla prova la sua individualità in uno scontro radicalizzato, nel tentativo di sottrarre il suo “personale” ad una esistenza totale.
Il binomio inscindibile, pescatore - Clara, trova la sua prassi creativa, che è bellezza e felicità “…in quello scorcio di mare davanti al nostro passato”.
Il rovesciamento concettuale del mare del “nostro presente” in quello del “nostro passato”, è la certezza di una vita che scarnifica la massiccia presenza della solitudine fino a stemperarne i colpi in una identificazione con il dolore di Clara.
Nella tragica dialettica di una conoscenza che espande il concetto di amore, se ve ne fosse bisogno, oltre l’evento di una duplice morte, il pescatore e Clara si ricongiungono contro l’assurdo. L’epilogo tragico, inevitabile, sollecita questa riconciliazione.
Il libro di Torreguitart Ruiz coinvolge interamente mentre attraversa il nostro agire e il nostro pensare, de-ideologgizzando i simboli rivoluzionari, ma diventando esso stesso rivoluzionario, integrando momenti di mediazione collettiva con momenti di una soggettività immanente, seguendo il ritmo di un mare che accompagna i nostri passi verso il domani.
La dialettica vita-morte si snoda lungo un percorso esistenziale le cui coordinate sono: “uccidere o
morire”, come prova che la scelta ideologica consequenziale ha, sul piano effettuale, la morte. Egli diventa assassino, non giustiziere.
Per questo egli esce dalla “storia”, ed entra nell’”uomo”.
Riappare, così, nella sua veste, prima improponibile, di soggetto che rinuncia all’appagamento del “proprio” politico, per acquisire quella comunione dell’”essere” in una mediazione emotivo-passionale, che, anche se mutilata, simboleggia la certezza di un valore umano inesauribile.
Una recensione di Salvo Ferlazzo
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